venerdì 29 gennaio 2016

The hardest part is staying in one place: "Della mutabilità" di Jo Shapcott, prima traduzione italiana a cura di Paola Splendore per Del Vecchio Editore

Quando si scrive o parla, spesso a vanvera e noiosamente, di editoria di poesia non sento quasi mai fare il nome di Del Vecchio Editore. Eppure già da tempo quest'editore ha dimostrato di proporre annualmente in media tre titoli poetici interessanti che vanno ad alimentare il versante delle "forme brevi" di un catalogo che sta prendendo una forma sempre più nitida, "seria" nel senso più bello del termine. Si tratta sinora di sole traduzioni. Hilde Domin, di cui si è già scritto qui, funzionò da apripista. Anche dal punto di vista del progetto grafico complessivo, i libri di quest'editore, usciti dall'occhio di Ifix e Maurizio Ceccato, creano uno squarcio nuovo, sin dalla copertina ma anche per come avvolgono il testo nelle pagine che stanno tra copertina e quarta di copertina. Insomma, si vede che sono copertine e apparati ragionati e lavorati a lungo che non hanno molti uguali nel panorama. E i titoli della collana di poesia sono ancor più dentro quest'avventura grafica ardita. Prendete in mano se vi capita questo recente Della mutabilità della poetessa londinese Jo Shapcott (pp. 200, euro 15, traduzione di Paola Splendore) e una sfogliata varrà più delle mie parole introduttive. (Ho scritto "poetessa". Devo usare "poeta"? Volete aprire l'ennesimo achmatoviano sondaggio su "poeta" vs. "poetessa" per una "donna che scrive poesie"? Davvero è una questione così interessante e cruciale?)

Anche Jo Shapcott rappresenta una prima traduzione italiana di un'autrice che si augura giustamente che la poesia sappia ancora essere pericolosa e scomoda ("Se non turba, non funziona" vuole una sua citazione riportata negli apparati grafici suddetti). E sin dal titolo e dalla bella poesia introduttiva Shapcott "se la prende" con questo concetto fondamentale per la vita di qualsiasi artista e quindi nella vita di qualsiasi forma. Ma anche altrove questo pungolo è presente, come ad esempio nello scritto dedicato a Elizabeth Bishop e più in generale alla poesia. Il contributo intitolato "Confondere la geografia" riportato in apertura del volume conclude infatti così: "Le guerre di questo secolo, la fine dell’impero, l’aeroplano, il tunnel della Manica, il web, il ruolo delle donne, il potere delle multinazionali, la prevalenza di buona letteratura in inglese scritta altrove, le nostre mutate prospettive all’alba del nuovo secolo, tutte queste cose messe insieme ci dicono che la storia insulare dell’Inghilterra, la piccola Inghilterra, è finita. Confini, margini di territori e di lingua, casa e corpo, terra e acqua hanno da sempre offerto rifugi attraenti alle donne scrittrici che hanno capito da tempo che si potrebbe semplicemente lasciare entrare l’altro o setacciare ogni detrito sospinto a riva."

Mutabilità, dunque. Eppure, ha notato correttamente Frances Leviston su "The Guardian", recensendo Of Mutability alla sua uscita, che "molte delle poesie sembrano più interessate all'equilibrio che alla mutabilità: quei momenti in cui forze di cambiamento in opposizione si accoppiano o si negano a vicenda. Bolle e goccioline, le quali dipendono da un perfetto equilibrio e pressione dell'aria interna e esterna che mantenga la loro tensione superficiale, portano molto del peso emblematico, comparendo letteralmente in una fontana o un getto di piscio, o quali metafore dell'esperienza fisica [...] Sono le stesse poesie che possono sentirsi come bolle - formali, delicate e tremanti di schiettezza - e sembra che Shapcott desideri fortemente raggiungere la trasparenza e la semplicità che tali metafore consentono".

‘The hardest part is staying in one place.’ leggiamo nel mezzo della poesia "The Bet": il senso del luogo, nessun senso del luogo e oltre il senso del luogo. "Place to be", per Nick Drake. A metà anni Novanta uscì un libro di Joshua Meyrowitz intitolato proprio Oltre il senso del luogo. In realtà il titolo inglese era No Sense of Place. Parlava di media elettronici e del loro impatto (anche se sarebbe più corretto parlare oggi della sindrome da "evitamento" da loro introdotta) nelle vite delle persone. Oggi tutto questo va rivisto, aggiornato, rianalizzato. Spesso il risarcimento della poesia può essere, come nel caso di Shapcott, il senso di uno o più luoghi, di riappropriazione e abbandono definitivo del senso del luogo/posto. A ben pensare, una poesia interessante accade quando ci informa pienamente di un posto, delle combinazioni tra posto sociale e posto reale e mentale. Quel che Shapcott è brava a fare, in molti di questi testi, è proprio questo.

Chiudo con la title-track e un video con una sua lettura.

DELLA MUTABILITÀ


Troppe delle cellule migliori del mio corpo
prudono, frastagliate, inacerbite
in questa gelida primavera. È il duemilaquattro
e non conosco un’anima che non si senta piccola
nella folla. Rasa a zero.
Abbassa gli occhi questi giorni e vedrai che i piedi
non si fidano del marciapiedi e le tue analisi del sangue
incupiscono il volto del dottore.

Alza lo sguardo e con la coda dell’occhio coglierai
eclissi, foglia d’oro, comete, angeli, lampadari,
raggiungili se vuoi, impara l’astrofisica, o
il canto folk, il sacrificio umano, la mortalità,
a volare, pescare, il sesso senza toccarsi troppo.
Ma non ti preoccupare, però, di andare altro che in cielo.



OF MUTABILITY


Too many of the best cells in my body
are itching, feeling jagged, turning raw
in this spring chill. It’s two thousand and four
and I don’t know a soul who doesn’t feel small
among the numbers. Razor small.
Look down these days to see your feet
mistrust the pavement and your blood tests
turn the doctor’s expression grave.

Look up to catch eclipses, gold leaf, comets,
angels, chandeliers, out of the corner of your eye,
join them if you like, learn astrophysics, or
learn folksong, human sacrifice, mortality,
flying, fishing, sex without touching much.
Don’t trouble, though, to head anywhere but the sky.

 

mercoledì 27 gennaio 2016

Un contributo di Luca Rizzatello sull'editoria di poesia

Pubblico di seguito un contributo di Luca Rizzatello di Edizioni Prufrock spa sull'editoria di poesia. A mio avviso, a differenza di altri articoli su questo "tema" letti da un anno a questa parte, non è affatto noioso e ripetitivo. Mi pare utile, inoltre. Questo scritto è già apparso sul sito Diaforia.org. Ringrazio l'autore e la redazione di Diaforia.org per aver concesso di riproporlo qui.


“Ma qvesto,” 
said the boss, “è divertente” 
catching the point before the aesthetes had got there 0 

Jonathan Swift ha scritto che per esempio, si è dato il caso di pirati spinti dalla tempesta verso regioni sconosciute; un loro mozzo scopre terra dall'alto dell'albero maestro; essi discendono per rubare e saccheggiare; trovano un popolo inerme che li riceve amichevolmente; essi danno un altro nome a quel paese e ne prendono possesso a nome del loro re; piantano un palo fradicio e innalzano una lapide per ricordo dell'avvenimento; ammazzano qualche dozzina d'indigeni, ne portano seco uno o due come campioni, tornano in patria e ottengono la grazia sovrana. Laggiù, intanto, s'inizia un nuovo dominio fondato sul diritto divino; alla prima occasione viene mandata colà una flotta e i naturali di quella vergine terra sono scacciati o uccisi; i loro capi sottoposti ai tormenti perché confessino dove tengono i tesori; insomma accade tutto quanto può immaginarsi di crudele e di svergognato: i disgraziati aborigeni arrossano di sangue il suolo del loro paese, e quella ciurma di furfanti che si è distinta in un'impresa così degna, prende il nome di “colonia” mandata per recare la civiltà tra un popolo barbaro e idolatra1, invece Ezra Pound ha scritto che la critica inglese e americana della generazione precedente alla mia, e l'attività del tutto spregevole e maledetta della burocrazia letteraria al potere (materialmente al potere nelle redazioni, nelle case editrici, ecc.) si sono risolte più che altro nella vacua asserzione che la giraffa non esiste, e magari non solamente la giraffa, ma intere tribù di animali, il puma, la pantera, il ben noto bufalo indiano. Pecore e giovenchi castrati essi ne avevano visti, ma non si poteva permettere che un W. H. Hudson tornasse dalle Ande portando notizia di uccelli che «fin dall'antichità abitavano la terra», né che un Beebe si calasse in acqua con un apparecchio brevettato per tirare fuori dalle profondità marine nuove sorta di pesci. La più grossa di tutte le bestie era l'alce cornuto del Dominion, e così via. Bisognava pure segnare dei limiti al concetto di fauna. E via di questo passo. […] Il naufragio di un vascello nel secolo quindicesimo poteva spiegarsi come un’azione divina, mentre un disastro in una tempesta di uguale gravità, ai nostri giorni, sarebbe dovuto a una grossolana negligenza vuoi nella costruzione, o nella navigazione o nella sorveglianza delle macchine. Vi sono infamie nell’anno XII altrettanto assurde della morte per sete nella città di Londra. C’è un TEMPO per queste cose. È del tutto ovvio che non tutti noi viviamo nello stesso tempo.

Le due citazioni, mutato il gradiente allegorico, esprimono lo stesso principio: l’ultima parola in merito al nuovo – e quindi in merito alla tradizione – qualcuno la deve avere; in altri termini: qualcun altro non la deve avere. Inoltre: in entrambi i casi, c’è la premessa esplorativa, poi l’incontro con l’altro, infine il processo di normalizzazione. 

Secondo i dati ISTAT, nel 2015 si stima che il 42% delle persone di 6 anni e più (circa 24 milioni) abbia letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Il dato appare stabile rispetto al 2014, dopo la diminuzione iniziata nel 20113. In questo articolo si parlerà di fare libri, e nello specifico di fare libri di poesia, pertanto il dato andrebbe notevolmente ridimensionato; tuttavia, è un buon punto di partenza. Personalmente, credo che per il rimanente 58% delle persone (che di fatto non rimane, semmai è il contrario), sia un diritto non leggere almeno un libro nei 12 mesi precedenti l'intervista per motivi non strettamente scolastici o professionali. Però, in quanto editore, ho il dovere di pormi la questione da un punto di vista tecnico, e cercare di capire, per esempio, se in quel 58% siano presenti delle persone che potenzialmente potrebbero leggere un libro pubblicato dalla mia casa editrice, e, nel caso di risposta affermativa, cercare di capire le ragioni del mancato contatto tra queste persone e i libri della mia casa editrice, e quindi trovare una soluzione. 

Io penso che una casa editrice dovrebbe tendere alla produzione di un paradigma, costituito da elementi che contraggono tra loro una relazione virtuale di sostituibilità, e che, soprattutto, preveda il principio di falsicabilità. 

Karl Popper ha scritto che in occasione di una lezione che ho tenuto in Germania non molti anni fa ho incontrato il responsabile di una televisione, che era venuto ad ascoltarmi, insieme ad alcuni collaboratori. Non ne faccio il nome per non personalizzare il caso. Ebbi con lui una discussione durante la quale sostenne alcune orribili tesi nella cui verità egli naturalmente credeva. Diceva per esempio: “Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole”, come se si potesse sapere quello che la gente vuole dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni. Quello che possiamo ricavare da lì sono soltanto indicazioni circa le preferenze tra le produzioni che sono state offerte. Guardando quei numeri noi non possiamo sapere che cosa dovremmo o potremmo offrire e lui, il capo di quella televisione, non può sapere che cosa la gente sceglierebbe se ricevesse proposte diverse dalle sue. Il fatto è che egli crede veramente che la scelta sia possibile soltanto nell’ambito dell’offerta così com’è e a questo non vede alternative. Nella democrazia, come ho sostenuto altre volte, non c’è nient’altro che un principio di difesa dalla dittatura, ma non c’è neppure nulla che dica, per esempio, che la gente che dispone di più conoscenza non debba offrirne a chi ne ha di meno. Al contrario la democrazia ha sempre inteso far crescere il livello dell’educazione; è questa una sua vecchia, tradizionale aspirazione. Le idee di quel signore non corrispondono per niente all’idea di democrazia, che è stata ed è quella di far crescere l’educazione generale offrendo a tutti opportunità sempre migliori. Invece i principi che lui mi ha illustrato hanno come conseguenza che si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori e che l’audience li accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie più si educa la gente a richiederne. E dal momento che questo tipo di intervento è il più facile a capirsi da parte dei produttori e quello che produce una più facile reazione da parte dell’audience, si determina una situazione per cui si smette di pensare a interventi più difficili. Basta prendere la scatola del pepe e metterlo nelle trasmissioni. Così un responsabile televisivo può pensare che il problema sia risolto. E questo è quello che è accaduto anno dopo anno da quando la televisione è partita: spezie più forti sul cibo preparato perché il cibo è cattivo e con più sale e più pepe si cerca di passar sopra anche a un sapore disgustoso4. La mia impressione è che questo fenomeno – con tutte le differenze del caso – sia estendibile anche alla produzione dei libri di poesia; nel dibattito tra chi sostiene una scrittura comunicativa e chi ne sostiene una di ricerca, nove volte su dieci si inciampa sul concetto di nazionalpopolare; nel Vocabolario Treccani, salomonicamente, si legge:  

nazionàl-popolare (o nazionale-popolare) agg. – 

1. Propriam., che è insieme nazionale e popolare, con specifico riferimento alla concezione estetica di A. Gramsci (1891-1937), secondo la quale le opere letterarie o artistiche, e in generale usi, costumi o manifestazioni di una civiltà, devono esprimere i caratteri distintivi della cultura nazionale in modo da essere riconosciuti come rappresentativi di tutto il popolo e contribuire così alla presa di coscienza dell’identità concettuale di nazione e popolo: in Italia è sempre mancata e continua a mancare una letteratura nazionale-popolare, narrativa e d’altro genere (Gramsci).
2. estens. Con valore riduttivo, di tutto ciò che rappresenta gli stereotipi e gli aspetti più superficiali di un gusto e di una presunta identità nazionali. 

Io noto che sempre più spesso sia chi (tanto autrice/autore, quanto editore) fa una scrittura di ricerca, sia chi (idem) ne fa una comunicativa, deve fare i conti con il punto 2.; nel primo caso attraverso operazioni mimetiche del linguaggio dei social, tutto analfabetismo di ritorno e punteggiatura massimalista, nel secondo perché di fatto i caratteri distintivi della cultura nazionale del punto 1. sono quelli espressi dal punto 2. 

Ci si sposta quindi sul piano delle strategie – o più moderatamente delle scelte – che portano alla realizzazione di un libro, e successivamente alla sua promozione. Molto si investe sul ruolo di chi il libro lo scrive, ed è sempre meno chiaro quanto il carisma dell’autrice/dell’autore sia dominante nel processo editoriale, ovvero di quanto l’agenda dei contatti di un’autrice/un autore influisca nel piano editoriale di una casa editrice. La comunicabilità delle poesie è altra cosa dalla comunicabilità di un libro, e nel secondo caso sta all’editore utilizzare o inventare gli strumenti (es. booktrailers, progetto grafico dell’opera, sonorizzazioni, presentazioni in luoghi che esprimano una qualcerta intelligenza, altro) che siano in grado di comprenderlo, senza doparlo; invece fraintenderlo è un privilegio che spetta a chi il libro lo legge. 

La poesia è un codice, e come tale deve funzionare; il ricorrere al concetto di bellezza – salvifica o meno – è uno spostare la questione sul piano dei consumi. Responsabilità di chi scrive dovrebbe essere di scrivere quello che va scritto, e responsabilità di chi fa l’editore dovrebbe essere di pubblicare quello che va pubblicato, bellezza o no. Dino Campana ha scritto caro Bino, rileggo cosa che mi fa male, le 100 p. del p. Giovanni e noto queste impressioni. Troppa materia, i rospi, i serponi, il domatore (due colpettini all’affetto francescano, delicatezze di sbirro) – (ascelle di maestrine in sudore, zitelle mature di buona famiglia che lasciano l’ombra distesa al passo domenicale). Manuale del pellirossa. Tecnica cerebrale. Industria del cadavere. Imperialismo borghese frasaiolo, modernità dell’Italia giolittiana (di fronte all’Italia sotto l’arco d’oltre mare in Ostia morta al limo del Tevere in faccia con un fregio dei putti del Sartorio, stanca di essere eternamente giovane come lo è anche di passeggiare tra ortaggi mitologici con passo di belva niciana). La luna non vuol staccarsi leggera dal monte. La abbaglia l’acetilene nell’Arno, secolare rigovernatura della letteratura italiana. Questa borghese Louis XIV. Queste cattiverie fanno male a chi le dice (il gran segreto di Giovanni di avvilire i suoi detrattori). Meglio dimenticare queste offese alla poesia. Meglio Soffici aigre et maigre nella polvere stemperata di tutti i topazi e gli orienti di D’Annunzio e di Rimbaud. Stenterello en poète qui se torde confit dans le bleu du jour. (Bleu Watteau). I commessi, la chérie, il genio solare, la gioventù latina (che pure sono partiti per il fronte). Dunque, Bino, sono triste a morte, e presto muoio, il che non mi impedirà di andare soldato il 19. Ciao, un lungo bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti. Tuo Dino.5 

Note: 
0 Ezra Pound, Cantos, 41; l’episodio è noto: il 30 gennaio 1933 Ezra Pound incontrò Benito Mussolini a Palazzo Chigi, portandogli il libro con i primi 30 Cantos. Mussolini, dopo averlo sfogliato, disse ma questo è divertente 
1 Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, 1726 
2 Ezra Pound, Make It New, Faber & Faber, 1934 
4 Karl Popper, Una patente per fare TV, in Cattiva maestra televisione, Marsilio Editore, 1994 
5 Lettera di D. Campana a B. Binazzi, 3 ottobre 1917

sabato 23 gennaio 2016

2 + 2 = 5

Musicali pretesti #11

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.


Solito post musicale pretestuoso quant'altri mai. Stavolta più che un libro sui Radiohead (che torneranno in tour) si tratta di un pretesto per rivedere e riascoltare con voi quel video notevole realizzato da Gastón Viñas per il brano 2 + 2 = 5 contenuto nell'album Hail To The Thief del 2003. Volendo trovare un altro pretesto librario, relativo proprio a questo brano, si arriva a George Orwell e al suo 1984 (pretesto per pretesto, aggiungo che le opere di Orwell, le quali spesso e volentieri corrono il rischio della banalizzazione, fanno bene ogni volta che ricapitano tra le mani, e penso persino a certi suoi scritti e interventi giovanili, qua e là imprecisi e intemperanti, ma proprio per questo così vitali). Se proprio cerchiamo un libro con i testi dei Radiohead - ma dovremo cercarlo in canali di seconda mano ormai - il suggerimento resta Radiohead. A Kid, ovvero i testi commentati da Gianfranco Franchi (Arcana, pp. 437, euro 18,50, uscito nel 2009 e ormai irreperibile). In libreria troverete sempre comunque diversi titoli dedicati alla formazione inglese. Credo che i loro lavori resteranno a marcare il passo dei Novanta, almeno per me, anche se penso che proprio in questo album collocato all'inizio del decennio successivo abbiano inanellato i brani del disco pressoché perfetto.



[Chi cerca il testo lo trova qui.]

giovedì 21 gennaio 2016

I cento anni del Sudtirolo in Italia: "Il confine" di Sebastiano Vassalli

Passo di Valparola, qualche anno fa: ricordo una gita dolomitica con annessa visita al museo della Prima guerra mondiale ospitato all'interno del Forte Tre Sassi. Vi trovai una guida di quelle in "costume tipico". Ho presunto fosse della provincia di Bolzano da alcune parti del discorso e dal costume (ma di costumi non mi intendo tanto e quindi non ci metterei la firma). Aveva radunato un gruppo di turisti veneti raccontando con perizia le nefandezze compiute dal Fascismo in Sudtirolo durante il processo di italianizzazione forzata. Si soffermò a lungo sul Momumento alla Vittoria eretto a Bolzano dall'amministrazione fascista per celebrare il successo nella guerra del 15-18, simbolo dei "relitti" fascisti della città. Non era difficile ravvisare fastidio, astio e persino odio nelle parole scelte e nel tono di voce di quella guida. Il gruppo di turisti annuiva, un po' intimorito da un incalzare tutto sommato aggressivo, tradito dalla tensione del collo e del volto. Ecco: l'odio. Inteso in senso bidirezionale e carsico, questo sentimento è uno dei protagonisti del libro (l'ultimo edito in vita, se non erro) che Sebastiano Vassalli ha dedicato alla questione sudtirolese. Il Confine. I cento anni del Sudtirolo in Italia (Rizzoli, pp. 148, euro 16,50) prende forma da lontano, ovvero da un'inchiesta che Vassalli portò a termine nel 1983 per il settimanale "Panorama" di cui era inviato in quelle valli. Questo libro inoltre si collega a un altro titolo di Vassalli più o meno coevo di quell'inchiesta, Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti del 1985 (lo pubblicò Einaudi ed è fuori catalogo). Come ricorda l'autore in queste pagine, fu quello un testo che non mancò di far discutere aspramente e accendere certi animi.

Appena trascorso il centenario della Prima guerra mondiale, nel 2019 ricorreranno anche i cent'anni del trattato di St. Germain con il quale veniva ripartito il puzzle del fu Impero austro-ungarico. Uno dei punti del trattato prevedeva il ritorno del territorio a sud del Tirolo al Regno d'Italia e ristabiliva il valico del Brennero quale confine fra Italia e Austria. Si tratterà di un ritorno stabile, fatta eccezione per un lustro poco più, dal 1939 al 1945, in cui i cittadini di quelle terre riconfluirono nel Reich assetato di uomini da mandare al fronte, nella cornice degli accordi presi da duce e führer (le "opzioni"). Per gli oltre novant'anni rimanenti si tratta di una storia italiana, nel senso di storia compresa dentro i confini dello stato italiano. La vicenda del Sudtirolo degli ultimi cent'anni annovera le questioni di minoranze linguistiche e culturali, la fascistizzazione e italianizzazione a suon delle fandonie dell'ingegneria storica di Ettore Tolomei, la Guerra fredda (alla fine della Seconda guerra mondiale non era scontato che le cose andassero come sono andate dal punto di vista dei confini del Sudtirolo e Vassalli spiega bene come c'entra l'assetto della Guerra fredda in quel che accade al confine dopo il 1945), le cosiddette gabbie etniche, attentati terroristici prima solo infrastrutturali poi sempre più sanguinosi, De Gasperi e Andreotti, le rivalità tra Trento e Bolzano, la trasversalità di un partito come Südtiroler Volkspartei, e le prominenti personalità politiche (le figure e le lunghe carriere dei presidenti Silvius Magnago, Luis Durnwalder fino ad arrivare al recente Arno Kompatscher sono tutte prese in considerazione dall'autore de La Chimera).

Vassalli afferma dal principio di non essere storico, ma sostiene anche che questa del confine estremo settentrionale dell'Italia, nel suo complicato sviluppo dopo la Grande Guerra, sia una storia che va conosciuta. Volendo allargare per un attimo la visuale, il tema del confine insiste anche nell'Europa di oggi, com'è evidente, al di là delle ripetute sospensioni di Schengen, fra l'altro previste dal trattato per un dato periodo di tempo (ma spesso manipolate dai giornali a scopo sensazionalistico). Per secoli in Europa i confini, compreso quello del Sudtirolo/Alto Adige, hanno danzato (in questo caso c'è pure il tiro alla fune linguistico della denominazione "Sudtirolo vs. Alto Adige"). Ora che con un prolungato periodo di Pax Europaea determinati confini si sono installati in un dato paesaggio, la parte peggiore della retorica europeista li ha un po' espunti dal dibattito, senza pensare che il problema del confine era solo rinviato oltre, appena un po' più in là. Il carotaggio compiuto da Vassalli in un secolo di storia del Sudtirolo è sicuramente efficace nel restituire tutto quello che la gestione politica del confine è costata in termini di incomprensioni, sangue, lotte e, come detto, odio (tutto passa, le amicizie e gli amori, e solo l'odio ha il carattere di sentimento duraturo in grado di eternarsi). Probabilmente però, come ipotizza lo stesso Vassalli, la questione di quel confine è destinata a perdere rilevanza nello scenario attuale; staremo a vedere, consapevoli di quello che è successo negli ultimi cent'anni. Penso però che un suggerimento, ancora una volta, potrebbe venire dal paesaggio. Non tanto da una pedissequa sovrapposizione di ostacoli naturali e confini, bensì dalla comprensione di questo paesaggio, nella sua variazione, fisica e fisica in senso storico: un confine è qualcosa di irreale o quantomeno convenzionale, è una linea, un paesaggio no, è un piano a diverse profondità e altezze. Lo stesso paesaggio è chiamato più volte in causa da Vassalli (ad esempio la notoria, anche se non esclusiva aggiungerei, bellezza delle montagne e di quelle valli ecc). Eppure bisognerebbe oggi passare oltre, ficcarci bene in testa che non ci sono montagne tanto più belle di altre e che le valli tirate a giardino tanto acclamate da chi passa di là come turista non sono necessariamente "garanzia di paesaggio", e tantomento di naturalità o naturalezza (quello è soltanto marketing turistico/territoriale per la family mountain che il più delle volte non tutela affatto l'ambiente, anzi, e ha rinverdito il marketing opposto, quello che fa leva sul mito della wild mountain). Allora, pur nelle differenze, nelle incomprensioni radicate e alimentate da privilegi ora dall'una ora dall'altra parte, le due anime del nostro confine si sono fatte forse più simili, un altro secolo è passato, e un paesaggio con degli uomini rimane sia di qua che di là della nostra linea, con buona pace delle "gabbie etniche", aberranti sin dal nome. Ci guardiamo attorno e troviamo dappertutto un paesaggio di passaggio, oggi, di camion e colture intensive, di sfruttamento millimetrico delle risorse, di un'inedita "industrializzazione della natura": una situazione che insomma accomuna ormai quasi ogni angolo del globo ma che lì espone dei tratti interessanti e forse inediti da studiare, di rara intensità

Ci assomigliamo più di quanto siamo disposti a credere e purtroppo facciamo sì che i nostri paesaggi si assomiglino. In questo continente sempre più simile e perciò pullulante di irrinunciabili ipocrisie nazionali, con una moltitudine umana che si accalca e spinge ai nuovi confini, dove sta realmente il problema del confine? Una risposta sta nel "personaggio" principale di questo libro e in quello che sa generare: mi riferisco naturalmente a quel sentimento proteiforme ed eterno che è l'odio, da cui ero partito.