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giovedì 5 luglio 2018

"After Lorca" di Jack Spicer, prima traduzione italiana

La casa editrice Gwynplaine, la rivista Argo e Nie Wiem presentano in questi giorni la prima traduzione italiana di After Lorca del poeta Jack Spicer (pp. 148, euro 12). Il volume è a cura di Fabio Orecchini e la traduzione è di Andrea Franzoni. In chiusura si può leggere una postfazione di Peter Gizzi che nel 2009 ha curato My Vocabulary Did This to Me: Collected Poetry of Jack Spicer, libro che ha ricevuto il prestigioso riconoscimento dell'American Book Award. Il libro italiano non mancherà di colpire per come è composto: si susseguono poesie e prosa, traduzioni e riscritture di testi di Federico García Lorca e alcune lettere davvero sostanziose di cui potrete trovare qualche esemplare in rete, se cercate altre notizie su questa rilevante e rara iniziativa editoriale. In una lettera si legge: "Perfino queste lettere. Esse corrispondono a qualcosa (non so cosa) che avete scritto (forse così poco chiaramente quanto quel limone corrisponde a questo pezzo d’alga) e, a sua volta, qualche futuro poeta scriverà qualcosa che corrisponde ad esse. Questo è il modo in cui noi morti ci scriviamo l’un l’altro". Per concessione del curatore Fabio Orecchini si pubblica di seguito la postfazione al libro di Peter Gizzi e un paio di testi poetici.



POSTFAZIONE 
di Peter Gizzi 

Nel 1965, scrivendo “metti quelle parole fuori dalla tua bocca e dentro il tuo cuore”, Jack Spicer esortava entrambi, poeta e lettore, ad affrontare la pericolosa onestà che la vita della poesia domanda. L’ammonizione proveniva sorprendentemente da un poeta che dichiarava che le sue poesie si originavano al di fuori di lui, che insisteva nel dire che un poeta non era nient’altro che una radio trasmettitrice di messaggi; un poeta che professava la pratica quasi monastica del dettato, ricevuto per giunta dai “Marziani”, che rifiutava ciò che chiamava “la grande bugia del personale”; e tuttavia così facendo creava una delle più indelebili e durevoli voci della poesia americana. Questa voce, e il suo fascino, sono tanto più rimarchevoli se si considera il fatto che Spicer non fu mai totalmente integrato, né nella cultura ufficiale, né nella controcultura del suo tempo. Nonostante questo, negli ultimi cinquant’anni, Spicer ha avuto un effetto ampio e duraturo, su una svariata gamma di scrittori, a livello nazionale e internazionale, influenzando  profondamente i poeti della nostra generazione e oltre.
Spicer si diverte con combinazioni provocatorie e incongrue. Le sue affermazioni sono mercuriali, e i suoi versi si rifiutano di lasciarsi etichettare in un unico registro. Le sue poesie interrompono ripetutamente i loro stessi procedimenti, intasando le frequenze del significato che stanno creando. Si avvalgono della sua costante attrazione per giochi e sistemi: bridge, baseball, scacchi, flipper, computer, magia, religione, politica, e linguistica. Come in una ricerca del Graal, ciò che il lavoro di Spicer realizza in definitiva non è tanto un obiettivo dichiarato ma l’accorpamento di una comunità per un’avventura di lettura potenzialmente infinita. Pur essendo un simulatore – uso a fraintendimenti, indicazioni sbagliate, giochi di parole, o contro-logiche – le sue poesie non ci lasciano con un vuoto bensì con un eccesso semantico, con figure che si fanno eco e sbattono l’una contro l’altra.
L’oltraggioso esordio letterario di Spicer è un esempio del doppiogioco, dell’umore macabro, e della pura brillantezza del suo lavoro. After Lorca venne pubblicato nel 1957 da White Rabbit, una piccola casa editrice di San Francisco, diretta da Joe Dunn, il giovane poeta di Boston che si era trasferito a ovest. Negli anni 50 una delle edizioni maggiormente riconosciute per un primo libro era la Yale Younger Series. In quella decade, W. H. Auden era il giudice, che selezionava i lavori e scriveva introduzioni ai libri di Adrienne Rich, W.S. Mervin, John Ashbery, James Wright, John Hollander, e James Dickey. Per il suo primo libro, Spicer adattò il modello del vecchio poeta riconosciuto che vaglia il poeta emergente, rivolgendosi a Federico García Lorca per farsi introdurre, anche se il poeta martirizzato dovette  farlo dalla tomba. Comprensibilmente contrariato, Lorca comincia: “Francamente sono rimasto alquanto stupito quando il signor Spicer mi ha domandato di scrivere un’introduzione a questo volume.” E così inizia la provocatoria poetica di Spicer di coinvolgere i morti nella sua pratica letteraria.
Lorca è forse l’unico poeta gay di rilievo internazionale che Spicer potesse proporre per competere con il sostegno di Auden. Ma da riluttante interlocutore il cui capitale culturale è sicuramente compromesso dal fatto che è morto, Lorca fornisce un’introduzione che, in diversi modi, è l’opposto di quelle di Auden. È improbabile che la sua approvazione possa aiutare il poeta ad essere recensito, trovare un agente, pubblicare un secondo libro o addirittura trovare un lavoro. Nonostante questo la sua posizione permette, per un poeta orfico, relazioni uniche con l’oltretomba, e procura al tempo stesso il veicolo perfetto per un amore non corrisposto e il perfetto emblema di una tradizione ed eredità letteraria.
After Lorca è ostensibilmente composto di traduzioni dei lavori di Lorca, la fedeltà delle quali viene messa in dubbio perfino da Lorca stesso. Vi sono circa una dozzina di poesie originali di Spicer, mascherate da traduzioni, combinate con sei ormai celebri lettere programmatiche, indirizzate a Lorca, nelle quali Spicer articola la sua poetica e il suo senso dell’intima pena per quel che riguarda la poesia, l’amore, e i suoi contemporanei. Con queste lettere, traduzioni, e false traduzioni, Spicer stabilisce una corrispondenza unica con la tradizione letteraria, la quale evolverà più tardi in una rilevante pratica intertestuale d’assemblaggio.
Il suo esordio ha l’aspetto di una giovinezza punk, ma in  questo attacco Spicer si rivela tanto tradizionalista quanto innovatore. La prima lettera a Lorca descrive la tradizione come “generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia ...” Anziché distinguerlo come una straordinaria giovane promessa letteraria, la lettera pone Spicer in un contesto di poeti visti come una classe di lavoratori impegnati tutti nello stesso fondamentale progetto. In questo percorso, la corrispondenza tra la capacità negativa di Keats, lo sregolamento dei sensi di Rimbaud, le visioni di Yeats, gli ordini angelici di Rilke, il duende di Lorca, la personae di Pound, il senso della tradizione di Eliot, e i giardini immaginari di Moore può “costruire un universo completamente nuovo” – anche se si tratta di un universo in cui le cose non combaciano perfettamente. Come scrisse, “Le cose non si connettono, corrispondono”.  


***



Ballata del Ragazzo Morto
Una Traduzione per Graham Mackintosh

Ogni pomeriggio a Granada
Ogni pomeriggio muore un ragazzo
Ogni pomeriggio il fiume si siede
Per chiacchierare coi vicini.

Tutti i morti portano ali di muschio.
Il vento nuvoloso e il vento luminoso
Sono due fagiani che svolazzano tra le torri
E il giorno è un ragazzo con una ferita dentro.

Non c’era l’ombra di un’allodola in cielo
Quando ti ho incontrato alla caverna del vino
O un frammento di nuvola vicino alla terra
Quando sei annegato sul fiume.

Un gigante d’acqua andò traboccando sulle montagne
E il canyon rigirò i cani e i gigli.
Il tuo corpo, con l’ombra viola delle mie mani,
Era morto là, sugli argini, un arcangelo, freddo.


Ballad of the Dead Boy
A Translation for Graham Mackintosh

Every afternoon in Granada
Every afternoon a boy dies
Every afternoon the river sits itself down
To talk things over with its neighbors.

All the dead wear wings of moss.
The cloudy wind and the bright wind
Are two pheasants who fly around towers
And the day is a boy with a wound in him.

There wasn’t a touch of lark in the sky
When I met you at the wine cavern
Or a fragment of cloud near the earth
When you drowned on the river.

A giant of water went slopping over the mountains
And the canyon spun around the dogs and lilies.
Your body, with the violet shadow of my hands,
Was dead there on the banks, an archangel, cold.



Venerdì 13
Una Traduzione per Will Holther

Alla base della gola c’è un piccolo marchingegno
Che ci rende capaci di dire qualsiasi cosa.
Sotto di esso ci sono tappeti
Colorati di rosso, blu, e verde.
Dico che la carne non è erba.
È una casa vuota
In cui c’è soltanto
Un piccolo marchingegno
E grandi, bui tappeti.


Friday, the 13
A Translation for Will Holther

At the base of the throat is a little machine
Which makes us able to say something.
Below it are carpets
Red, blue, and green-colored.
I say the flesh is not grass.
It is an empty house
In which there is nothing
But a little machine
And big, dark carpets.


***


Jack Spicer nasce a Los Angeles nel 1925. Si trasferisce a nord, Berkeley, dove studia e in seguito insegna all’University of California. Qui stringe amicizia con Robin Blaser e Robert Duncan, oltre ai numerosi poeti, artisti e studenti che fecero parte del movimento chiamato San Francisco Renaissance. Frequenta e collabora con musicisti jazz della west coast, tra cui il quartetto di Dave Brubeck, con cui inciderà alcune letture. Nel 1955 apre insieme ad altri artisti la “6 Gallery”, luogo che diventerà centrale per la Beat Generation. Rapporti conflittuali dovuti all’alcolismo con amici come Allen Ginsberg, Frank O’Hara, e lo stesso Robert Ducan. Muore nel 1965, pronunciando la frase che ora fa da titolo all’edizione integrale dei suoi scritti: “il mio vocabolario mi ha fatto questo”. Durante la sua breve ma prolifica vita, ha pubblicato diversi libri di poesia attraverso piccole case editrici regionali, tra cui After Lorca (1957), Billy The Kid (1958), Lament for the Makers (1961) e The Holy Graal (1962). A partire d’After Lorca, Spicer sviluppa l’idea che la sua poesia si crei sotto dettatura. Dopo Garcia Lorca, altri fantasmi accompagneranno la sua produzione, tra cui Rimbaud e Billy the Kid. Nel 2009 il libro contenente le sue opere complete, pubblicato postumo a cura di Peter Gizzi, My Vocabulary did this to me: Collected poetry of Jack Spicer riceve il prestigioso American Book Award.


martedì 16 maggio 2017

"La casa di Bernarda Alba" di Federico García Lorca. Settant'anni fa la prima in Italia

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #35


Dopo aver ricordato (qui) l'enigmatica e inesauribile opera Il pubblico, torno brevemente sul teatro di García Lorca, corpo di testi che nel tempo appare parte tra le più feconde e durature del suo lascito di scrittore. Nel 1936, a 38 anni, qualche mese prima di essere fucilato a Viznar dai falangisti, Lorca scrisse La casa di Bernarda Alba, una "tragedia in tre atti" che fece a malapena in tempo a leggere ad alcuni amici. Il titolo ci cala già nella scena unica, ovvero la casa della dispotica Bernarda Alba, uno spazio deliberatamente chiuso, apparentemente ermetico ma con ampie falle. Tra queste spesse mura Bernarda, dopo la morte del marito, ha deciso di allargarsi ed espandersi, e qui ha sostanzialmente sprangato nel silenzio del lutto la vecchia madre e le cinque figlie. Solo la figlia maggiore, che ha ereditato dal padre, potrà avere rapporti con gli uomini e in particolar modo con Pepe il romano, il più bello del paese, un personaggio che Lorca ha l'accortezza di non mandare mai in scena, lasciando questa tragedia nell'alveo di un gineceo sofferente ad alta pressione e creando un gioco interni/esterni in assenza di esterni. Pepe, che è solamente interessato all'eredità della sorella maggiore, ha in realtà una storia con la sorella minore, Adele. Questa finirà per impiccarsi quando Bernarda finge di aver ucciso l'uomo che, a causa della frequentazione con la figlia più piccola, è divenuto la causa dei mali della famiglia e potenziale minaccia dell'onore.

Dramma della segregazione (non solo quella della gioventù delle figlie, ma anche quella della madre anziana e di una serva), dell'intrico soffocante delle convenzioni nella Spagna rurale (siamo in Andalusia), del senso dell'onore, dell'abbandono e della convergenza verso uno stesso uomo da parte di più sorelle, finanche esempio all'apice di una certa gelosia raggiunta "intra moenia", La casa di Bernarda Alba è parimenti un dramma semplice, un "documentario fotografico" nella parole del suo autore, che lascia all'esecuzione scenica il rinnovarsi del guardare che reinventa, ogni volta, il prodigio stesso del teatro. Nelle voci femminili che si rincorrono e creano lo spazio chiuso e concluso della casa, Lorca ha alluso - qui più che altrove - ai drammi della pazzia e della ribellione che hanno occupato i palchi del teatro coevo, facendo emergere, più di mille discorsi, alcune riflessioni cruciali per chi si occupa di storia delle donne e femminismo (e trovo strano che non vi sia il suo nome tra quelli che si ricordano maggiormente). Continuiamo a viaggiare sparati tra le convenzioni e il teatro, che è convenzione tra le convenzioni (come il linguaggio, del resto), è ancora una volta qui a farci guardare dentro queste meccaniche convenzionali rattrappite e così poco celesti.

La casa di Bernarda Alba, la cui prima mondiale si registra soltanto l'8 marzo 1945 al Teatro Avenida di Buones Aires con l'attrice spagnola naturalizzata uruguaiana Margarita Xirgu, è disponibile all'interno della collana "Collezione di teatro" di Einaudi sin dal 1965 (pp. 67, euro 10, traduzione dell'ispanista Vittorio Bodini). In Italia la prima fu esattamente settant'anni fa, il 17 maggio 1947, al Teatro Nuovo di Milano, per la regia di Vito Pandolfi e con Wanda Capodaglio. In chiusura, è facile riconoscere che ha sicuramente più senso recensire una messa in scena di un'opera teatrale che un libro che ne contenga il testo in traduzione. Eppure nel gran discorso e metadiscorso fantasmagorico che riguarda i nostri magici libri - e nel quale anche un blog come questo è impelagato - è bene che ritornino protagonisti anche i libri del teatro: spesso nascondono più tesori della narrativa o della poesia, solo per far il nome di due generi, e funzionano meglio come attivatori di impressionanti scene mentali che possono o meno aver trovato un riscontro in una data regia e messa in scena dell'opera. Provare per credere. 

mercoledì 7 settembre 2016

"Il pubblico" di Federico García Lorca: una commedia impossibile, una poesia da fischiare

Il sillogismo fraudolento potrebbe essere circa questo: i) i vecchi amori sono grandemente tristi; ii) Federico García Lorca è un vecchio amore di chi scrive; iii) Federico García Lorca è grandemente triste per chi scrive e costui vi parlerà circa di questo, nonché della grande tristezza di oggi nella sua esperienza di lettore di Lorca. Fortunatamente le cose però non stanno così, perché qui si parla di vecchi amori di cose lette e non di vecchi amori tra persone. Qualche ostinata/o col piglio dell'originalità e del Bastian contrario potrà poi sostenere che non è affatto vero che i vecchi amori tra persone sono grandemente tristi, ma, oltre a non credere a costei/costui su una base quasi istintuale, le/gli opporremo il fatto che parliamo appunto di amori per opere e di amori di lettori, passando oltre. Anche perché vorrei che chi legge arrivasse alla fine e non s'interrompesse qui, e non tanto per me (tanto non so mai chi legge cosa e quanto e come di questi post), bensì per questo importante libro di cui provo a scrivere. E così come parliamo di lettori, parliamo ora di pubblico (e guarda caso di amore, visto che il dramma teatrale in questione di questo parla, di amore impossibile, amore-inganno e delle sue manifestazioni creatrici). Si intitola proprio Il pubblico un lavoro teatrale incompiuto e poco frequentato del poeta della generazione del 1898, fucilato a Víznar circa ottant'anni fa, al principio della Guerra civile spagnola (lo scorso agosto qualcuno ne ha ricordato l'anniversario tondo della morte, il 19). Ed è il titolo che mi ha avvicinato a questa opera proposta da Einaudi della sua storica collana "Collezione di teatro" (a cura di Glauco Felici, pp. XIV-56, euro 8). Non si tratta di una novità libraria, perché il volume è uscito in traduzione già nel 2006, ma stando alla vita strana eppure gloriosa di questa collana, non ci faremo scrupoli di natura temporale, rinviando, se proprio vogliamo trovare un pretesto temporale per scrivere, alla morte di Lorca, una di quelle che avrebbe senso ricordare ogni anno ("Federico è qui" titola perentoriamente un omaggio che gli dedicò Andrea Zanzotto in Fantasie di avvicinamento).
  
Per chi desidera confrontarsi con lo spagnolo, in rete gira anche qualche .pdf col testo dell'originale, ad esempio qui o qui. Proprio della storia del testo dattiloscritto sarà opportuno dare qualche coordinata, ma non troppe. Il manoscritto sul quale si basa anche la prima edizione oxoniense del testo del 1976 vede la luce a Cuba nell'estate del 1930 e porta come ultima data il 22 agosto 1930. Abbiamo notizia di due letture pubbliche del testo di lì alla morte del poeta. Nel 1933 due atti uscirono sulla rivista "Los cuatro vientos" e nel 1936 Lorca ne diede lettura all'Hôtel Buenavista di Madrid, affidando un altro manoscritto pieno di correzioni a un ignoto amico. A ogni modo, la collazione tra manoscritto cubano e le pochissime varianti non consente di uscire con un'edizione stabile, perché questo dramma, che nelle intenzioni dell'autore andava distrutto in caso di un suo destino tragico, rimane un testo altamente precario. Chi si avvicina oggi al libro che da questo precario manoscritto è stato ricavato o anche alle rappresentazioni che, pur rarissime, ci sono state (come quella del 12 dicembre 1986 a Milano per la regia di Lluís Pasqual e di cui qui si può vedere qualche interessante foto di scena) può inciampare ad ogni passo, tanta è infatti l'enigmaticità e la scabrosità delle situazioni e dei temi, nonché la densità simbolica riversata qui dal poeta (tra tutti i simboli spiccano parmenidei cavalli, ora bianchi ora neri). Esempio di metateatro sperimentale - il dramma è ambientato in un teatro dove si sta mettendo in scena Romeo e Giulietta che si scopriranno non essere un uomo e una donna, bensì due uomini di età diverse-, Il pubblico si sporge verso di noi nel solco del contrasto tra verità intima e maschera pubblica, ma allo stesso tempo sconquassa, nella sua incompletezza e audacia, le caratteristiche del teatro novecentesco, ponendo dentro e fuori dal palco un'emozione introdotta con logica e metodo. Qui Lorca, che sicuramente frequentò la scrittura automatica del Surrealismo, mostrò la libertà di uscire da quegli schemi (per quanto automatica quella scrittura potrebbe dirsi fin troppo "schematica") e osò un ventaglio di soluzioni che il lettore potrà verificare pagina dopo pagina, giocando con tutti gli elementi e riferimenti in suo possesso, metateatrali, teatrali e reali, sotto la guida di una "tremenda logica poetica" di cui aveva parlato già sul finire degli anni Venti e dalla quale si sentiva guidato. L'andamento per "quadri" è anche un andamento per maschere. Un armadio su ruote pieno di maschere diverse appese appare nella prima scena dell'opera, mentre un magico paravento rivelerà le relazioni tra i personaggi. Questo per dare qualche idea degli "arredi".


Punto importante delle "comedias imposibles" assieme a La comedia sin título, questo dramma irrappresentabile e quasi coevo del "teatro della crudeltà" di Antonin Artaud va letto e visto nei suoi quadri sciamanici. Raccontarne la trama o le figure che s'alternano nei vari quadri sarebbe azione stucchevole e deprimente. Questi quadri, fra l'altro, agiscono come diversi muri di realtà, ingaggiando un peculiare gioco di doppi fondi nella scatola teatrale di un testo e della sua messa in scena. Per chi cerca dei pretesti nobili per ricordare qualcosa e qualcuno, in quest'anno shakespeariano potremmo mettere in programma anche la riconsiderazione di questo lavoro, magari assieme agli scritti di Auden su Shakespeare. Nel dramma lorchiano, il personaggio del direttore è inizialmente il portavoce di un teatro che non vuole urtare la sensibilità comune, ma passando dietro un portentoso paravento verrà smascherato nella propria intimità, assieme agli altri personaggi. E alla fine ritroveremo il direttore come sostenitore della necessità di rompere ogni barriera architettonica del teatro e del dramma, quest'ultimo finalmente inteso come "un circo di archi attraverso i quali il vento e la luna e le creature entrano ed escono senza trovare un posto dove riposare". La logica di gestione della materia per quadri consente una perlustrazione degli andamenti paralleli sulla scena, dei confini spaziali mai dati una volta per tutte e dei risultati perseguibili con una mancata sincronizzazione dei ruoli. Il tutto si combina con una potente fantasia visionaria nei cambi dei costumi e delle ambientazioni e per questo ci si augura qualche nuova proposizione della finzione scenica di questo dramma incompleto. Nel frattempo, una lettura può risultare molto stimolante, anche nella direzione dell'interrogazione su quel pubblico che presta il titolo all'opera.

Di questo lavoro incompiuto lo stesso Lorca ebbe a dire delle parole che appaiono imperdibili e che il curatore Glauco Felici non ha mancato di riportare:
È lo specchio del pubblico. Significa far sfilare sulla scena i drammi personali che ognuno degli spettatori sta pensando, mentre guarda, spesso senza concentrarsi su di essa, la rappresentazione. E poiché il dramma di ognuno a volte è molto acuto e generalmente tutt'altro che onorevole, ebbene, subito gli spettatori si alzerebbero indignati e impedirebbero di continuare la rappresentazione. Sì: il mio testo non è un'opera da rappresentare; è, come l'ho già definito, "una poesia che deve essere fischiata".

domenica 17 maggio 2015

"Dialogo con la morte" di Arthur Koestler

 Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #26

Le prime pagine di Dialogo con la morte di Arthur Koestler (il Mulino, pp. 248, euro 15,49, nella traduzione di Camillo Pellizzi, ancora disponibile) narrano dell'arrivo in Spagna, a Barcellona, e dello spostamento verso Malaga. Siamo all'inizio del 1937. Circa un anno prima, a febbraio, c'era stata la vittoria del Frente Popular e in estate era iniziata quella lunga, sterminata guerra civile che, una volta conclusa, lasciò posto a una della dittature più lunghe del Novecento. Proprio questa detta durata ha impedito per decenni un'efficace lettura e studio di quel conflitto. Nelle prime pagine le città appaiono già stremate e Koestler non tarda a individuare i punti deboli dei miliziani, il loro scoordinamento, finanche l'ingenuità tattica in alcuni avamposti sul terreno. Il testo fu originariamente pubblicato nel 1937 come seconda parte dello Spanish Testament e s'assomma alle grandi testimonianze su quella guerra che fu davvero fratricida, con divisioni tragiche anche tra persone vicinissime (paradigmatico, anche se mitigato, fu il caso dei fratelli Machado, con Manuel a sostegno degli insorti e Antonio dalla parte dei repubblicani). Il portare a casa la pelle in Spagna fu spesso imputabile a fatti del tutto casuali e fortuiti e Koestler non è da meno. Avanzando nella lettura notiamo che le pagine cambiano presto di segno per diventare un libro intimo, ripensamento di un'esperienza carceraria ancor vivida nella memoria. Ed è un libro che va a far coppia con un altro suo, sempre incentrato su una esperienza di prigionia, in Francia, quello Scum of the Earth che fu un'altra grande testimonianza sul biennio 1939-40, tra il campo di prigionia del Vernet e il vagabondaggio nella Francia della disfatta. (Un inciso di natura linguistica che è bene fare parlando di questo libro: Koestler, in linea generale, scrive spesso in tedesco prima del 1940 e in inglese dopo quell'anno, tuttavia questo Dialogo fa eccezione ed è stato scritto in inglese per depistare la censura tedesca.)

Sono le pagine di una persona imprigionata che non sa se sarà giustiziata e che inizia a percepire, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, attraverso spostamenti tra più carceri, la singolare situazione di prigioniero risparmiato dagli ingranaggi di una macchina di morte che appare potentissima e allucinante. E qui si apra ora una corta parentesi: della Spagna, neutrale in entrambe le guerre mondiali, si è spesso detto che fu il "banco di prova" o "preludio" della Seconda guerra mondiale. In effetti fu così, e basti pensare alla presenza in Spagna di tutte le altre potenze europee che pure erano occupate in giochi politico-diplomatici ancora aperti, all'operato di Italia e Germania che contribuirono più di altre nazioni all'internazionalizzazione di quella guerra, a quel che fecero gli artisti (pensiamo solo ai poeti, ad esempio, da García Lorca a Neruda, o all'Auden di Spain) e soprattutto agli attivissimi intellettuali, i quali tuttavia sopravvalutano il proprio ruolo in situazioni di guerra. Ripensando al successo repubblicano del 1931 non è esagerato definirlo il successo di un ceto intellettuale che, attrezzatissimo, dal 1898 e per un trentennio pieno, reinserì l'arretrata Spagna in un circuito europeo, traendo vantaggio dalla neutralità nella Prima guerra mondiale. Ma fu anche una guerra civile tra le più atroci che si ricordino, a scatole cinesi, con tutte le complicanze che questo comporta rispetto a una guerra che non è definita anche "civile". Le cifre sulle vittime di questo conflitto intestino sono ancora controverse ma, se i numeri che si leggono verranno un giorno confermati, potremo solo provare a cogliere la sproporzione tra le dimensioni circoscritte della guerra e le dimensioni gigantesche del numero di morti. Koestler vede la morte arrivare ogni notte più o meno alla stessa ora, l'ora delle esecuzioni capitali. Escogita degli stratagemmi per dormire in quel lasso di tempo, una sorta di tortura del sonno che gli consente però di sopravvivere e non sentire gli strazi dei condannati vicini di cella. In prigione conosce nuovi compagni, osserva le ore d'aria di altri prigionieri, digiuna, legge quel che passa il bibliotecario, gli arrivano attutiti echi della mattanza che infuria fuori, riflette sulla Spagna e soprattutto su quel che gli è capitato di vivere poco prima della cattura, ingaggia insomma un dialogo serrato in una sottilissima membrana che lo tiene in vita stremato. 

Questo memoir è uno dei grandi libri dell'intellettuale-giornalista di origini ungheresi, da leggere assieme agli altri suoi e da mettere in coppia con quell'Omaggio alla Catalogna di George Orwell o con La veglia a Benicarló di Manuel Azaña che sono senza dubbio altri fondamentali opere sull'autocombustione lenta che permise, con qualche anno di anticipo su quello più noto, un altro olocausto novecentesco. Schiacciata com'è tra due conflitti per cui si usò l'aggettivo "mondiale", l'escalation di terrore, vendette e ritorsioni che si consuma nella penisola iberica in un triennio - e che tuttavia parte ben prima del '36, già nel '31 con la cacciata dell'ultimo re borbonico Alfonso XIII e con l'insediamento della Repubblica - potrebbe persino divenire un vero banco di prova e anche un punto di vera partenza per rileggere la posizione della Chiesa in Europa nella prima metà del Novecento: è una storia che non può che interessare moltissimo tutti quanti.