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giovedì 6 novembre 2014

"Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria" di Ferdinando Scianna

...io, ad esempio, quando vedo nella pagina di cronaca di un quotidiano locale una foto di una persona giovane morta in un incidente stradale avverto quasi, nei tratti del viso, una predestinazione a una morte in giovane età. Direte voi che questo giocoforza accade, data la cornice in cui si situa la percezione, ma a me questa sensazione ha portato sempre e solo inquietudine. Per converso, non ho mai cercato di intuire morti precoci a partire da una foto di una persona giovane ancora in vita. Il fatto è che forse della fotografia possiamo provare a dire di tutto, tanto lei tace. Forse sto esagerando, ma la realtà e varietà di pensiero che la fotografia ha conosciuto lungo tutto il corso della propria vicenda storica ha dato vita a plurimi orizzonti di speculazione, spesso contrastanti fra loro, che si sono via via depositati su una crosta terrestre che da quasi due secoli accumula fotografie su fotografie ed è diventata mappatura fotografica essa stessa. Voglio dire che della fotografia ad esempio possiamo dire che invecchia con noi e che non necessariamente congela l'attimo, possiamo raccontarci che è obiettiva ma che anche non lo è affatto, che ci interessa in rapporto alla realtà ma ormai non sappiamo più se ci interessa più o meno della realtà stessa. Riconosciamo evidentemente che la fotografia ha un qualche rapporto con il mondo, ma ci è difficile sciogliere e spiegare qual è questo rapporto che intrattiene col reale. Insomma, quella che resta forse l'invenzione positivista per antonomasia, con applicazioni e implicazioni scientifiche note a tutti, è divenuta il più bizzarro scherzo della ragione che quell'epoca potesse lasciarci in eredità, con sempre maggiori margini di contatto con l'irrazionale e l'imponderabile. E la stessa fotografia sta cambiando e noi con lei. Mi interrogo spesso, ad esempio, sul perché in tanti amiamo le foto di Luigi Ghirri. Possono essere date molte motivazioni e ognuno ha le proprie, per fortuna, ma il suo lavoro mi pare si collochi in un punto ben preciso della storia della fotografia, laddove davanti a una foto iniziamo a non dire più "questo c'era, e non c'è più" bensì "questo c'era, e forse c'è ancora". Luigi Ghirri, tra le tante altre sue qualità, mi pare avesse questa in massimo grado e ce l'aveva soprattutto quando inquadrava.

Sembra prendere le mosse da analoghi pensieri ondivaghi questo Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria di Ferdinando Scianna pubblicato da Laterza (pp. 110, euro 12). Il tono e il dipanarsi di questi capitoli depositati dal grande fotografo di Bagheria, che quasi cinquant'anni fa unì il proprio nome a quello di Leonardo Sciascia per il celebre Feste religiose in Sicilia (nella copertina allora era Fernando e non Ferdinando), è quasi amichevole, sempre schietto e diretto, anche quando ci racconta di come si rivolge ai suoi amici neuroscienziati per provare a capire di più di memoria e identità oppure nel finale del libro, quando si descrive alle prese con la digitalizzazione di un archivio mastodontico e con i tanti scherzi di memoria che questo lavoro complesso gli procura, soprattutto con gli scatti più datati. Il libro parte riprendendo una chiassosa scena di selfie vissuta in treno, di ritorno dalla mostra roveretana che il MART ha dedicato lo scorso anno a un grande ritrattista (autoritrattista?) senza macchina fotografica, Antonello da Messina. Il titolo di questo libro di Laterza è già un buon viatico e ci consente di immaginare le pagine che leggeremo: dal lacaniano specchio, si passa a concetti fragili e poco maneggevoli come quelli di identità e memoria. Ma la fotografia non è la nostra memoria e la memoria non è simile alla fotografia, e sarebbe bene fare attenzione quando parliamo con disinvoltura di "memoria fotografica" perché le aree del ricordo sono spesso inganni o menzogne, placidi imbrogli, sempre più povere o sempre più ricche di una fotografia, la quale si esprime su un piano bidimensionale e attraverso un'inquadratura.

Oggi che la fotografia è a portata di tutti e onnipresente (nei cellulari) paradossalmente riflettiamo forse poco e male su di essa. Quando un fotografo importante come Scianna si abbandona alla speculazione lo fa in modo sorprendentemente elastico e plastico, ricordando anche un interessante scritto di Giovanni Arpino che recentemente le edizioni Henry Beyle hanno reso disponibile (Contro la fotografia, con una nota di Scianna stesso). Dopo aver letto questo libro di Scianna mi pare di ravvisare che c'è un aspetto che la speculazione lascia spesso fuori, fuori dall'inquadratura. E tale aspetto è l'inquadratura stessa! Voglio dire che Scianna ricaccia giustamente all'interno del dibattito anche chi sta dietro l'apparecchio fotografico e non solo chi o cosa è dentro l'obiettivo o il piccolo monitor della macchina fotografica; ci parla sempre, più o meno direttamente, anche della persona che sta dietro il mirino, che inquadra, proprio ora che mirare e inquadrare sono gesti quasi slegati dal fotografare. E se il digitale non ha portato nessuna vera e propria rivoluzione (soltanto un aggravio quantitativo e di archiviazione, divenuta missione quasi impossibile oltre che evidenti cambiamenti sul versante produttivo e postproduttivo), il vero cambiamento mi pare stia in un aspetto posturale di chi fotografa. Potremmo quasi leggere l'evoluzione del fotografare proprio su questo versante della postura: da come si fotografava con la camera oscura a come si fotografa sempre più spesso oggi, senza nemmeno più mirare o inquadrare, con braccia tese distanti dagli occhi e dal cuore, quasi nuotando nell'aria con una macchina fotografica tra le dita. In questa ottica allora diventa molto interessante e innovativo il capitolo in cui Scianna parla di Snapchat, ovvero del servizio di messaggistica istantanea e applicazione per smartphone che "consente di inviare le foto ad amici solo per un certo numero di secondi e poi la visibilità viene annullata. Per questo motivo, l'applicazione è anche frequentemente usata per sexting" ovvero "l'invio di messaggi sessualmente espliciti e/o immagini inerenti al sesso, principalmente tramite telefono cellulare, ma anche tramite altri mezzi informatici" (come leggiamo nelle relative pagine Wikipedia dedicate alle voci "Snapchat" e "sexting").

Mi voglio congedare dalla lettura di questo libro con una canzone che parla di un luogo (la città di Torino), di un film ricordato e di una scena, di vetrine che riflettono e che possono rompersi come uno specchietto per il trucco. Si intitola "Meglio di uno specchio". Ho l'impressione che c'entri con tutto questo.

giovedì 5 dicembre 2013

"Il dio delle zecche" di Danilo Dolci (e dei Massimo Volume)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #18
Una poesia da #25

I Massimo Volume, a distanza di tre anni dal precedente album Cattive abitudini, sono usciti con Aspettando i barbari, disco molto diverso dal precedente, sotto ogni angolatura. Come però spesso accade, si sono divertiti in rimandi letterari e artistici (molto John Cage in questo disco, ad esempio). Per chi non conosce la band, dico che si tratta di rimandi mai scontati e mai pesanti, che amplificano le potenzialità dei testi e della loro musica, creando spesso cortocircuiti impensati tra testo e musica. Cito appositamente anche la loro musica perché troppo spesso questa passa in secondo piano rispetto ai testi e al "cantato" di Emidio Clementi. Credo invece che Egle Sommacal (chitarre) e Vittoria Burattini (batteria) siano dall'inizio, vent'anni fa ormai, l'asse fondamentale della miscela che fa amare o detestare questa formazione. Accennavo ai rimandi. Emidio Clementi, bassista e voce, è tra l'altro autore di non poche prove di narrativa, uscite anche per editori importanti. La globalità dei testi di Aspettando i barbari m'ha riportato però alla mente quello che scriveva Claudio Piersanti nella prefazione al primo lontano libro di Clementi, Gara di resistenza, edito da Gamberetti (l'editore non c'è più ma il libro sembra disponibile ancora su Ibs.it). Scriveva che c'è "...un'atmosfera ricorrente, una sensazione: dev'essere già successo qualcosa, da queste parti. Di solito si scrivono cose che raccontano momenti cruciali, più o meno eroici... L’originalità di Clementi sta proprio nel rendere conto del 'dopo'.” Ho ritrovato questa felice intuizione "del dopo", nonostante il titolo sembri stazionare su un "prima". L'attesa, appunto.

Tornando ai rimandi "libreschi", se nell'album Lungo i bordi  la band riabilitava l'Emanuel Carnevali de Il primo dio o il Drieu La Rochelle di Fuoco fatuo, in Cattive abitudini aprivano con un brano intitolato semplicemente "Robert Lowell". Ora questo nuovo disco, il cui titolo tra l'altro rimanda a un noto romanzo di Coetzee, si apre con un testo tratto da Il dio delle zecche di Danilo Dolci (Mondadori, 1976, pp. XII + 182, fuori commercio). Chissà che una volta tanto la musica aiuti a riportare a galla un libro non più ristampato da Mondadori e appartenente a un autore che è invece bene continuare a leggere, nella breve e lunga distanza. Se oggi volete leggere Danilo Dolci, la cosa più facile è cercare nel catalogo di Sellerio, dove la poesia è però sostanzialmente assente.


DIO DELLE ZECCHE
(di Danilo Dolci)

Vince chi resiste alla nausea
chi perde meno
chi non ha da perdere

vince chi resiste
alla tentazione
tentazione di evadere

vince chi resiste
alle tentazioni
chi cerca di non smarrire
il senso
la direzione

vince chi non si illude

noi che accendiamo lumi,
per nasconderci le luci

la moda di esibirsi travestiti
da operai
la moda di fumare
la moda di sparare o non sparare
la moda di spararsi

noi che accendiamo lumi,
per nasconderci le luci

più confortevole inselvarsi
appiattandosi zecca



Ed ecco qui il brano dei Massimo Volume. La copertina del disco che vedete sotto nel video è dell'artista newyorkese Ryan Mendoza, a Bologna con una personale proprio in questi giorni.



mercoledì 31 ottobre 2012

da "Ai poeti" di Emanuel Carnevali

Una poesia da #12

Il mio incontro con la prosa e la poesia di Emanuel Carnevali passa per Emidio Clementi e i Massimo Volume: anno 1995, album Lungo i bordi, la canzone "Il primo dio" (sotto vi rimando al video). Poco dopo, in una libreria trovai una copia assai malandata de Il primo dio (Adelphi, 1978, ancora reperibile). In seguito anche Fazi fece qualcosa di quest'autore (Racconti di un uomo che ha fretta). Da un paio d'anni il vero lavoro di riproposta di questo autore fiorentino va registrato dalle parti di Pistoia, in quelle edizioni Via del Vento che come un largo ombrello riparano spesso dalle piogge dell'oblio. Chi la conosce sa che parliamo di una casa editrice perfettamente in tema con questo blog (tutti libri brevi, brevissimi) e costantemente attiva nella riscoperta di testi inediti o rari. Sfogliate il catalogo, dove ogni libro costa 4 euro, e allora capirete; pensate soltanto, per citare un esempio, al Georg Heym che ha recentemente proposto per la cura di Claudia Ciardi, traduttrice che a breve risponderà su queste pagine ad un'intervista. Heym è un autore inspiegabilmente trascurato, così come il suo illustre curatore italiano Paolo Chiarini, tra i massimi esperti italiani di Espressionismo tedesco, scomparso soltanto due mesi fa.

Tra i libri della casa editrice ritroviamo ben tre titoli dedicati a Emanuel Carnevali: Il bianco inizio e altre prose memorabili, Corteo di personaggi a Villa Rubazziana e il recentissimo Ai poeti. Credo ritorneremo almeno su uno dei primi due titoli (prosa), ma vorrei iniziare dalla poesia e dall'ultimo titolo menzionato, una selezione di diciotto testi che esce in questi giorni per la cura e traduzione di Elio Grasso, in occasione del settantesimo anniversario della scomparsa (Manuel Carnevali era nato nel 1897 a Firenze e morì nel 1942 strozzato da un boccone di pane, dopo una lunga sofferenza per encefalite letargica, manifestatasi già nel 1922).

Ciò che spesso ricordiamo di Carnevali è legato all'emigrazione in America nel 1914, all'inglese imparato per la strada o sulle insegne, svolgendo i lavori più disparati e che divenne la lingua della sua scrittura. Molte le etichette e i nomi che si spendono, da "maledetto" a "black poet", a erede di una linea che passa per Rimbaud e Dino Campana, rafforzata dalla stima di cui beneficiò in vita (Kay Boyle, Robert McAlmon e Ezra Pound su tutti). Ma proprio come spesso accade con questi aloni, non è cosa nociva ritornare semplicemente ai testi, coadiuvati da iniziative editoriali puntuali, come queste delle casa editrice pistoiese (Ventus taedium fugat il bellissimo motto). In fin dei conti, non bisogna dimenticare che con Carnevali l'Italia ha una testa di ponte importante nel movimento modernista americano che annovera autori come Waldo Frank, Carl Sandburg, Ernest Walsh e Williams Carlos Williams.

 













QUASI UN DIO


Sto morendo alla mercé di questo caldo
ma potrebbe esser peggio.

Amo mia moglie
ma dovrei amarla di più

Amo la mia ragazza ma il suo amore dovrebbe essere più universale.
Soltanto una parola la descrive ma non so quale sia.

Tutto è più breve di qualcos'altro:
tutto è più uguale a Dio di qualcos'altro.

C'è competizione nel caos,
una cosa molto stupida.

Sono dubbioso come un ramo di salice
che curvo ammicca all'acqua.

Ammiro il diavolo perché lascia le cose incompiute.
Ammiro Dio perché tutte le completa.


(Ottobre-Dicembre 1931)


ALMOST A GOD

I am dying under this heat
but there may be worse.

I love my wife
but I should love her more.

I love my sweetheart but her love should be more universal.
One word describes her but I do not know which word.

All shorter than something else:
All is more God-like than something else.

There is competition in the chaos,
which is very foolish.

I am in doubt as a bent willow branch
nodding to the water.

I admire the devil for he leaves things unfinished.
I admire God for he finishes everything.



Come anticipato, permettetemi questo rimando musicale, visto che la "riscoperta" di Emanuel Carnevali deve molto anche alla musica dei Massimo Volume e a questa canzone "culto" in particolare.