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giovedì 9 luglio 2015

"Black Rook in Rainy Weather" di Sylvia Plath nella traduzione di Luca Rizzatello


 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


UN CORVO NERO, UNA GIORNATA UGGIOSA


Lassù sul rametto stecchito
si raccoglie fradicio un corvo
nero che assetta e poi riassetta
le sue piume sotto la pioggia.
In un miracolo o in un caso
che mettano a fuoco la vista
nell'occhio non ci conto, non
cerco qualche intento nel tempo
malfermo, ma lascio le foglie
cadere come sanno senza
cerimonie, o prodigi. Anche
se, lo ammetto, a tratti aspetto
qualche moto dal cielo muto,
non mi lagno: una certa luce
marginale potrebbe ancora
guizzare rovente dal tavolo
della cucina o dalla sedia
come se ogni tanto una vampa
celeste possedesse quasi
tutti gli oggetti ottusi per
sacralizzare una parentesi
sennò inconsistente, per dargli
splendore, decoro, una forma
d'amore. Io ora mi aggiro
accorta (se accadesse pure
in questo opaco, rovinoso
paesaggio?); scettica ma cauta,
ignara di qualsiasi angelo
brillasse nei dintorni. So
solo che un corvo che si aggiusta
le piume nere sa risplendere
fino a rapirmi i sensi, issarmi
le palpebre, offrirmi una pausa
dalla paura della piena
neutralità. Se avrò fortuna,
valicherò ostinata questa
stagione spossante, potrò
rabberciare trame mediocri.
Ecco i miracoli. Se noi
ci curassimo di chiamare
miracoli quegli spasmodici
scherzi di radianza. Così
si riapre l'attesa, la lunga
attesa dell'angelo, della
sua rara, fortuita discesa.




BLACK ROOK IN RAINY WEATHER


On the stiff twig up there
Hunches a wet black rook
Arranging and rearranging its feathers in the rain.
I do not expect a miracle
Or an accident

To set the sight on fire
In my eye, nor seek
Any more in the desultory weather some design,
But let spotted leaves fall as they fall,
Without ceremony, or portent.

Although, I admit, I desire,
Occasionally, some backtalk
From the mute sky, I can't honestly complain:
A certain minor light may still
Lean incandescent

Out of kitchen table or chair
As if a celestial burning took
Possession of the most obtuse objects now and then-
Thus hallowing an interval
Otherwise inconsequent

By bestowing largesse, honor,
One might say love. At any rate, I now walk
Wary (for it could happen
Even in this dull, ruinous landscape); skeptical,
Yet politic; ignorant

Of whatever angel may choose to flare
Suddenly at my elbow. I only know that a rook
Ordering its black feathers can so shine
As to seize my senses, haul
My eyelids up, and grant

A brief respite from fear
Of total neutrality. With luck,
Trekking stubborn through this season
Of fatigue, I shall
Patch together a content

Of sorts. Miracles occur,
If you care to call those spasmodic
Tricks of radiance miracles. The wait's begun again,
The long wait for the angel,
For that rare, random descent.



mercoledì 27 novembre 2013

Nino Pedretti, finalmente. Un'intervista con Tiziana Mattioli

Librobreve intervista #30

Di Nino Pedretti non è la prima volta che qui si parla. In passato avevo riportato due splendide poesie da Al vòuşi e altre poesie in dialetto romagnolo, le quali stanno ancora in questo post(o) qui. Come può accadere con mostri simili denominati blog, da quel post è nato uno scambio con Manuela Ricci di Casa Moretti, quindi con l'editore Raffaelli, artefice di una bella cavalcata di riscoperte pedrettiane e poi, da Walter Raffaelli, è partito il contatto prezioso con Tiziana Mattioli, protagonista delle curatele delle opere di Pedretti, ma anche di altri poeti dimenticati e ripresi dall'editore riminese (come ad esempio Franco Scataglini). Da lì, il passo (breve) a quest'intervista per Librobreve. In questi ultimi tempi c'è un buon fermento attorno a questo autore, a lungo tralasciato dai dibattiti, e che fu pure traduttore (di Sylvia Plath, ad esempio). Oltre al libro succitato di Einaudi, per il quale si era mosso anche Dante Isella, si è visto davvero poco. L'editore Raffaelli però ha iniziato a presentare un'ottima scelta della sua produzione, che non è solo dialettale. Ed è anche di questa produzione che parleremo nell'intervista seguente, un testo - lo scoprirete - davvero bello, con immagini potenti e per il quale desidero ringraziare nuovamente Tiziana Mattioli.

Prima di lascivarvi all'intervista voglio solo ricordare che si susseguono gli appuntamenti pedrettiani in questi mesi invernali. Il 10 dicembre, a Cattolica, al teatro Snaporaz, potrete assistere a uno spettacolo-lettura, di e con Silvio Castiglioni, intitolato TuttoPedretti (poesia, monologhi, teatro per ragazzi), con le musiche del figlio dell'autore, Paolo Pedretti. Il 17 gennaio, a Rimini, avrà luogo la messa in scena di L'uomo è un animale feroce al Teatro degli Atti.

LB: Finalmente si sta spostando l’asse attorno al quale ruotava il pianeta della scrittura di Nino Pedretti e si intravedono delle interessanti iniziative all’orizzonte, non solo legate ai libri. Insomma, forse è il preludio a una nuova stagione. Potrebbe fare una rapida carrellata e illustrarci cosa “bolle in pentola”? 
RISPOSTA: Lei usa un’espressione estremamente appropriata per Pedretti, quando accenna ad un “pianeta della scrittura”, perché le pagine di Nino sono vaste e fermentanti, la sua tastiera sperimentalmente ricca, con latitudini d’ascolto più che europee. Nord e sudamericane anche, se si vuol tener conto della sua tesi di laurea sulla “poesia e musica negra d’America”, quindi delle traduzioni dalla Plath, dalla Sexton, e delle sue letture (tra le quali sono inscritte, in un suo elenco, quelle di Ferlinghetti, Snyders, Snodgrass, Ginsberg). Pedretti è un poeta di molte lingue, non solo perché le possedeva strumentalmente, ma perché, da linguista qual era, ne viveva il retaggio ancestrale, la “testimonianza del sangue”, la verità “organica”, e tutto questo poi trasferiva in una scacchiera assai vasta, per generi e per immagini, per modi di rappresentazione: poesia in dialetto e in lingua, monologhi, racconti, fantastorie, teatro per ragazzi, traduzioni. Una scacchiera che svaria dalla tensione epigrammatica della poesia dialettale al magma, restituito a ‘montaggio’, della più matura poesia in lingua, con uno sguardo inevitabile a Pound, a Eliot (pur con una qualche distanza, di radice specialmente etica) mentre una forte affinità si affaccia con la scrittura cosmogonica di Rilke, nell’inseguire quel “logos della terra che muta” e coglie nell’attimo, attraverso il dolore, l’invisibile e l’incognito che si accampano nelle fenditure del tempo e dello spazio.
Paradossalmente, e grazie alle ricerche d’archivio, del grande poeta dialettale esploso dopo i cinquant’anni con le sue Vòusi, nel ’75, sono arrivate a noi tante scritture in lingua di straordinaria valenza (e bisognerà dire, di più facile accesso a un più vasto pubblico di lettori). Un sommerso più che equivalente a quanto era noto. La breve vita di Nino, morto nel maggio dell’81, ha fissato in poco più che cinque anni la sua splendida parabola di scrittura. Cinque anni e cinque libri: tre di poesie in dialetto, uno di poesie in italiano, uno di traduzione. Tutto il resto è postumo, compreso il suo monologante teatro che credo sia stato il punto saliente della riapertura di un dialogo, fuori dalla scena e sulla scena. Dal 2011 ad oggi sono state fatte tante cose. Pubblicazioni, volute e sostenute dall’editore Raffaelli (Monologhi e racconti; Grammatiche; Gli uomini sono strade –ristampa; Poesie inedite in lingua italiana; Tre donne –riedizione; Per Nino Pedretti: vòusi –atti di convegno); messe in scena teatrali e letture radiofoniche ad opera di Silvio Castiglioni (L’uomo è un animale feroce); due corsi universitari, sul teatro di Nino e sulla sua poesia; un convegno; varie presentazioni. Tanto, insomma, ad opera di tanti amici ancora desiderosi di lavorare ad un progetto comune che sarà verosimilmente una interrogazione più sistematica della scrittura scenica e, per quel che mi riguarda, la restituzione di nuovi inediti di poesia dialettale, a testimonianza che quella che Pedretti dichiara essere, per lui, una “relativa fedeltà alla poesia” era davvero, invece, la sua “faticosa gioia”.


LB: Se dovesse consigliare ad un lettore che finora non ha mai letto nulla di Pedretti un titolo da cui partire, dove si orienterebbe?
RISPOSTA: Mi è capitato un giorno, in una libreria di Urbino, di essere fermata da un signore (un non addetto ai lavori) a cui avevano venduto Grammatiche. Monologhi e racconti inediti. Mi ha ringraziata, come curatrice, per avergli reso possibile la lettura di qualcosa di veramente “fresco”. Ecco, forse direi di cominciare da qui, da questa modernità, aggiungendo l’altra parte dell’intero che appunto sono i Monologhi e racconti curati da M. Ricci ed E. Grassi. È una via d’accesso straordinariamente intrigante e accogliente per quanto, in tale galleria dell’uomo comune, ciascuno può leggere di sé. Sono “storie terremotate” (come diceva Roversi), storie terremotate dell’anima, dove nulla accade ma tutto improvvisamente si rovescia, in un debenedettiano e visibile divorzio “tra un uomo e un mondo”.


LB: Pedretti è meritevole di un’attenzione finalmente nazionale. Finora è stato costretto dentro cerchie limitate. Quali sono le chiavi e i temi principali per aprire le porte di un pubblico più allargato? Quali i tratti distintivi della sua produzione poetica, in prosa e, se possibile, la sua cifra di traduttore?
RISPOSTA: “Pedretti è uno dei rari poeti per necessità in un tempo ricco di poeti per convenienza o per casuale coincidenza”. Scriveva così Carlo Bo, presentando La chèsa de temp. È un’affermazione che può estendersi oltre, fino a comprendere tutta la scrittura di Nino, che nasce sempre da un’urgenza di verità non tanto o solo intima, piuttosto metafisica e certo universale. Ma tutto si gioca sempre sul piano della realtà. Una realtà che lievita in folgoranti metafore, in immagini di sconvolgente forza visionaria. Le parole e le cose quotidiane, la vita comune degli uomini comuni, sono continuamente sottoposte, per processi inavvertiti, a scatti, a sconvolgimenti, rovesciamenti impensati di situazione. Una sorta di conversation e subcoversation, come dice Nathalie Sarraute, dove non esiste confine tra il dentro e il fuori di noi, ma una perpetua permeabilità che si installa sul grado zero della vita, per questo nostro essere trascinati dal nulla verso il nulla. E però la parola di Pedretti non è mai dimissionaria. C’è un senso etico potente, pur nella consapevolezza del vuoto. C’è uno stare nel tempo, pur nella coscienza della sua rotolante indifferenza a noi. E c’è un presagio, un senso di finis terrae, la visione di una civiltà giunta al declino. Per queste, e molte altre ragioni, anche di pura bellezza, o asprezza, della parola e della forma, penso che Nino Pedretti vada considerato e riconosciuto come un poeta nostro, di tutti, e grande, di voce inconfondibile.
Per la traduzione, mi sentirei di dire che soprattutto, per Nino, tradurre è un riconoscersi nello stesso dolore, uomini o donne o cose, non importa. Ed è un grido, di solitudine feroce, lanciato da una vetta all’altra, di fronte al baratro.


LB: Spostiamoci ora sul versante editoriale della faccenda che vede impegnato in primis l’editore Raffaelli di Rimini. Lei ha curato più di un titolo, poesie e anche un saggio. Ci può brevemente descrivere questi titoli? Ve ne sono altri in preparazione?
RISPOSTA: Cosa si può dire di un amico coraggioso? Walter Raffaelli è questo, per me. Un editore che osa, e che investe, in tempi calamitosi. Ci siamo riconosciuti (ma ci conoscevamo da tempo) in una comune passione per la scrittura di Pedretti. Lui, in verità, era partito da lontano, pubblicando nel 2003 una inedita plaquette giovanile di Nino, Le pepite d’oro, curata da Manuela Ricci. Contemporaneamente, ma inconsapevoli l’uno del fare dell’altro, nel 2011, mentre io lavoravo ai materiali d’archivio, lui pubblicava Monologhi e racconti, da un dattiloscritto più vasto rispetto all’edizione già data da Brevini (L’astronomo, Mondadori 1992). A questi abbiamo voluto aggiungere i nuovi monologhi inediti riemersi dall’archivio, col titolo che Pedretti aveva pensato: Grammatiche, e poco dopo le Poesie inedite in lingua italiana, a corredo della riedizione de Gli uomini sono strade. Io ho cercato di spiegarmi queste ‘grammatiche’, questo titolo alieno affiorato dalle carte, e la sua funzione rispetto ad atti performativi, o pensati come tali (e all’eventuale rapporto di tale teatro con le altre scritture in prosa). Nel secondo caso, la grande domanda era il silenzio. Perché, dal 1942, la data del testo più antico di poesia in lingua italiana (e più antico in senso assoluto), Pedretti avesse atteso il ’77 per stampare l’unica sua raccolta in lingua. Perché avesse dovuto quasi prendere coraggio dal successo della sua scelta dialettale. E ancora perché le tre ipotesi preparatorie de Gli uomini sono strade, rinvenute tra la biblioteca di Santarcangelo e la casa pesarese di Nino, fossero state così radicalmente ripensate, e specialmente sforbiciate dei testi più ideologicamente impegnati, scritti fra il ’68 e il ’69, anni di ritorno alla poesia, dopo una lunga pausa avviatasi alla fine del ‘59.
Nel frattempo, per i miei studenti, quasi a coronamento del corso, avevo promosso un seminario di studi, i cui atti ora sono a stampa sempre sotto l’egida raffaelliana (Per Nino Pedretti. Vousi). Ne siamo orgogliosi, perché di fatto questo volume (nato da intenzioni più semplici ma poi cresciuto, per la qualità e larghezza dell’interrogazione) risulta essere la prima monografia su tutta la scrittura di Nino, che pur ha avuto interpreti di altissimo prestigio. Inappellabili, sul versante della dialettalità. Dei progetti venturi, con qualche immediatezza, le ho accennato più sopra, e appunto continueremo a interrogarci sulla scrittura teatrale, anche al di fuori delle sue forme codificate (questa inclinazione, insomma, di Pedretti a costruire sempre delle personae come esito di una forte spiritualizzazione metaforica). Mi piace però dire che è arrivata, via stampa, la proposta di Davide Brullo di mettere in scena la traduzione pedrettiana della Plath. Speriamo che qualcuno raccolga l’invito. Intanto, comunque, sta girando L’uomo è un animale feroce, nei teatri e in RadioRai, e stiamo preparando varie presentazioni, tra Roma e Milano, tra Marche e Romagna.


LB: Potrebbe scegliere una poesia di Pedretti per congedarsi dai lettori?
RISPOSTA: Volentieri. Dagli inediti in lingua, anche per dar conto che appunto non si tratta di materiali di scarto ma solo di verità sommerse. Per non approfittare troppo dei lettori, mi tengo su un campione di relativa brevità. Non ha titolo.


Fare il poeta è più triste che mangiare
i fichi, meno dolce
che vedere la luce sul corpo
d’una ragazza. Cos’è dunque questa
cosa
a parte una certa incapacità
orgogliosa, che cos’è dunque la poesia?
Se vai sghembo per le case alla sera in
autunno su per un’erta e vedi i cavalli
e sai di morire. Se ti passa per la pelle una
sera e sai che quella sera è
raccolta da uccelli ombrosi e per sempre
rapita. Se Dio mio la mattina col sole
ci sono dei ritmatori che turbano le menti
rozze e fanno lievi le mani, se insomma
io, uomo offuscato, miasmatico e disattento
ti chiamo, è segno che una strada passa
fra queste rovine.