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giovedì 1 ottobre 2015

"Darwiniana" di Igor De Marchi: non ci si dovrebbe addormentare tra le braccia di un cannibale

A volte bisognerebbe fermarsi e riconoscere come certi libri abbiano contribuito a dare una sferzata, a creare o consolidare un immaginario - magari saccheggiato spudoratamente negli anni a seguire - come abbiano saputo vedere e scrivere prima, col nitore della presa visione di certi aspetti delle nostre vite, del paesaggio, dell'aporia che si crea tra una concezione ora immobile ora invece mobilmente lucreziana della vita e dello stato di natura, di come gira il legame tra vita e morte nelle nostre teste, della guerra o della lotta che conduciamo quasi addormentati "tra le braccia di un cannibale". Sto pensando a un libro come Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi, pubblicato dodici anni fa in una collana di poesia di Nuovadimensione non proprio fortunata eppure contenente un'altra importante opera di un altro trevigiano, Corruptio optimi pessima di Antonio Turolo, ma anche Le cose che dico adesso del "transfuga" della poesia Alberto Garlini. Umberto Fiori, nel testo che accompagnava quel libro di De Marchi, scriveva che "quella che predilige è una luce ferma, cruda, spietata, in cui cose e persone, situazioni e paesaggi si mostrano senza trucchi e senza ripari, come in una foto segnaletica o in una rivelazione", per poi concludere che l'autore era "del tutto immune dagli schematismi di tanta versificazione 'militante' di ieri e di oggi; è un realismo che nasce dal disincanto di una individuale, dolorosa iniziazione al Vero, ma anche da un amore per le cose e le persone [...]". Realismo è un altro termine tornato alla ribalta in questi anni. Nel testo di Fiori è particolarmente feconda quella disgiunzione tra "foto segnaletica" e "rivelazione": chi ci avrebbe pensato a metterle in una qualche relazione, eppure...

In questi dodici anni che cosa è successo a quel poeta che già scriveva, in tempi non sospetti, di una milleriana "Ascesa e declino di un giovane agente di commercio"? Da punto di vista della sua poesia, De Marchi ha alimentato gli amici con plaquette nere fuori commercio stampate in casa, in parte confluite in questo nuovo bianco libro, Darwiniana (Amos Edizioni, pp. 120, euro 10). Tuttavia, per la cronaca è bene dire che De Marchi si è sostanzialmente fatto da parte, e non solo dall'esibizionismo isterico-compulsivo di festival e premi che talvolta si scambia per "la poesia" (non è polemica coi festival, figuriamoci, è solamente una distinzione che si rende via via più necessaria). Dal punto di vista dell'editoria è arrivato nel frattempo tutto il gran filone del precariato, dei cascami della generazione TQ (e chi se la ricorda più?) e altre enfasi del genere, tutti temi che però in De Marchi erano già stati scoperchiati con un'intensità e autenticità maggiore rispetto a quando un certo modo di trattare il precariato è diventato una gretta questione di marketing editoriale. Tutto questo è stato possibile grazie all'immediatezza e al gioco d'anticipo che la rapida sonda della poesia può ancora vantare e per la quale sarà forse sempre in vantaggio sulla prosa. E dal punto di vista del mondo che ci circonda - o che noi circondiamo - che cosa è successo? Quel mondo fatto di mutui pluridecennali da estinguere come incendi, di statali e zone industriali, di drammi e normale ferocia famigliare era già racchiuso in quel libro ed era già stato riconosciuto con un processo doloroso. Eppure De Marchi - calo qui l'unico inciso biografico - non è stato quello che si sarebbe detto in anni recenti un precario. Ha unito una solida preparazione al lavoro iniziato presto (ne parla sempre nei suoi libri) e a volte mi viene da pensare che anche questo non abbia che potuto giovare alla sua musa e ai suoi musi. Musi, sì, perché è una poesia profondamente animale la sua, anche in questo Darwiniana. Chi possiede ancora una copia di Transiti pubblicato nel 2001 sempre da Amos, rilegga la poesia sul gatto morto "solido sotto a ogni punta di scarpa" (chi non ce l'ha può trovarla qui o su Resoconto), e chi ha anche Resoconto prenda quella del camion di maiali superato in autostrada. Queste due poesie mostravano già l'andamento frequente di tanti suoi componimenti: un'osservazione, una conclusione da trarre. In quest'ultimo libro De Marchi fa il pieno, e l'immaginario che fa cozzare con il suo mondo di tutti i giorni è calpestato parimenti da uomini e animali di estrazioni prossime e lontane, persino improbabili. Questo immaginario rinnovato è, a mio avviso, il vero elemento nuovo, la chiara palingenesi che lo ha accompagnato a questa nuova opera e costituisce ora il motivo per scoprire o ritornare ad affacciarsi sulla sua poesia, che è un sentire il proprio mondo come impregnato di un perverso rapporto con l'esotico (perverso in quanto interessante e interessante quanto perverso). E non si parla di esotismo pre-colonialista, colonialista o post-colonialista, bensì di una riappropriazione letterale dell'esotico in ciò che ci intasa le giornate uguali, insomma quella "o" strana e giusta che disgiunge la cruda "foto segnaletica" e la  cotta "rivelazione" di cui scriveva già Fiori.

LUNA NUOVA

Poi arriva l’età in cui ci si vergogna
di guardare i tramonti,
indovinare gli ippopotami
e i conigli nelle nuvole chiare.
È l’età in cui bisogna
sentirsi corrugati e profondi
guardando il chiarore andar giù
attraverso il temporale sul lago
corrugato e profondo
a renderlo di zinco.

Tutto in fretta si è fatto d’acciaio
e di vetro e luce e bianco e nero.
Fabbriche e abitazioni ordinate,
locali di svago come tane
disinfettate, e la gente
vestita sempre com’è sulla spiaggia.
Il primo anno di lavoro
fa quello che diciott’anni
di scuola non hanno fatto:
un groppo un cipiglio
una postura da rimandare a memoria.

   E aspro il risveglio le domeniche
da esotiche evasioni,
come quando alta la luna
rimane nel pallore del mattino
– fuori in luce di sole –
smunta e indifesa
come un fantasma che senza intenzione
si è mostrato senza forza né resa.


Il titolo Darwiniana naturalmente rimanda a uno dei pensatori più influenti, travisati e strumentalizzati di ogni recente epoca. Lo strano palesarsi di questo titolo sembra incedere zoppo e pare altresì figlio di un vuoto: un sostantivo manca o gli è stato rubato. Ci chiediamo infatti cosa dovrebbe accompagnare l'aggettivo "darwiniana". Dicevamo degli animali, e quasi ogni poesia ne conta almeno uno, ma anche molti di più. Il campionario è vastissimo e vale la pena elencarne qualcuno, anche laddove presenti in senso metaforico: agnello, leone marino e bassotto, mosca, gatti randagi e dromedari, leone, la zebra gialla e nera (un peluche sonoro, il ricordo più antico: e non è forse la rivelazione un fatto primariamente acustico, come la poesia?), ancora il gatto e una rilkiana tigre in gabbia (d'accordo, era la pantera nel poeta di lingua tedesca, ma se leggete la poesia Elementare l'ambientazione è simile e anche la forza dell'immagine "come mi ero sporto troppo / dentro la gabbia della tigre."). E poi ancora cicale, rane, cani sui vulcani delle talpe e molti altri ancora. Sembrano tanti kigo di haiku, se non fosse che il libro si smarca dalle stagioni meteorologiche (il meteo è semmai immaginato nei giornali già in viaggio della bellissima "Cinque a.m.") e dal loro trascorrere per portarci in una stagione più omogenea e fissa che assomiglia da vicino alla stagione-stazione della mente. Non ha senso proseguire nell'elenco di animali in questa densissima savana che rimane comunque il Nordest, percorso o osservato da appartamenti e alberghi assunti a rifugi momentanei, perché sono i testi e il loro montaggio a condurci e anche perché non sono soltanto gli animali coi loro nomi a scandire il passo e il ritmo di Darwiniana. Torneremo sul montaggio alla fine. Si ravvisa insomma una sorta di riscrittura linneana del proprio immaginario, tra un Lévi-Strauss di Tristi tropici citato in epigrafe (e "Tropico Fantasma" titola la sezione più corposa del libro), le liane dei debiti che crescono e i cannibali tra le cui braccia si può persino addormentarsi. Ed è un pensiero sull'uomo, sull'essere cannibale (anche qui fortunatamente ripulito dai cascami del fu marketing editoriale cannibalistico), sulla densità di popolazione e sulle probabilità di estinzione dell'umana specie che percorre e infila di traverso il libro con un grosso ago da calzolaio. L'epigrafe scelta così recita: "[...] La libertà non è un’invenzione giuridica né un tesoro filosofico, proprietà esclusiva di civiltà più valide di altre, perché sole capaci di produrla e preservarla. Essa risulta da una relazione oggettiva tra l’individuo e lo spazio che occupa, tra il consumatore e le risorse di cui dispone. E non è del tutto sicuro che questo compensi quello, e che una società ricca, ma troppo densa, non si avveleni di quella densità, come quei parassiti della farina che arrivano a sterminarsi a distanza con le loro stesse tossine, molto prima che la materia nutritiva venga meno." Torna in mente il Konrad Lorenz dei peccati capitali della nostra civiltà e dell'etologo di Vienna De Marchi ha più di qualche tratto.

Ogni poesia ha un titolo, e questo fatto, non così diffuso, è centrale nell'economia del libro e di ogni singolo testo, perché aggiunge un terzo (sebbene in realtà primario) elemento anticipatorio - ora iconico, ora ironico, ora citazionista ("Una sola moltitudine", da Pessoa, anche se si tratta di un depistaggio), ora cartografico, ora ambientale - a dei componimenti che spesso, come già ricordato, hanno un movimento bipartito. Lo stesso titolo può designare più di un testo (una soluzione che farebbe impazzire qualche filosofo del linguaggio e chi si occupa dei problemi della designazione o di corrispondenze univoche) ed è il caso del cartografico e ricorrente titolo "Hic sunt leones" chiamato in causa più volte, come del resto "L'ultimo uomo sulla luna".

Gli uomini sono tutti uguali.
Davanti alla legge, davanti a dio.
Ma quando guardo gli altri
fare le cose fatte bene
bocca sicura e occhiate forti,
salvarsi
con naturale sana decisione
e io non so da che parte prendermi,
so che di fronte agli uomini
gli uomini non sono tutti uguali.

Vibrano le gocce
di pioggia sul vetro della macchina
in moto. Hanno una pancia
alcune un percorso
da rio delle amazzoni
quando vanno giù, una pronuncia.
Ma sono la pioggia, sono l’acqua.


La lingua vibra di rime che ci ricacciano a forza dentro il quotidiano e che parimenti dal quotidiano ci salvano. Nuclei sillabici si coordinano in sequenze, come in scia a una calamita trascinata sopra segatura di ferro. La sintassi spezza e atomizza il discorso ulteriormente, come ad esempio nell'attacco di "Indomabili", con quell'efficace primo verso nominale: "Le altre famiglie. / Possibile che solo noi / ci diamo addosso come cani? / Che saltano su per niente, / che vorrebbero essere umani? / La verità è semplice, ed è lì a un niente. [...]", ma anche nel finale di una delle molte "Hic sunt leones" ("L’erba alta di ossa cave / con due dita di terra per radice. / Dall’altra parte sopravvento / il leone. Così odore e vita / li avevo salvi in quel momento. / Salvezza che deprezzava la vita.").

Un ultimo appunto, come anticipato, è per la progressione delle sezioni e l'architettura del libro. Se la prima sezione "L'ultimo uomo sulla luna" licantropeggia (leopardeggia?) con un sogno che si è rivelato in tutte le sue miserie ("La luna è un sasso grigio / gettato via con forza / da un bambino deluso"), la sezione "Tropico fantasma", posta centralmente, sembra costituire l'approdo provvisorio (eppure perenne) dell'umana condizione che De Marchi osserva, col piglio di un Giuseppe Gioachino Belli degli anni Dieci, senza usare il dialetto (va ricordato che il precedente libro presentava ancora un discreto numero di componimenti dialettali). Appare come una condizione di esule non divertito, di fantasma fiaccato dal lavorio della materia, infelice. Si veda la poesia con cui chiudo questo intervento, dove il rapporto con la madre e i suoi desideri standard sembra risolto in un quadretto di banale semplicità e drammaticità e che invece apre molte direzioni di perlustrazione e senso, finanche provocando strani cortocircuiti per cui chi legge, per un attimo soltanto, si domanda se sta assistendo a un imbroglio. Non c'è solo rabbia nella poesia di De Marchi e forse ce n'è in minima parte; molto più grande è la pietà e l'immensa tristezza che tuttavia non blocca uno slancio a suo modo vitale e generoso, come quando conclude "Diventare invisibile / ora sa, non è questa gran cosa. / Quello che succede veramente / ha luci e ombre". La sezione conclusiva "Fortune", che nelle plaquette agli amici in realtà anticipava di un anno "Tropico fantasma", appare oggi in tutta la sua precarietà di vox media latina: sappiamo infatti che la parola fortuna, come altre voci, non aveva accezioni positive o negative. Diventa questo allora il momento di aprire la voliera dell'ironia, che fra l'altro dopo la sbornia novecentesca sembra quasi scomparsa dalla più recente poesia italiana (e chissà perché poi). Per la cronaca il libro si era aperto con una poesia stramba tutta in corsivo intitolata "Alba (canzoncina del mattino)". Si chiude invece, quasi come un disco musicale dei Settanta, con una reprise de "L'ultimo uomo sulla luna" e con quei tre versi con i quali De Marchi si congeda, con una citazione filmica da commedia all'italiana, addirittura trevigiana, tutt'altro che mascherata, buona anche per smarcarsi, travisarsi ancora e restituire con una battuta l'amaro del libro che si sta per chiudere: "Signore e Signori lo posso dire / con certezza: dalla mia non è stato / come si è soliti dire un piacere." Molte pagine prima avevamo letto: "Guardo indietro e mi confondo. / Un dubbio mi strizza l’occhio / e non sono sicuro che scherzi. / Sarebbe stato meglio il contrario: / che mia madre mi avesse insegnato / non a finire nel piatto per primo l’amaro / per gustare poi il premio del buono, / ma come affrontare da sazio / tutto l’amaro alla fine."


LA MADRE

La madre spera solo
che il figlio non si droghi,
che stia in salute e il lavoro non manchi,
che sia felice e possa avere
quello che non ha avuto lei,
vedere il mondo giovane
franco dalla povertà, insomma
una moglie, poi i figli di una vita
normale, le solite cose.
Era così difficile?


Quanto mi vergogno, e quante
volte non mi sono addormentato
con il naso tappato piangendo
chiedendo scusa a mia madre
in silenzio in un’altra città
addormentata dalla fatica,
di essere alla fine un infelice.


domenica 26 luglio 2015

Dialogo con Gian Mario Villalta di Alberto Carollo

Le edizioni Saecula hanno pubblicato due libri appartenenti a una stessa serie con titoli e grafica sostanzialmente analoga. Uno è Dialogo con Enrico Palandri a cura di Alberto della Rovere e l'altro, di cui scrivo ora, è Dialogo con Gian Mario Villalta a cura di Alberto Carollo (pp. 104, euro 10). Si torna a parlare di nord-est o Triveneto o Venezie nella forma del dialogo e intervista. Il filo - ma l'immagine del filo è solo comoda e non regge più se si parla di memoria - è anche quello della memoria individuale e ciò che, in un frangente preciso del dialogo, è invocata come "responsabilità della memoria": in un breve passaggio, ad esempio, l'intervistato dimostra come siano i paladini della memoria e delle tradizioni i più grandi contraffattori di queste (penso di aver provato a dire qualcosa di analogo quando ho scritto in queste pagine contro la peste delle "rievocazioni storiche"). Villalta fra l'altro non è nuovo a ragionamenti del genere, visto che qualche anno fa per Mondadori pubblicò Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici. C'è stato un tempo in cui "nord-est" si trovò ad essere etichetta e tematizzazione giornalistica pressoché quotidiana. Ora tutto ciò è scemato e in questi giorni si scrive e si legge più facilmente di Europa, di tenuta o disfacimento di questa, e si dovrebbe parlare di un lento invisibile massacro politicamente corretto degli europei fra di loro, che sotto diverse spoglie - o sotto spogli elettorali ormai esangui - sta perfezionando i massacri degli scorsi secoli. Questo non significa che sia un momento meno opportuno per parlare di queste aree e del mutamento degli ultimi cinque decenni, dei mutati cicli di lavoro e comunicazione, e da qui allargare lo sguardo e l'interpretazione. E sia detto che nelle risposte lavoro-produzione-comunicazione sono inquadrati assieme e non più in modo disgiunto: non è un fatto e un'osservazione secondaria, bensì un punto di partenza spesso dimenticato per qualsiasi ragionamento sensato che si voglia provare a fare.

Naturalmente in questo libro, completato dalle interviste a Stefano Dal Bianco e Alberto Garlini, c'è molto spazio per parlare di formazione personale, dell'infanzia e adolescenza nella campagna friulana, di letteratura o anche di premi e manifestazioni letterarie e quindi del libro, oggetto mallarmeanamente progettato affinché il mondo gli precipitasse dentro, tra le pagine, e tuttavia ora non più centrale e imprescindibile nelle trasformazioni che tutti viviamo. In questo punto si accenna naturalmente alla grande mutazione portata dalle nuove tecnologie le quali, pur rapidissime nella loro propagazione, hanno avviato in un certo qual modo una grande ma lentissima trasformazione, della quale non si vede più chiaramente un principio e non si vedrà tantomeno una fine (forse ci avvicineremo a quella che nel linguaggio delle tecnologie definiamo solitamente come "fase matura"?). Chissà se questa lenta ed estenuante trasformazione fosse stata invece più decisa, quasi una mazzata, non ci trascineremmo in certe paludi o crisi che conosciamo da tempo (questo pensiero nel dialogo investe in maggior misura i ragionamenti attorno all'editoria) o se queste supposizioni sono solo il frutto di una proiezione di una fretta. La trasformazione è comunque tale, onnipresente, e a volte viene il dubbio che i nostri mondi che descriviamo travolti dall'accelerazione, in realtà ci stordiscano pure nella loro esagerata e distratta fissità. Anche dal punto di vista della scrittura, poetica narrativa o saggistica che sia, questo dialogo mostra il non risolto della questione del contemporaneo e le molte balle che ci è piaciuto raccontarci sinora. Leggendo mi tornava in mente anche una sorta di polemica a distanza tra Covacich (il cui sodalizio è più volte citato nelle risposte di Villalta) e Goffredo Fofi, risalente ormai a diversi anni fa, nel quale lo scrittore triestino dissentiva dal critico che propugnava una maggior vitalità creativa degli scrittori del sud, a suo modo di vedere più sollecitati dai problemi veri e cocenti di quelle aree d'Italia. Questa sorta di "determinismo geografico" di Fofi oggi come ieri è incomprensibile: siamo tutti più simili e per questo dobbiamo anche prestare molta attenzione al nostro sistema di credenze e ai nostri immaginari, a come si creano, a come si consolidano e a come si infrangono nel tempo e tra gli spazi del contemporaneo.

In questo dialogo si parla naturalmente anche di cultura e non potrebbe essere altrimenti, visto l'impegno che da anni vede Villalta alla direzione artistica di pordenonelegge, il festival letterario italiano di maggior successo. Come tutte le manifestazioni che funzionano - e qui qualcuno, compreso l'intervistato, ci vedrebbe bene un gesto apotropaico - pordenonelegge ha attirato e continua ad attirare un pubblico cospicuo ma anche critiche e a generare dispiaceri. Mi domando se così fosse anche per Mantova, quando questa deteneva il primato indiscusso tra i festival letterari e mi sento di prendere una posizione di difesa, per quel che può valere e per quanto possa capire che alcuni miei connazionali siano attratti da un masochismo guidato spesso da una superbia solipsistica: credo infatti che pordenonelegge rappresenti non solo un'opportunità di accrescimento e di ascolto bell'e buona, sia per una città in senso lato sia per chi la frequenta in quei giorni, tanto ricca è l'offerta e tante le opportunità di ascoltare autori importanti senza spendere nulla per gli incontri, ma anche un esempio abbastanza singolare di rilancio. Anche tra i tanti amici poeti, tutti quelli che hanno criticato il censimento poetico fatto da pordenonelegge secondo me hanno dimenticato tre elementi fondamentali: 1) quel censimento può favorire (per quel che mi riguarda ha favorito) la conoscenza e il contatto tra chi pratica la scrittura poetica in Italia; 2) ha contribuito a una descrizione meno impressionistica del panorama basata sulle solite lamentele che siamo in troppi a scrivere e pochissimi a leggere; 3) è qualcosa, un punto di partenza, finanche una banale ma utile "rubrica telefonica". Nel dialogo tra Carollo e Villalta allora non si leggono prese di posizione figlie di una concezione statica e "ministeriale" della cultura come potrebbe essere il parlare solo di "cultura come diritto" o "cultura come privilegio", perché la cultura è già parte fondativa di un sistema sociale, economico e di pensiero, quando questo c'è davvero e dà segni di vita. Se si parla troppo a vanvera di cultura significa che è venuto a mancare quel sistema economico e di pensiero e con esso la sua cultura. Trasformare la cultura in un alibi, in una scusa o peggio ancora in un tema di dibattito fiacco è un peccato mortale. E soffermarsi a parlare solo in termini di diritto o privilegio della cultura denuncerebbe una visione vecchia e stantia della cultura stessa, legata a parametri per lo più nozionistici, didascalici e assai statici.

Nel dialogo non manca infine un'incursione nel territorio infido, a tratti forse tossico (nel senso della dipendenza), dei social media. La posizione non è da apocalittico e nemmeno da integrato. Ben si comprende che di questi non ne facciamo e non ne faremo a meno. Quel che è semmai denunciato è ricollegabile alla superbia solipsistica di cui si scriveva poco fa, all'assenza di un dialogo, ad un'interazione che rischia ad ogni curvatura del pensiero di diventare fasulla, risolta - ma in fondo drammaticamente irrisolta - nell'irrazionalità calcolata di un like

Quasi a compendio di quanto ripreso sin qui, ricordo un passaggio racchiuso in quel bel libro di racconti ormai introvabile che segnò l'esordio narrativo di Villalta, Un dolore riconoscente, dove si leggeva questo:

"La vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla.
La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente. Io mi aspetto che un giorno penserò a me stesso di questi anni nel modo in cui adesso penso a mio nonno e ai miei genitori, come qualcuno che era quello che diceva e vedeva ogni giorno, qualcuno che era tutto in quelle parole e in quegli sguardi.
Eppure questo film già finito crescerà insieme a me, questi prati che sembrano fatti per seguire la curva degli occhi, questi cieli pieni di nuvole non andranno più via. Diventeranno un peso che io sarò costretto a portare dentro di me, un altro me stesso che non smetterà di restare nel suo mondo, che porterò dentro di me insieme con un mondo ormai morto, e sarò veramente come i miei nonni e i miei genitori, ma più nessuno avrà ricordi così puri. Nessuno avrà più avuto così poco, nessuno avrà avuto abbastanza spazio, silenzio, vuoto dentro di sé come loro."


Il prezzo in copertina di quel libro di racconti era ancora in lire. Credo che, in nuce, le riflessioni che abbiamo letto in Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici o che possiamo leggere in questo Dialogo fossero tutte già in queste righe. Resta da capire, tra le altre cose, anche questo: se il mondo non è più fatto per finire in un bel libro dove diavolo può finire ora? Temo che sia fin troppo facile rispondere o pensare che possa finire nello schermo che avete davanti, grande o piccolo che sia. Io non sono del tutto convinto che questa sia la risposta esatta e definitiva, non la accendo e soprattutto non mi piace.

giovedì 16 febbraio 2012

"Le cose che dico adesso" di Alberto Garlini

Ripescaggi #10











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Un ripescaggio, ancora una volta di poesia. Il libro di Alberto Garlini Le cose che dico adesso (Nuovadimensione, 2001, pp. 75, euro 8,26 euro, con una prefazione di Claudio Damiani) fu una piccola rivelazione all'epoca in cui lo lessi. Questa recensione, mi par di ricordare, uscì una decina di anni fa sulla rivista Tratti.
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«Parto dalla concretezza di un sentimento, più spesso degli altri quello amoroso e poi dilato lo sguardo, noto le interferenze, le relazioni. Ogni cosa parte da un movimento vettoriale che va da me alle cose, c’è bisogno di questo movimento, che non è nemmeno un dialogo, ma un aspettare e lasciarsi invadere». Così Alberto Garlini parla, nel numero 3 della rivista daemon, di alcune sue poesie, ora uscite col titolo Le cose che dico adesso nella collana di Nuovadimensione diretta da Gian Mario Villalta. A considerare l’imbarazzo e il pudore che, per altri poeti, esiste in simili tentativi di spiegazione del proprio lavoro, dobbiamo dire che il nostro appare in possesso di un’invidiabile consapevolezza. Non è difficile convenire con l’autore, da lettori.

Mettiamo a confronto le parole dell’autore con un pezzo dalla prefazione di Claudio Damiani e cerchiamo di farle reagire assieme: «La pace delle cose, ci dice Alberto, è qualcosa forse di nostra invenzione. Le cose sono in pace perché stanno, sono prima e dopo di noi, ma la loro quiete è apparente. In realtà si muovono, è come un pulsare, un respiro […]».
Damiani centra giusto un aspetto primario della poesia di Garlini: la pace, o meglio, il rovistare della poesia attorno ad una possibile comprensione della pace: «Tutte le immagini che mi vengono incontro / sono col sole la strada che porta a Latisana. // La visiera del cappello dell’operaio abbronzato, / il mazzo di fiori appoggiato al platano bianco. // Insieme se le vedi sono cose che brillano. / Insieme sono tutto il dolore del mondo. // Stanno qui intorno e sembrano in pace.»

I titoli delle sottosezioni di cui questo libro è composto ci conducono a un aspetto centrale della poesia di Garlini: Ricordi, Nomi, Luoghi, Istanti, non sono altro che indici di ciò che ha portato queste poesie a manifestazione. Il poeta non armonizza disparate e disordinate percezioni (ricordi, persone, luoghi, ecc…) che giungono come un’onda. C’è qui un lasciarsi invadere più che un evadere dalla realtà. Diventa centrale,  necessariamente, l’assetto metrico che serve a trovare e regolare la giusta ampiezza, la frequenza, il periodo di quest’onda entrante e invadente.
La poesia di questo parmense (ma friulano d’adozione, da parecchi anni) sembra voler procedere con una ricerca metrica peculiare (a tratti ricorda la lassa pavesiana), attenta all’accostamento di unità che potrebbero ricordare i piedi latini. Questo senza voler trovare una definizione, ma, più che altro, per segnalare una direzione, una cadenza che possa accompagnare la lettura di questi componimenti. « […] Siamo gli stessi spazi che abitiamo, niente di più e di meno, / il pallone che segue la sua traiettoria nell’aria / e oltre il corpo. Qualcuno grida se da lontano lo tocco. // Le cose viste scompaiono in fretta / ricordandole immaginiamo ciò che non siamo.»

Questo spunto metrico ci permette di parlare anche di questa poesia come un piccolo tentativo di lasciarsi alle spalle certa modernità novecentesca. E c’è bisogno oggi di questo tipo di tentativi, tanto più se appaiono promettenti e riservano ampi spazi all’accoglienza di dinamiche aderenti a una stretta riorganizzazione (non armonizzazione) del vissuto:  «E se volevo giocare, allora ho giocato / ma come restando indietro alle cose della vita. / Non ho l’equilibrio di quelli che si immischiano / ci sono ancora parole che non dico per rispetto. // Preferirei che tu restassi a vedere i nostri sguardi, / solo loro, nel racconto che costruiamo la mattina, / il parcheggio, il cotone, lo specchio della vecchia credenza, / la candela spenta che è rimasta lì. Il sonno sui corpi. // Pensavo l’altra sera di essere felice nel miracolo, / ma la strada che faccio la devo fare e serve coraggio, / l’orologio ticchetta la notte più forte dei respiri. // Non voglio rattristare la vita degli altri. // Scendere fuori da qui, sul ghiaietto, e la radio / per non pensare alle cose che non ci sono, a quello / che si dice ma non è detto. Cadere da solo.»

Sarebbe assurdo cercare di parlare di questo libro solo in riferimento a certe caratteristiche metrico-linguistiche e a certe pesantezze novecentesche che Garlini cerca di superare (anche perché sarebbe corretto elencare quest’eredità del secolo scorso con precisione). È però vero che con in testa questi, seppur vaghi, pensieri, possiamo apprezzare meglio angolature e rilievi della sua scrittura ed entrare, è il caso di dirlo, nella sua frequenza d’onda:  «La mano sopra il piede continua la preghiera, la spezza. / La lingua assieme al tempo di me dietro che stringo la pelle. // Ho tenuto la mano sul piede una sera d’ottobre, intera. / Era lei che correva, colava il cielo giallo, la maglia con la lana. // Prima al bar studiavamo i modi alti dell’alba per darci piacere.»