Ripescaggi #10
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Un ripescaggio, ancora una volta di poesia. Il libro di Alberto Garlini Le cose che dico adesso (Nuovadimensione, 2001, pp. 75, euro 8,26 euro, con una prefazione di Claudio Damiani) fu una piccola rivelazione all'epoca in cui lo lessi. Questa recensione, mi par di ricordare, uscì una decina di anni fa sulla rivista Tratti.
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«Parto dalla concretezza di un sentimento, più spesso degli altri quello amoroso e poi dilato lo sguardo, noto le interferenze, le relazioni. Ogni cosa parte da un movimento vettoriale che va da me alle cose, c’è bisogno di questo movimento, che non è nemmeno un dialogo, ma un aspettare e lasciarsi invadere». Così Alberto Garlini parla, nel numero 3 della rivista daemon, di alcune sue poesie, ora uscite col titolo Le cose che dico adesso nella collana di Nuovadimensione diretta da Gian Mario Villalta. A considerare l’imbarazzo e il pudore che, per altri poeti, esiste in simili tentativi di spiegazione del proprio lavoro, dobbiamo dire che il nostro appare in possesso di un’invidiabile consapevolezza. Non è difficile convenire con l’autore, da lettori.
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Un ripescaggio, ancora una volta di poesia. Il libro di Alberto Garlini Le cose che dico adesso (Nuovadimensione, 2001, pp. 75, euro 8,26 euro, con una prefazione di Claudio Damiani) fu una piccola rivelazione all'epoca in cui lo lessi. Questa recensione, mi par di ricordare, uscì una decina di anni fa sulla rivista Tratti.
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«Parto dalla concretezza di un sentimento, più spesso degli altri quello amoroso e poi dilato lo sguardo, noto le interferenze, le relazioni. Ogni cosa parte da un movimento vettoriale che va da me alle cose, c’è bisogno di questo movimento, che non è nemmeno un dialogo, ma un aspettare e lasciarsi invadere». Così Alberto Garlini parla, nel numero 3 della rivista daemon, di alcune sue poesie, ora uscite col titolo Le cose che dico adesso nella collana di Nuovadimensione diretta da Gian Mario Villalta. A considerare l’imbarazzo e il pudore che, per altri poeti, esiste in simili tentativi di spiegazione del proprio lavoro, dobbiamo dire che il nostro appare in possesso di un’invidiabile consapevolezza. Non è difficile convenire con l’autore, da lettori.
Mettiamo a confronto le parole dell’autore con un pezzo dalla prefazione di Claudio Damiani e cerchiamo di farle reagire assieme: «La pace delle cose, ci dice Alberto, è qualcosa forse di nostra invenzione. Le cose sono in pace perché stanno, sono prima e dopo di noi, ma la loro quiete è apparente. In realtà si muovono, è come un pulsare, un respiro […]».
Damiani centra giusto un aspetto primario della poesia di Garlini: la pace, o meglio, il rovistare della poesia attorno ad una possibile comprensione della pace: «Tutte le immagini che mi vengono incontro / sono col sole la strada che porta a Latisana. // La visiera del cappello dell’operaio abbronzato, / il mazzo di fiori appoggiato al platano bianco. // Insieme se le vedi sono cose che brillano. / Insieme sono tutto il dolore del mondo. // Stanno qui intorno e sembrano in pace.»
I titoli delle sottosezioni di cui questo libro è composto ci conducono a un aspetto centrale della poesia di Garlini: Ricordi, Nomi, Luoghi, Istanti, non sono altro che indici di ciò che ha portato queste poesie a manifestazione. Il poeta non armonizza disparate e disordinate percezioni (ricordi, persone, luoghi, ecc…) che giungono come un’onda. C’è qui un lasciarsi invadere più che un evadere dalla realtà. Diventa centrale, necessariamente, l’assetto metrico che serve a trovare e regolare la giusta ampiezza, la frequenza, il periodo di quest’onda entrante e invadente.
La poesia di questo parmense (ma friulano d’adozione, da parecchi anni) sembra voler procedere con una ricerca metrica peculiare (a tratti ricorda la lassa pavesiana), attenta all’accostamento di unità che potrebbero ricordare i piedi latini. Questo senza voler trovare una definizione, ma, più che altro, per segnalare una direzione, una cadenza che possa accompagnare la lettura di questi componimenti. « […] Siamo gli stessi spazi che abitiamo, niente di più e di meno, / il pallone che segue la sua traiettoria nell’aria / e oltre il corpo. Qualcuno grida se da lontano lo tocco. // Le cose viste scompaiono in fretta / ricordandole immaginiamo ciò che non siamo.»
Questo spunto metrico ci permette di parlare anche di questa poesia come un piccolo tentativo di lasciarsi alle spalle certa modernità novecentesca. E c’è bisogno oggi di questo tipo di tentativi, tanto più se appaiono promettenti e riservano ampi spazi all’accoglienza di dinamiche aderenti a una stretta riorganizzazione (non armonizzazione) del vissuto: «E se volevo giocare, allora ho giocato / ma come restando indietro alle cose della vita. / Non ho l’equilibrio di quelli che si immischiano / ci sono ancora parole che non dico per rispetto. // Preferirei che tu restassi a vedere i nostri sguardi, / solo loro, nel racconto che costruiamo la mattina, / il parcheggio, il cotone, lo specchio della vecchia credenza, / la candela spenta che è rimasta lì. Il sonno sui corpi. // Pensavo l’altra sera di essere felice nel miracolo, / ma la strada che faccio la devo fare e serve coraggio, / l’orologio ticchetta la notte più forte dei respiri. // Non voglio rattristare la vita degli altri. // Scendere fuori da qui, sul ghiaietto, e la radio / per non pensare alle cose che non ci sono, a quello / che si dice ma non è detto. Cadere da solo.»
Sarebbe assurdo cercare di parlare di questo libro solo in riferimento a certe caratteristiche metrico-linguistiche e a certe pesantezze novecentesche che Garlini cerca di superare (anche perché sarebbe corretto elencare quest’eredità del secolo scorso con precisione). È però vero che con in testa questi, seppur vaghi, pensieri, possiamo apprezzare meglio angolature e rilievi della sua scrittura ed entrare, è il caso di dirlo, nella sua frequenza d’onda: «La mano sopra il piede continua la preghiera, la spezza. / La lingua assieme al tempo di me dietro che stringo la pelle. // Ho tenuto la mano sul piede una sera d’ottobre, intera. / Era lei che correva, colava il cielo giallo, la maglia con la lana. // Prima al bar studiavamo i modi alti dell’alba per darci piacere.»
Questo spunto metrico ci permette di parlare anche di questa poesia come un piccolo tentativo di lasciarsi alle spalle certa modernità novecentesca. E c’è bisogno oggi di questo tipo di tentativi, tanto più se appaiono promettenti e riservano ampi spazi all’accoglienza di dinamiche aderenti a una stretta riorganizzazione (non armonizzazione) del vissuto: «E se volevo giocare, allora ho giocato / ma come restando indietro alle cose della vita. / Non ho l’equilibrio di quelli che si immischiano / ci sono ancora parole che non dico per rispetto. // Preferirei che tu restassi a vedere i nostri sguardi, / solo loro, nel racconto che costruiamo la mattina, / il parcheggio, il cotone, lo specchio della vecchia credenza, / la candela spenta che è rimasta lì. Il sonno sui corpi. // Pensavo l’altra sera di essere felice nel miracolo, / ma la strada che faccio la devo fare e serve coraggio, / l’orologio ticchetta la notte più forte dei respiri. // Non voglio rattristare la vita degli altri. // Scendere fuori da qui, sul ghiaietto, e la radio / per non pensare alle cose che non ci sono, a quello / che si dice ma non è detto. Cadere da solo.»
Sarebbe assurdo cercare di parlare di questo libro solo in riferimento a certe caratteristiche metrico-linguistiche e a certe pesantezze novecentesche che Garlini cerca di superare (anche perché sarebbe corretto elencare quest’eredità del secolo scorso con precisione). È però vero che con in testa questi, seppur vaghi, pensieri, possiamo apprezzare meglio angolature e rilievi della sua scrittura ed entrare, è il caso di dirlo, nella sua frequenza d’onda: «La mano sopra il piede continua la preghiera, la spezza. / La lingua assieme al tempo di me dietro che stringo la pelle. // Ho tenuto la mano sul piede una sera d’ottobre, intera. / Era lei che correva, colava il cielo giallo, la maglia con la lana. // Prima al bar studiavamo i modi alti dell’alba per darci piacere.»
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