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mercoledì 27 giugno 2018

"Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste". Il secondo appuntamento con Origami. Altri usi della carta a Treviso

In vista della seconda serata della rassegna "Origami. Altri usi della carta" che si terrà a Treviso martedì 3 luglio 2018 negli spazi di Treviso Ricerca Arte (informazioni qui, evento Facebook qui) pubblichiamo di seguito l'introduzione al volume Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste (Pendragon, 2018) a cura di Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi, Davide Antonio Paone e Federica Parodi. 
A Treviso interverranno Franco Baldasso (Bard College, New York), Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi e Federica Parodi (Università di Bologna).


Introduzione

«Sistema periodico: il secolo interminabile delle riviste» vuole essere anzitutto un volume di passaggio. Esso non ha la pretesa di porsi come meta conclusiva della ricerca e dello studio, ma di diventare un utile compagno di viaggio, una lettura in itinere dell’evoluzione del sistema-rivista nel corso del Novecento. Vorrebbe altresì farsi passaggio: da un lungo lavoro compiuto a uno ancora da stabilire e svolgere, proiettato, noi speriamo, in un futuro prossimo. Il progetto Sistema periodico nasce nel 2016 su iniziativa di un ristretto gruppo di studenti, alcuni dei quali sono ora i curatori di questo volume. In origine esso voleva proporsi come spazio di confronto e condivisione all’interno dell’Università di Bologna. L’auspicio era quello di predisporre una piattaforma di dialogo organizzata, gestita e rivolta da e per gli studenti; uno spazio laboratoriale in cui ascoltare chi sulla materia aveva speso gran parte della propria vita e poter cimentare i nostri strumenti ancora in corso di formazione, poter in qualche modo contribuire alle dinamiche critiche e convogliare l’entusiasmo degli studenti che ogni giorno vivevamo in prima persona. Fu così che nell’ottobre di quell’anno si decise di proporre l’idea a Stefano Colangelo, il quale non solo l’accolse con entusiasmo, ma consentì anche di dare forma concreta al progetto. Grazie alla sua mediazione, e con l’approvazione del dipartimento di Italianistica, siamo giunti alla creazione di un vero e proprio laboratorio didattico, inserito a tutti gli effetti nel curriculum della laurea magistrale di Italianistica e Scienze Linguistiche.
Una volta realizzata la possibilità di strutturare un progetto che partisse dagli studenti, ma che riuscisse parimenti a coinvolgere nella riflessione esperti e accademici, reputammo essenziale scegliere un tema che fosse utile al nostro percorso di studi e, al contempo, lasciato ai margini dei tradizionali programmi universitari. Si decise di indirizzare il progetto verso una trattazione sistematica delle riviste letterarie del Novecento italiano.
La scelta nacque alla luce di alcune considerazioni: ci accorgemmo innanzitutto che le riviste costituiscono uno degli strumenti di raccordo ineludibili per comprendere i passaggi più importanti della storia del XX secolo. Poi, sempre con quest’ottica retrospettiva e appassionata, fummo presi anche da un poco di malinconia: noi quelle riviste – ossia lo strumento per leggere la storia che si stava scrivendo – non le abbiamo potute leggere. Infine constatammo che, probabilmente, senza le riviste molti degli autori che leggiamo e amiamo non li avremmo mai conosciuti. Ma c’è una ulteriore, forse più cogente, motivazione. Studiando e discutendo ci parse spesso che in alcune semplificazioni la letteratura fosse vista come una concatenazione di fatti, opere, date, autori, correlati certo tra loro, ma ognuno impegnato a portare avanti il proprio discorso. Sappiamo bene che non è così e che la letteratura è qualcosa molto più complesso e intrigante. Guardando alle riviste ci sembrò che potessero costituire l’emblema di una letteratura che non procede per soliloqui, una letteratura come processo inesauribile che si costituisce come fatto sociale e antropologico, che quindi si affianca all’uomo nel suo continuo mutare.
Tra le varie denominazioni che il secolo appena passato si è guadagnato nel suo breve, eppure intenso e indelebile passaggio, ce n’è una che fa il caso nostro: Novecento, “il secolo delle riviste”. Novecento e riviste: come se l’uno si rispecchiasse nell’altro, o come in un rapporto di causa-effetto (decidete voi quale sia la causa e quale l’effetto). Due fenomeni, insomma, che coesistono, che coabitano e che proprio in virtù di questa convivenza iniziano a somigliarsi. Da qui il titolo – proposto inizialmente da Stefano Colangelo come un richiamo citazionistico in riferimento a Primo Levi – assunse progressivamente una forza evocativa cui non siamo riusciti a rinunciare. L’intento è quello di indagare un meccanismo che pone a sistema i periodici letterari a partire dalla seconda metà del Novecento (con le dovute retrospettive alla prima parte del secolo) per arrivare a discutere sulle questioni contemporanee inerenti al ruolo della rivista, all’avvento di internet e alla produzione letteraria – specialmente poetica – entro il nuovo contesto che a partire dagli anni Duemila sta prendendo forma. Un vero e proprio Sistema periodico, dunque. Quasi a indicare che il cambio di episteme auspicato dall’avvento del post-modernismo continui a essere rimandato in favore di una protuberanza sempre più lunga del Novecento, per via delle indubbie caratteristiche di continuità.

Nel tentativo di fornire delle coordinate per orientarsi entro questo “secolo interminabile” abbiamo ritenuto necessario organizzare il materiale rimanendo fedeli all’evoluzione cronologica, cercando al contempo di tessere un discorso proiettato alla situazione odierna. Il lavoro prova a rispondere ad alcuni quesiti fondanti, partendo dallo strumento rivista (inteso alla maniera novecentesca), e coinvolgendo questioni riguardanti la produzione poetico-letteraria e la sua diffusione in relazione ai nuovi contesti che si stanno costituendo. Naturalmente una trattazione completa dell’argomento avrebbe richiesto uno spazio decisamente più ampio e un lavoro differente, ma è nostra convinzione che porre in essere la problematizzazione di tale discorso significhi gettare le fondamenta affinché si sviluppino riflessioni di più lungo corso. La scelta è stata dunque quella di suddividere il volume in cinque parti: la prima è un’introduzione allo strumento rivista che caratterizzò il secolo scorso; la seconda una retrospettiva storica rispetto alle riviste del primo Novecento; la terza, più approfondita perché ci consente di entrare nel merito del discorso sulla contemporaneità, è costituito da otto approfondimenti su alcune delle riviste del secondo Novecento, le quali ci sono parse più significative per descrivere il peso che la rivista ha avuto sul piano storico-letterario. Con la quarta parte si apre il discorso sulla produzione poetica contemporanea in relazione agli spazi e alle forme – dunque al contesto in cui si situa – a partire dal nuovo millennio, mantenendo sempre al centro l’ormai labile strumento rivista (il discorso sulla poesia si chiude con una tavola rotonda tra Vincenzo Frungillo, Gianluca Rizzo e Ivan Schiavone, poeti tra loro molto diversi ma che condividono uno sguardo per certi versi comune); la quinta parte è il tentativo di avviare alcune riflessioni riguardo allo sviluppo delle riviste e della letteratura a seguito dell’avvento di internet, chiamando in causa, in ultimo, la voce di alcune delle riviste più interessanti in attività.
Unica avvertenza che ci sentiamo in dovere di fare è la seguente: il presente studio non ha lo scopo di proporsi come fonte esauriente ed esaustiva dell’argomento, ma come insieme composito di approfondimenti. Consigliamo dunque di utilizzare il volume come strumento di accompagnamento alla lettura e allo studio delle riviste. Questo significa, dunque, che la lettura dei saggi non sostituisce quella dei periodici, ma la supporta e la fortifica. La raccomandazione è quella di cercare le riviste, prenderle in mano, sfogliarle, scoprire la loro materialità, assieme alla stupefacente storia di cui sono portatrici.

[...]

Franco Baldasso è direttore delll'Italian Program di Bard College, NY, dove è Assistant Professor di Italian Studies. Nella sua ricerca esamina la complessa relazione tra Fascismo e Modernismo, l'eredità della violenza politica in Italia e l'idea del Mediterraneo nell'estetica moderna e contemporanea. Ha scritto il libro Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone (Pendragon, 2007) ed è co-editore della pubblicazione di Nemla-Italian Studies intitolata “Italy in WWII and the Transition to Democracy: Memory, Fiction, Histories.” Sta lavorando a un libro titolato provvisoriamente “Against Redemption: Literary Dissent during the Transition from Fascism to Democracy in Italy.” Scrive per il sito publicbooks.org ed è membro della redazione della rivista "Allegoria" e fa parte del comitato scientifico dell'Archivio della Memoria della Grande Guerra del Centro Studi sulla Grande Guerra "P. Pieri" di Vittorio Veneto.

Francesco Bortolotto è autore del paragrafo 3.d («Caro Vitt»: Leonetti racconta il «Menabò»), co-autore del paragrafo 3.i (Una crepa nel sistema: dalla crisi di Quindici alla ricostruzione di Alfabeta), curatore del paragrafi 3.f (Paradossale classicismo: «Botteghe Oscure» e «Paragone Letteratura») e 3.g (Marcatré). 
Eleonora Fuochi è co-autrice del paragrafo 5.b (Cultural studies: un problema di politica culturale), curatrice dei paragrafi 2.b (Le riviste sotto il regime fascista), 3.e (il verri), 3.h (Ciclostilati in proprio: la critica dei Quaderni piacentini), 4.c (La (forma) rivista come forma della ricerca) e 5.c (La voce delle riviste). 
Davide Paone è co-autore del paragrafo 3.i (Una crepa nel sistema: dalla crisi di Quindici alla ricostruzione di Alfabeta), curatore dei paragrafi 1 (Percorsi tra le riviste del Novecento), 3.a (Le riviste del secondo Novecento), 3.c (Uno sguardo al Politecnico), 4.a (Lo spazio della poesia e la rete), 4.b (Di forme e formati. Appunti sui modi di presenza della poesia contemporanea) e le parti di Vincenzo Frungillo e Ivan Schiavone del paragrafo 4.d (La voce dei poeti: il contesto, la poesia, la rivista). 
Federica Parodi è co-autrice del paragrafo 5.a (Riflessioni sull’informazione digitale nella critica letteraria), curatrice dei paragrafi 2.a (Rinnovamento culturale e peso del passato. Lacerba e il futurismo) e della parte di Gianluca Rizzo del paragrafo 4.d (La voce dei poeti: il contesto, la poesia, la rivista).

martedì 12 giugno 2018

Origami: Treviso Ricerca Arte ospita la presentazione del libro "Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste"



Martedì 3/07, ore 20:45
ORIGAMI. ALTRI USI DELLA CARTA
"Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste"
con Franco Baldasso (Bard College, New York), Francesco Bortolotto, Eleonora Fuochi e Federica Parodi (Università di Bologna)
Presenta Alberto Cellotto

TRA – Treviso Ricerca Arte
Ca' dei Ricchi
via Barberia, 25
Treviso



“Origami. Altri usi della carta” è il nuovo format ideato da Alberto Cellotto per TRA Treviso Ricerca Arte per veicolare la presentazione di un libro: 60 minuti, suddivisi in 4 diversi momenti, per far parlare le pieghe del libro e del suo autore e per evitare di parlar loro addosso. Il nome della rassegna evoca l’atto del piegare un foglio di carta per ottenere una figura singolare, spesso sorprendente. Rinvia a un’arte e a un passatempo curioso ancora diffuso nel contemporaneo e la carta, protagonista nelle pieghe dell’origami, è un supporto tra gli altri ancora disponibili attraverso il quale veicolare idee, discussioni, polemiche.


Il volume “Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste” (Pendragon, 2018) nasce dall’esperienza dell’omonimo laboratorio didattico organizzato da alcuni studenti dell’Università di Bologna all’interno del dipartimento di Italianistica. La scelta di periodizzare uno sguardo sulla letteratura italiana dal Novecento a oggi seguendo l’evoluzione delle riviste letterarie e culturali è dettata dall’interesse nei confronti dello strumento rivista, dinamico e onnipresente, che può fungere da ottima chiave di lettura di un arco temporale quanto mai problematico per la letteratura. Punto di forza della ricerca, oltre al tentativo di proporre alcune delle più importanti questioni letterarie della contemporaneità sotto una nuova luce, è l’eterogeneità dei contributi, che rende il volume polifonico, coinvolgendo accademici, poeti, operatori editoriali e gli stessi studenti. Tale carattere permette altresì di non appiattire la trattazione su una mera storia delle riviste letterarie, ma strutturare un discorso – senza alcuna pretesa di completezza – ricco di spunti e approfondimenti, da affiancare alla materia viva della letteratura contemporanea e al contatto con le riviste. Non un manuale, dunque, ma un supporto che possa tanto supportare lo studioso, quanto accompagnare un primo approccio alla trattazione delle riviste letterarie.

Link appuntamento: http://www.trevisoricercaarte.org/rassegne/origami-altri-usi-della-carta-2/

Ingresso riservato ai soci TRA o su offerta responsabile.

Si ricorda che il primo appuntamento con la rassegna "Origami. Altri usi della carta" sarà martedì 26 giugno sempre alle 20:45 con Maria Anna Mariani e il libro Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exorma). 
Link appuntamento: http://www.trevisoricercaarte.org/rassegne/origami-altri-usi-della-carta/


Contatti
(+39) 0422 419 990
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martedì 8 maggio 2018

La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920). Un'intervista di Franco Baldasso a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto

Librobreve intervista #82

Di seguito potete leggere un'intervista a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto, autori del libro La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) recentemente pubblicato da Quodlibet (pp. 320, euro 22). L’autore dell’intervista è Franco Baldasso, che insegna Italian Studies al Bard College di New York. Ringrazio intervistati e intervistatore per la cura e la collaborazione.


D.: Sarebbe bello cominciare l'intervista con il racconto delle persone, degli incontri, delle discussioni che hanno fatto partire questa importante iniziativa.

R.: Grazie per questa domanda, che ci permette di aprire una finestra sul modo con cui abbiamo lavorato nei cinque anni del progetto di ricerca di cui questo libro è il risultato. Come speriamo risulti chiaro a chi ci leggerà, si tratta di un libro concepito e discusso da un gruppo, non della raccolta di cinque saggi di cinque autori su uno stesso argomento. Dal 2013, anno di avvio del progetto, ci siamo incontrati regolarmente, ogni mese, per ragionare insieme sulla nostra domanda fondamentale: che cos’è stata la letteratura tedesca in Italia nel corso del Novecento?
Man mano che procedevamo, ci siamo resi conto che le nostre forze non bastavano a seguire tutte le piste – o che comunque avevamo bisogno di confrontarci con chi aveva lavorato o stava lavorando sugli stessi argomenti o su argomenti diversi con obiettivi simili ai nostri. Nell’arco dei cinque anni, perciò, abbiamo spesso invitato alle nostre riunioni gli studiosi di cui ci interessavano le ricerche: e ci siamo accorti che l’interesse – quasi vorace –  che abbiamo sempre manifestato per il lavoro degli altri ha creato dei legami forti anche con studiosi esterni al gruppo: forse perché, per come è strutturato oggi il lavoro all’università, passare un pomeriggio intero a raccontare un proprio libro, o un saggio, o il progetto di un libro o di un saggio è un’occasione rara. E infatti molti dei nostri “ospiti” sono poi diventati collaboratori: c’è chi ha accettato di prendere in gestione parti del database di traduzioni di letteratura straniera in Italia che abbiamo costruito, allargandolo a letterature diverse dalla tedesca; c’è chi si è messo studiare la traiettoria dei più importanti mediatori di letteratura in Italia, che confluiranno nel portale che ospita la banca dati; c’è chi ci ha letto, o ci ha dato da leggere i suoi lavori, chi ha partecipato ai nostri seminari o ci ha invitato a convegni. In questi cinque anni abbiamo insomma davvero lavorato “in gruppo”: cosa che, perlomeno in ambito umanistico, in Italia si fa di rado, perché è diffusa un’idea del lavoro di ricerca come tenzone singolare, individuale, con un grande testo o un grande problema.

D: Un lavoro del genere ha bisogno di istituzioni che siano sensibili e che possano garantirvi un'opportuna copertura finanziaria - oltre che gli strumenti della ricerca. Potresti raccontarci come tutto questo è avvenuto? (Anche per raccontare un modello di finanziamento della cultura che solo in parte viene dalle istituzioni universitarie).

R.: In effetti questi cinque anni di lavoro comune sono stati favoriti da circostanze eccezionali nell’ambito della ricerca italiana. Nel 2008 e nel 2012 il Ministero dell’Università e della Ricerca ha istituito un programma di finanziamento, con due linee specifiche dedicate a ricercatori “non strutturati”, cioè senza impiego, modellato sui progetti europei ERC e che permetteva di richiedere finanziamenti altrettanto consistenti: l’obiettivo era quello di creare gruppi di ricerca che lavorassero su progetti d’avanguardia, finanziandoli adeguatamente. Già due anni dopo, con la trasformazione del FIRB in SIR, il finanziamento si era contratto, e gli uffici di ricerca delle università sconsigliavano di presentare progetti di gruppo – sostanzialmente, i SIR, perlomeno in ambito umanistico, sono tornati a favorire progetti individuali, gestiti da un singolo ricercatore. Insomma siamo stati fortunati innanzitutto perché siamo riusciti a infilarci, con il nostro progetto, in questa finestra di breve durata.
Il Ministero ci ha finanziato per un totale di quasi 800mila euro: possono sembrare tanti, ma in realtà sono serviti soprattutto a finanziare per cinque anni tre contratti RTDa (da ricercatore a tempo determinato senza tenure), destinati ai responsabili delle tre unità di ricerca (Michele Sisto all’Istituto italiano di studi germanici in Roma; Anna Baldini all’Università per Stranieri di Siena; Irene Fantappiè a Sapienza Università di Roma). Se il nostro gruppo ha potuto allargarsi è stato grazie a Irene, che ha rinunciato al suo contratto e ha continuato a collaborare con noi pur essendo inquadrata e stipendiata dalla Humboldt Universität zu Berlin: si sono così aggiunte al gruppo anche Daria Biagi e Stefania De Lucia. Un ulteriore allargamento l’abbiamo avuto due anni fa, quando Michele è diventato professore associato a Pescara e Anna Antonello ha vinto il concorso per subentrargli come ricercatrice all’IISG.
Il resto del budget ci è servito a finanziare la costruzione della banca dati sulla letteratura tradotta in Italia nel Novecento, che, rispetto al progetto originario incentrato sulla letteratura tedesca, ora si è estesa ad altre letterature; il portale che la ospita sarà on-line, da giugno, all’indirizzo www.ltit.it.

D.: Il libro in questione fa parte di un più ampio progetto sulla letteratura tedesca in Italia nel Novecento. Potreste delinearne le linee guida e i contorni?

R.: L’idea di fondo del progetto non riguarda soltanto la letteratura tedesca: siamo convinti che la letteratura tradotta in generale vada studiata come parte integrante della letteratura italiana. Il sistema che fa l’una e l’altra è lo stesso – non solo nel senso che l’editoria pubblica allo stesso modo scrittori italiani e scrittori tradotti, ma anche perché le logiche che portano i primi a scrivere certe opere e non altre, in un certo modo e non in un altro, sono le stesse che portano a tradurre certi libri e non altri, in un determinato modo e non altrimenti.
Come conseguenza di questa convinzione di fondo, nel nostro lavoro abbiamo dato grande importanza alle persone che fanno i libri e orientano queste logiche. Abbiamo indagato gli attori della vita letteraria italiana, sia quelli che sono entrati stabilmente nel nostro canone, sia quelli che oggi sono meno conosciuti, ma che spesso hanno esercitato un ruolo importante nel transfer letterario: qual è stata la posizione di queste persone nel campo letterario italiano? Come hanno selezionato i testi da tradurre, e perché (per ragioni di mercato, per affinità letterarie, per relazioni personali…)? In che contesto sono stati inseriti gli autori e i testi tradotti, cioè in quale collana, in quale rivista, in quale progetto letterario? E come vengono interpretati, “marchiati”, e canonizzati gli autori e i testi tradotti? Il nostro lavoro ha cercato insomma di ricostruire il contesto che ha portato una certa opera straniera a esistere in lingua italiana.
Chi userà il portale www.ltit.it, troverà perciò, accanto ai dati sui libri tradotti, informazioni e studi sulle traiettorie biografiche e professionali dei mediatori di letteratura: traduttori, direttori di collana, specialisti delle singole letterature, critici letterari, giornalisti, docenti. Anche nel libro abbiamo inserito cinque di queste traiettorie: quelle di due traduttori, Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini; quelle di due mediatori di solito non associati alla letteratura tedesca, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini (che sono stati sia traduttori che direttori di collana e di riviste); e infine quella di un editore, Rocco Carabba di Lanciano.

Vincenzo Errante
D.: Inevitabilmente la vostra trattazione rappresenta anche un importante contributo di storia dell'editoria in Italia e molto bello, tra gli altri, è il capitolo antologico finale (dove si riprende l'invettiva di Gobetti contro Treves). Nell'ambito della storia dell'editoria, qual è o quali sono gli aspetti più curiosi nei quali vi siete imbattuti proponendo questa introduzione alla letteratura tedesca in Italia nelle prime due decadi del Novecento?

R.: Uno dei più curiosi è senz’altro che a fondare e dirigere le collane di letterature straniere di alcune delle principali case editrici italiane siano stati dei germanisti, nel senso stretto di professori di letteratura tedesca all’università: è Borgese a ideare «Antici e moderni» di Rocco Carabba, editore molto importante negli anni ’10 e ’20 anche perché legato all’avanguardia fiorentina, e più tardi, nel 1930, sempre Borgese inventa per Mondadori la «Biblioteca Romantica», un capolavoro nel genere (si può essere d’accordo con Calasso quando sostiene che la collana è un genere letterario a sé); Guido Manacorda, rivale di Borgese nel 1910 al concorso per la cattedra di letteratura tedesca Roma e poi vincitore a Napoli, dirige prima la collana di Laterza «Scrittori Stranieri», voluta da Croce come pendant agli «Scrittori d’Italia», poi la «Biblioteca Sansoniana Straniera», prima collana italiana con testo originale a fronte; Arturo Farinelli, professore a Torino e fondatore della prima scuola germanistica italiana, dirige «I Grandi Scrittori Stranieri» di UTET, in cui escono numerosissime prime traduzioni; nei primi anni ’40 il successore di Borgese sulla cattedra di Milano, Vincenzo Errante, inventa per il giovane Aldo Garzanti gli «Scrittori Stranieri», collana di non grande importanza, ma anch’essa sintomatica della tendenza.
Ma l’aspetto più interessante, credo, resta quello strutturale: il legame, quasi sempre presente, tra una casa editrice che innova sul piano dei programmi di traduzione e un’avanguardia letteraria che innova sul piano delle poetiche. Dietro una collana innovativa c’è quasi sempre, se non un germanista, uno scrittore o un critico o un traduttore formatosi nei circuiti della militanza letteraria, personaggi che hanno una ben precisa visione della letteratura: i casi ben noti di Vittorini e Pavese, che sembrano eccezionali, rientrano invece in una regolarità. Solo che non sempre abbiamo a che fare con figure canonizzate: spesso si tratta di “perdenti” nella lotta per la consacrazione. È il caso di Enrico Filippini, scrittore legato alla neoavanguardia, attivo nella Feltrinelli degli anni ’60; ma, passando in rassegna gli organigrammi delle case editrici, anche di quelle attive oggi, i nomi si moltiplicherebbero.

D.: Parlare di letteratura tedesca in Italia significa parlare di traduzione come pratica culturale e di traduzioni dei singoli testi. C'è un concetto tra altri che è parso molto utile, quello di “postura” autoriale, che torna a galla nelle varie parti del libro. Per certi aspetti pare tuttora centrale o comunque resistente. Vorreste brevemente illustrarlo?

R.: La nozione di “postura” ci è parsa rilevante poiché, nel corso delle nostre ricerche, ci siamo resi conto che tradurre letteratura straniera è qualcosa che va ben al di là del volgere in italiano questo o quel testo, ed è anche qualcosa che non influenza solo quelle che si usa chiamare le “poetiche” dei singoli autori o la gerarchia dei generi letterari, ma anche le identità degli autori di una determinata area linguistico-letteraria. Abbiamo ricavato il concetto dagli studi del critico svizzero Jérôme Meizoz, che ne ha parlato soprattutto in Postures (2007), La Fabrique des singularités (2011) e più recentemente La Littérature “en personne” (2016). Con “postura” Meizoz intende l’identità dell’autore all’interno del campo letterario che, oltre a essere ben distinta da quella biografica, va pensata come un costrutto realizzato sia dall’autore stesso sia dal contesto che lo circonda. La “postura”, insomma, consente di superare la problematica ma duratura contrapposizione tra un’idea di “autore” ancorata alla poetica, che spesso ne esalta la singolarità o addirittura l’unicità, e una nozione di “autore” legata alla storia, a una dimensione collettiva e pubblica. Questo concetto è risultato utile soprattutto per la linea di ricerca che nel libro corrisponde al quarto capitolo, e che si concentra sui paradigmi che orientano la mediazione letteraria: tra i principali modi di intendere la traduzione nell’ambiente delle riviste fiorentine del periodo 1900-1920 c’è infatti quello che intende la traduzione stessa come una importazione non tanto di singoli testi quanto piuttosto della persona dell’autore, appunto della sua “postura” autoriale.
                              
Pierre Bourdieu
D.: Le basi teoriche del vostro lavoro sono meritevoli di un approfondimento. Il discorso della sociologia della letteratura oggi può sfociare in luoghi comuni spesso non approfonditi, nonostante la rilevanza e l'ineccepibilità di un'apertura dello studio della letteratura agli altri campi e all'attualità. Ci potreste parlare delle vostre scelte teoriche, condivise o meno dall'intero gruppo di ricerca?

R.: Le prime due linee della nostra ricerca – quella sull’editoria e quella che individua le logiche del transfer nelle dinamiche del conflitto interno al campo letterario italiano – si sono servite principalmente degli strumenti messi a punto dal sociologo francese Pierre Bourdieu, la cui particolarità è quella di non limitarsi a studiare gli oggetti di ricerca tradizionali della sociologia della letteratura (mercato, paraletteratura, pubblico). Per come sono istituite le discipline letterarie in Italia, la sociologia della letteratura è vista, quando va bene, come un campo di studi a sé, quando va male, come una disciplina incapace di comprendere autenticamente la letteratura. Bourdieu invece ha provato a spiegare l’intero spettro della produzione letteraria, materiale e simbolica, studiando grandi autori del canone occidentale: Flaubert (Les Règles de l’art, 1992), Heidegger (L’Ontologie politique de Martin Heidegger, 1988), Manet (Manet. Une révolution symbolique, 2013). Da questa prospettiva abbiamo imparato a tenere insieme le cose: a non studiare un testo o un autore isolatamente, ma a vederli inseriti in un campo di relazioni e di conflitti, ridando senso alle battaglie che i letterati del passato hanno combattuto, in cui hanno investito la loro esistenza. È un modo molto umano (ma non troppo umano) di studiare qualcosa che di solito ci viene raccontato in maniera astratta, cristallizzata, distaccata.
L’armamentario teorico desunto da Bourdieu, però, poteva aiutarci soltanto fino a un certo punto. Quando si è trattato di lavorare concretamente sui testi – compito della terza delle nostre unità di ricerca – è stato subito chiaro che avevamo bisogno di ricorrere ad altri strumenti, forniti da discipline che per il nostro progetto si sono rivelate altrettanto importanti: dalla filologia testuale alle più recenti acquisizioni dei translation studies, dalla storia della letteratura all’analisi linguistica. Data la complessità del nostro oggetto, d’altra parte, la “cassetta degli attrezzi” non poteva che essere plurale, eclettica; e ciascuno di noi, a seconda dell’argomento scelto per i propri individuali approfondimenti, a seconda dei propri interessi e della propria formazione – che per molti di noi non è di stampo sociologico ma filologico o storico-letterario – si è costruito o ha scelto un approccio individuale. Questa pluralità ha arricchito non poco il dialogo all’interno del gruppo, e ha contribuito – o almeno così speriamo – a rendere i risultati della ricerca più sfaccettati.                                                                                                                      
Andrea Maffei (1798 - 1885)
D.: State assiduamente lavorando sul Novecento. Avete mai pensato di affrontare anche gli scorsi secoli, con l'Ottocento per esempio?

R.: Quella di affrontare l’Ottocento è stata una idea ricorrente e anche, spesso, una tentazione alla quale resistere. È innegabile che la storia della ricezione di alcuni autori e opere nel Novecento italiano abbia una tradizione che affonda le sue radici nel secolo precedente: sono molte le traduzioni ottocentesche che continuano a circolare nel secolo successivo, talora con minime varianti, altre volte senza alcun tipo di modifica al testo tradotto, se non l’aggiunta di nuovi apparati paratestuali. Tra i progetti futuri di alcuni di noi c’è proprio quello di ripercorrere la storia della letteratura tedesca in Italia a ritroso fino ai suoi inizi, che poi non sono troppo remoti: Paola Maria Filippi ha documentato che la prima traduzione di un testo letterario dal tedesco, il poemetto fisico L’origine del lampo di Tiller, risale al 1756. Possiamo anche citare già alcuni studi nati in questa prospettiva: Michele Sisto, per esempio, ha iniziato a ricostruire le vicende traduttive e editoriali del Faust di Goethe, da Giovita Scalvini al presente, mentre Laura Petrella, che facendo il dottorato di ricerca è entrata nell’orbita del nostro progetto, sta ricostruendo la traiettoria di Andrea Maffei come traduttore non solo del Faust ma anche di Gessner, Schiller, Heine, Shakespeare e molti altri.

Uwe Johnson
D.: Quale ruolo e quale ricezione ha invece la letteratura tedesca oggi in Italia?

R.: Se consideriamo che oggi circa l’80% delle traduzioni letterarie sono dall’inglese, la letteratura tedesca ha un peso certamente più limitato rispetto agli anni 1930-1980, che, visti sul lungo periodo, risultano una sorta di cinquantennio d’oro, per molti versi eccezionale. Ma più della quantità conta, oggi come per il periodo che abbiamo studiato, la qualità, vale a dire i progetti editoriali legati a una visione specifica della letteratura, in grado di far diventare uno scrittore tedesco patrimonio della cultura letteraria italiana, di dargli una posizione e un capitale simbolico. Uno scrittore che è diventato imprescindibile per chi si forma letterariamente oggi è Thomas Bernhard, che Einaudi e soprattutto Adelphi hanno consacrato inserendolo in progetti editoriali peraltro assai diversi, anzi, quasi antitetici. Senza Bernhard i libri di Paolo Nori o di Vitaliano Trevisan non sarebbero quello che sono. Lo stesso, in misura appena minore, si può dire di W.G. Sebald, di cui Adelphi ha addirittura ri-tradotto molti volumi.
Vero è che dopo Sebald è difficile individuare autori che godano da noi di una consacrazione altrettanto ampia; forse Christa Wolf, che e/o ha introdotto fin dagli anni ’80 nei circuiti della ricerca letteraria al femminile, ha avuto un ruolo importante nella scrittura di Elena Ferrante. Ma altri scrittori notevoli proposti più recentemente, come Marcel Beyer, Uwe Timm, Ingo Schulze, Christian Kracht, Terézia Mora, Clemens Meyer o gli stessi premi Nobel Elfriede Jelinek e Herta Müller non sembra siano stati metabolizzati, anche perché di rado sono stati proposti in contesti collegati alla militanza letteraria. D’altra parte i grandi editori spesso si limitano a tradurre scrittori di lingua tedesca che hanno avuto successo in patria o che hanno vinto premi, mentre le giovani case editrici più vicine ai movimenti letterari, come Minimum Fax, in genere non sono interessate alla letteratura tedesca; quelle che lo sono, come Keller, Del Vecchio o L’Orma, hanno meno legami con gli scrittori italiani, almeno per ora. Forse oggi sono più vitali alcuni recuperi di scrittori del medio Novecento, come Arno Schmidt, a cui Domenico Pinto ha dedicato la collana «Arno» presso Lavieri e diversi interventi su Nazione Indiana, o Uwe Johnson, di cui L’Orma ha da poco finito di tradurre i quattro volumi de I giorni e gli anni, opera importante per uno scrittore come Roberto Saviano, che Feltrinelli aveva abbandonato al secondo volume. Ma bisognerà aspettare per comprendere gli sviluppi di lungo periodo.

venerdì 1 dicembre 2017

A ciascuno il suo. La ricezione di "The Complete Works of Primo Levi" nel mondo anglofono. Un articolo di Franco Baldasso

La pubblicazione nel 2015 di The Complete Works of Primo Levi negli Stati Uniti, nell’edizione Liveright curata da Ann Goldstein, è stato un vero evento editoriale: Levi è infatti il primo scrittore italiano le cui opere complete siano state integralmente tradotte in inglese. L'articolo di Franco Baldasso che segnaliamo cerca di comprendere il vero impatto di questa pubblicazione a un paio d'anni di distanza, contestualizzandola nel mercato editoriale prima di tutto americano, ma con ampi riferimenti ad altri settori anglofoni, dall'Inghilterra all'Australia (e proprio di recente, fra l'altro, in un post si è parlato dell'inglese come di una lingua di un'editoria allargata). Qual è il successo e la reale presenza di Levi nella cultura anglofona odierna al di là dell’accoglienza positiva riservata alla sua figura nella stampa periodica specializzata? The Complete Works ha rappresentato una svolta nella riflessione su Levi? E poi, questa pubblicazione ha approfondito o precipitato – sia in positivo che in negativo – trend precedenti?

Il saggio di Franco Baldasso è tratto da uno speciale ad hoc curato da Anna Baldini e proposto nel numero 75 della rivista Allegoria. In questo sono presenti anche interviste a Ann Goldstein e a Domenico Scarpa.


Qui si può scaricare l'intero articolo.


domenica 19 novembre 2017

Curzio Malaparte e la comprensione tragica della storia: un'analisi di "Kaputt" e "La pelle" di Franco Baldasso

 

Come noto lo scorso luglio si è ricordato il sessantennale della morte di Curzio Malaparte. Tornano a circolare le sue opere, altre rimangono ancora lontane dai circuiti dei libri in commercio. Di seguito trovate un rinvio a un contributo di Franco Baldasso che analizza i romanzi Kaputt (1944) e La pelle (1949), opere tra le più note e importanti di Curzio Malaparte e entrambe rilevanti nello studio del processo di transizione dal Fascismo alla democrazia, ambito di interesse primario di Baldasso negli ultimi anni. In questo studio appare lampante il rifiuto di Malaparte di avallare visioni di sacrificio collettivo e riscatto nazionale, vale a dire quanto era più in voga dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dal mito resistenziale del “Nuovo Risorgimento” alle interpretazioni storiciste del Fascismo quale malattia inserita in un corpo nazionale altrimenti sano. Sulla scia della teoria biopolitica, lo scritto si sofferma sulla valutazione critica che lo scrittore toscano mise in opera circa il tragico contrasto tra la tecnologia moderna e la fragilità dell'uomo sentito come "creatura". Nonostante non sciolga mai il nodo cruciale del suo stretto rapporto con il Fascismo, Malaparte ci mostra tale irrisolvibile conflitto dal punto di vista dei tanti capri espiatori della sua narrativa, quasi nuove figure che rimandano alla passione di Cristo. Dispiegate da una prospettiva radicalmente secolare, le immagini della violenza e della tragedia del Novecento e dei totalitarismi si oppongono a qualsiasi idea di progresso storico o a qualsiasi soluzione dialettica superiore.  

Qui si legge l'intero articolo.

giovedì 5 ottobre 2017

New York come archivio della rimozione. "Vita" di Melania Mazzucco e l'epopea dell'emigrazione italiana. Uno scritto di Franco Baldasso

Di seguito si può leggere un passo di uno scritto di Franco Baldasso pubblicato in "Scritture migranti" 3 (2009). L'oggetto del contributo è il romanzo Vita di Melania Gaia Mazzucco, uscito nel 2003 per Rizzoli e ora in catalogo Einaudi, come molte altre opere dell'autrice. Rinvio alla fine del post per la lettura completa dell'articolo.


Melania Gaia Mazzucco
Pubblicato nel 2003 e subito accolto con favore da pubblico e critica vincendo fra l’altro il prestigioso Premio Strega, il romanzo Vita di Melania Mazzucco, è probabilmente il più interessante dei tentativi di integrare la memoria dell’emigrazione come parte costitutiva della narrazione della storia nazionale italiana. Il romanzo è infatti uscito proprio nel momento di più forte crisi dell’identità nazionale dovuta all’aprirsi di una vera e propria immigrazione di massa in Italia. Ma aldilà dell’attualità politica, Vita recupera la memoria dell’emigrazione italiana coniugando nella propria narrazione storia (trans)nazionale e memoria privata, attraverso «l’unica istituzione nazionale che gli italiani riconoscano»: la famiglia, come la stessa autrice rivela in un’intervista. 

Il risultato, come in svariate costruzioni artistiche contemporanee, è il tentativo di realizzare un contro-archivio e un contro-monumento in grado di sfidare la memoria cristallizzata, in questo caso dell’emigrazione italiana, e arrivare ad una conoscenza alternativa. Una conoscenza capace di integrare la memoria dell’emigrazione nella nostra narrazione storica, allargandola nel confronto con l’archivio transnazionale per eccellenza, quello costituito dalla città di New York, teatro e contro-epica dell'emigrazione italiana. [Per leggere l'intero scritto su academia.edu clicca qui oppure scarica direttamente il file da questo link]



martedì 18 aprile 2017

Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica. Intervista a Mariuccia Salvati

Librobreve intervista #79


Si intitola Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica ed è edito da Carocci (pp. 212, euro 19) l'ultimo libro di Mariuccia Salvati, docente di Storia contemporeanea all'università di Bologna. In collaborazione con Franco Baldasso, che insegna Italian Studies presso Bard College a New York, ho rivolto alcune domande all'autrice. Ci siamo soffermati sul percorso che l'ha portata a questa nuova opera e l'intervista è diventata un momento nel quale ricordare figure di primo piano della ricerca storica. Quasi involontariamente il tutto si è trasformato in un omaggio a Silvio Lanaro, storico dell'Università di Padova scomparso nel giugno del 2013, che desideriamo così ricordare. 

Cogliamo l'occasione per segnalare che giovedì 20 aprile alle ore 17:00 presso la Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica (Piazza della Enciclopedia Italiana, 4 - Roma) si terrà la presentazione del volume. Ne discuteranno con l’autrice Giuliano Amato, Marc Lazar e Renato Moro.

Silvio Lanaro
AC:. Il suo libro pone al centro il problema del linguaggio. Era un tema caro a uno storico come Silvio Lanaro, che dedicò ai problemi epistemologici del linguaggio e della scrittura storica addirittura un libro che è quanto di più lontano possa esserci dall'odierno furoreggiare dello "storytelling" (Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Marsilio, 2004). Come muta questo tema fondante del linguaggio nel suo libro, nei diversi decenni che prende in esame?
MS: Lei ha colto giustamente il legame del mio libro con Silvio Lanaro, che con il suo Retorica e politica (2011, pubblicato due anni prima della morte), è stato molto vicino ai miei pensieri mentre riflettevo sulla opportunità di procedere a una operazione come la raccolta di saggi sparsi. Con Lanaro siamo stati molto amici a partire dalla fine degli anni ’80; abbiamo collaborato insieme nella costruzione di reti come la Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), nella selezione di giovani allievi (concorsi), in numerosi convegni. Vi è sempre stata una sintonia di fondo: direi la voglia di chiarezza, di intelligenza delle cose, oltre allo scarso interesse per l’uso politico della storia contemporanea. Vi era poi tra di noi (oltre alla profonda amicizia…) uno strano legame ‘culturale’ antecedente alla nostra collaborazione universitaria: entrambi abbiamo letto per tempo gli scritti di un intellettuale protagonista del ventennio fascista (e poi della sociologia del dopoguerra), come Camillo Pellizzi (citato in Passaggi): soprattutto gli scritti degli anni ’20, quando l’uso della retorica politica era rivendicato sulla stampa (in polemica con Gobetti) dal giovane intellettuale in funzione del fascismo. Il fascismo è stato prima di tutto (di questo era convinto anche Silvio) un linguaggio pubblico, un linguaggio retorico, cioè funzionale a una soggezione mentale delle masse e a una visione distorta della realtà: ce ne rendiamo conto ancora di più oggi.
Quanto alla sua domanda (se il tema del linguaggio muti nel libro): in realtà mi sono resa conto (ex post) che quel tema non muta e per questo il libro è un libro coerente. Il linguaggio rimane per lo storico lo strumento attraverso cui cogliere i cambiamenti: il linguaggio - dei testimoni, del corpo (la maschera), della folla, del leader – è prova, è testimonianza, ma può essere letto se lo si inserisce in un percorso di eventi che aiuti a coglierne il senso profondo. 

Marc Bloch
AC: Si percepisce nella sua prosa la necessità di un ritorno a un "fattore umano" nel mestiere di storico. Il richiamo a Marc Bloch è evidente, tuttavia potrebbe chiarire cosa significa davvero riportare il "fattore umano" dentro la ricerca storica? Da un punto di vista epistemologico e di metodo è qualcosa che può essere più facile a dirsi che a farsi...
MS: Lei ha colto benissimo quest’altro punto di sintonia con Silvio Lanaro. Per anni ho insegnato a Bologna Storia della Francia (nei primi anni del corso di laurea in storia si insegnava la storia dei singoli paesi europei, poi si passò a insegnare la storia d’Europa) e dunque la Francia tra le due guerre, il movimento operaio e figure come Marc Bloch e Simone Weil. Così Apologia della storia, La strana disfatta, La prima radice, erano testi di lettura quasi obbligatori per trasmettere il dramma degli anni Trenta e la permanenza di una cultura che non era solo antifascista, ma umanista e razionalista. Era un modo per contrapporre intellettualmente (e non ideologicamente) il filone della Dichiarazione dell’89 alla cultura dello stato fascista. Entrambi gli autori sono poi presenti – sempre per il loro richiamo all’uomo - nel capitolo su Amnistia e amnesia, cioè sulla guerra e sul come uscirne.

FB: Perché secondo lei questo periodo di transizione è stato oggetto di moltissimi studi storiografici negli ultimi 10-15 anni? Da Zunino a Liucci, da Focardi a Bistarelli, da Lanaro a La Rovere, da Luzzatto a Schwartz per citarne solo qualcuno.
MS: In realtà, come lei sa bene, questo periodo è stato oggetto di studi storici fin dall’immediato dopoguerra, ma con un focus diverso nei vari periodi: la resistenza, la RSI, la guerra civile (il libro di Claudio Pavone è un libro di storia di una guerra civile non solo tra corpi ma anche tra menti, spiriti, giudizi): ma è pur sempre una transizione, un passaggio. Quello che lei giustamente segnala per i decenni più vicini a noi è l’attenzione agli intellettuali, testimoni e protagonisti di quella transizione e per questo chiave di lettura della transizione. Credo che un ruolo importante come ‘segnalatori di incendio’ l’abbiano svolto i convegni organizzati per i decennali della resistenza) dagli istituti di cultura come la Fondazione Basso, il Gramsci, lo Sturzo (oltre che dagli istituti della resistenza), soprattutto negli anni ’90: è allora che viene meno, con la crisi dei partiti, anche la fiducia nella affermazione di una cultura diffusa e progressista. Mentre volgeva al termine il Novecento, si era davanti a un nuovo passaggio di cui non si conosceva (e non si conosce ancora...) l’esito. Per questo si tornò a riflettere su quegli anni interrogandosi se, quando e come il fascismo fosse stato mentalmente, ‘intellettualmente’ sconfitto.

FB. Secondo lei ci sono figure di quegli anni oggi ingiustamente dimenticate? Perché?
MS: Certamente molte altre figure, soprattutto di scrittori, meritano di essere ricordate, ma mi sembra che i nomi che cito siano già di per sé evocativi di altri che non cito, ma che si inseriscono in questo recupero. Consiglio a questo proposito una bella antologia di brani, Autoritratto italiano di Alfonso Berardinelli.

Ruggero Zangrandi
FB. Lei dedica un capitolo a una figura oggi poco ricordata ma la cui testimonianza ebbe un enorme impatto per la generazione del secondo dopoguerra, Ruggero Zangrandi. Ci può introdurre alla sua figura e dire perché a suo avviso è importante ancora oggi?
MS: Non so se sia importante ancora oggi. È certamente stato dimenticato, osteggiato, probabilmente frainteso. Ed è per questo che lo ritengo un po’ il simbolo di un passaggio non completamente compiuto (o forse impossibile da compiere) nell’immediato dopoguerra dal nostro paese. Zangrandi ha pagato duramente il suo essere stato da ragazzo il compagno di banco del figlio di Mussolini. Creò alla fine degli anni ’30 un gruppetto socialista di opposizione, fu incarcerato a Regina Coeli, ma nell’estate del ‘43, a differenza di altri prigionieri politici, non venne liberato e quindi fu portato dai tedeschi occupanti in Germania. Tornò due anni dopo, segnato per sempre da quella prigionia, si iscrisse al Pci, ma non incontrò, salvo pochi casi, veri amici in quel partito. Solo Togliatti lo difese, perché in fondo condivideva la battaglia che Zangrandi stava conducendo: cioè (oltre a testimoniare Il lungo viaggio attraverso il fascismo) quella di tentare di raccogliere l’adesione al Pci anche dei giovani che erano stati mandati da Mussolini a fare la guerra, senza conoscere nulla del fascismo e tanto meno dell’antifascismo (troppo lontano).

AC: E poi troviamo pagine molto belle su Nicola Chiaromonte. Quale lettura consiglierebbe a chi è non ha letto nulla di Chiaromonte?
MS: Nicola Chiaromonte è stato un grande intellettuale e un grande scrittore. Per questo ho voluto dedicare un suo testo politico-giornalistico inedito a Silvio Lanaro nel libro in suo onore (quello riprodotto in Passaggi). Di lui consiglierei la raccolta di saggi Credere e non credere. Ma si trovano quaderni di suoi scritti e saggi su di lui presso le edizioni Una Città di Forlì. Sempre da parte del gruppo di Una città è stata fondata la biblioteca Alfred Lewin, che ha il grande merito di aver messo in rete, a disposizione di noi lettori, un grande numero di opere e soprattutto riviste, legate a queste correnti intellettuali minoritarie nell’Italia degli anni ’50-‘60.

Giaime Pintor
FB: Una domanda sorta leggendo il libro: come si può fare storia intellettuale del Novecento in Italia in modo tale da aprire una conversazione con la più ampia storia intellettuale europea?
MS: Ma questa storia è già inserita nella storia intellettuale europea! Basta intenderci su che cosa sia la storia intellettuale europea. Pellizzi era un intellettuale europeo, non solo per la sua biografia (ha vissuto a Londra dal 1922 al ’39, insegnato letteratura italiana a University College - facendo allo stesso tempo propaganda fascista), ma anche per i temi che introduceva nel dibattito italiano, collaborava con le migliori riviste di cultura, di teatro. La svolta avvenne, per lui in senso fascista, e per molti altri giovani intellettuali in senso antifascista, circa nel ’38, con le leggi antiebraiche (del resto è a quella data che si avvia anche nel mondo cattolico, a partire dal pontefice, una presa di distanza dal fascismo). Così come lo era – intellettuale europeo -  Giaime Pintor che nell’estate del 43, prima di scegliere la resistenza rivede le note al Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, e corregge la sua traduzione delle poesie di Rilke da appassionato germanista quale era. Credo che siamo stati, come intellettuali, più provinciali noi negli anni ‘70… Detto questo l’Europa tra le due guerre era un luogo terribile per viverci e pensare (basta leggere i Diari di V. Klemperer, e il suo La Lingua del Terzo Reich).

FB. Secondo lei è ancora possibile una qualche religione della politica quali furono a modo loro, e completamente diverso (il che non implica di sicuro un'equivalenza) le grandi ideologie del Novecento come Fascismo e Comunismo?
MS: Temo purtroppo che siano sempre possibili forme di accecamento della ragione, anche se non necessariamente per la politica: compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di segnalarne i pericoli.

FB. Per finire una domanda apparentemente fuori tema, forse, ma che si collega al titolo del suo libro Passaggi: cosa pensa di Donald Trump? E di Angela Merkel?
MS: Ha ragione: il primo segna un vero passaggio su cui dovranno interrogarsi soprattutto (spero) gli storici americani del futuro, la seconda è storia nostra, europea, quella migliore, intendo e che spero sia destinata a durare (sono una convinta europeista).  

venerdì 23 ottobre 2015

Poesie inedite di Franco Baldasso



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Tre poesie inedite e un'autotraduzione di Franco Baldasso (Treviso, 1978)

*  

Ti brillava la pioggia
tra le guance. E ben poco
riuscivo ad opporre
se con me non volevi guardare
su tra le nuvole, tra i limoni e i mandarini.
Ma se questo l’ho lasciato
a metà, al caffè dove vado
a lamentarmi, tutto fradicio,
dove tu venire non vuoi,
mi ricredo poi, quando torno
a casa, e con giusto le tue mani
con forbice e carta
hai messo insieme
un ombrello tanto grande
dove tutte le tempeste
sono cesto e frutta.


- -

Rain—was shining
in your cheeks.
And oh, I had nothing
to put forward, if you did not
want to stare up at the clouds
with me, among tangerines
and lemons. I left this unfinished,
At the coffee shop where, alone
And deeply soaked, I always go to complain
that you don’t want to come along.
But as I return home all the concerns
are gone, where with scissors and silk
and the savvy of your hands
you put together such a wide
umbrella, in which all the storms
are nest and fruit.


*

Épater la bourgeoisie


Partono via la sera le vecchie bolle di sapone,
e tra nuvole di cenere è tutto un soffiare su certe braci
che ancora sul caminetto bruciano. Ma non è bastata
una bugia bianca a spegnere queste fiamme
che s’involano senza mai fine e finiscono poi
— come Rina — per schernirsi senza approvarsi.
Proprio lei — la cara Rina — così educata
da grande-dame della Cacania, nata sopra petali
lasciati troppo a lungo al sole, sugli scalini decrepiti di Fiume.
E’ lei che mi ha insegnato la nevrosi, tra ajvar e cevapcici
E quali forchette a tavola e l’etichetta a Bologna.
E con quale mano chiudere i cassetti, e come strizzare
il dentifricio dal verso giusto, da sotto in su. E io
ci provo ancora, dopo anni, ad allenarmi, fare
palestra di queste buone e non innocenti abitudini.
A farmi i muscoli.
E tra le nubi della sera dimentico il resto.
 

*

Il rancore dei vecchi


Sono entrato anche stasera nella sala vuota
del cinema, insieme al velluto rosso
delle poltrone che aspettano la proiezione.
Erano rimasti Daniele e le vecchie tiraossi
ambasciatrici smagate dei circoli italiani,
a cercare quale nostalgia barattare la sera.
Cos’era poi quella luce arancione stasera
che il cinema sembra sempre ricordare meglio
di me, che ho la memoria corta,
e sento sempre tanto freddo nella sala vuota.
Quella luce, tra i rami la sera remota
che la vecchia sala del cinema serba ancora.

giovedì 23 ottobre 2014

"La forma della coscienza". Il male oscuro di Giuseppe Berto nello studio di Paola Dottore

È uno studio di matrice segnatamente linguistica quello che ci offre Paola Dottore su Giuseppe Berto. La forma della coscienza. Il male oscuro di Giuseppe Berto (pp. 224, Biblioteca dei leoni - LCE Edizioni, euro 16) s'addentra infatti nelle forme e nelle scelte più rincantucciate della pagina del grande scrittore di Mogliano Veneto. Il saggio si concentra sull'opera più nota, Il male oscuro, che vide la sua prima pubblicazione esattamente cinquant'anni fa, nel 1964. Libro a suo modo epocale (basti pensare al successo dell'espressione richiamata nel suo titolo e al film di Monicelli) e capace di vincere nel giro di una manciata di giorni due dei maggiori riconoscimenti letterari del nostro paese, ovvero il Campiello e il Viareggio, Il male oscuro è qui nominato per mezzo di una ricognizione puntigliosa delle tracce rimaste tra le righe: sezione bianca, capoverso, punto fermo, altri punti e anche le virgole diventano i protagonisti dell'analisi che via via diventa analisi sintattica e anche lessicale (linguaggio biblico, latino, regionalismi e dialettismi, tecnicismi, neologismi, lessico dell'insulto ecc.). Insomma, non solo della punteggiatura, per forza carente, mancante e latitante in questo libro troppo frettolosamente passato ad essere facile esempio nostrano dello stream of consciousness, ma di altri aspetti linguistici, assai tecnici e per addetti ai lavori, troverete un'ampia casistica in questo saggio. Il problema è che parlando di aspetti "tecnici" si rischia sempre di allontanare un pubblico potenziale da un simile libro e invece questi aspetti potrebbero diventare fulcro di discussioni appassionanti, come appassionante potrebbe diventare pure un'analisi metrica davvero creativa in poesia: si corre insomma il bel rischio di parlare di qualcosa di reale e non del nulla, dell'aria vera che regge e legge un testo e non dell'aria fritta.

Il libro della studiosa messinese, operante ora nella provincia trevigiana, fa pensare alla grande mole di studi simili che non sempre trovano una collocazione editoriale adeguata e spinge ad aprire una parentesi. Credo ci sia un discreto spreco di tesi ben fatte e interessanti che potrebbero diventare dei libri. Molto spesso "pubblicare la tesi" diventa il sogno risibile di molti e non è certo questo aspetto che ci interessa ora visto che stiamo parlando di uno studio meritevole di attenzione. Mi riferisco piuttosto al fatto che, setacciate e riviste con gli attenti filtri di una collana ben impostata, e magari potenziate sul versante dell'audacia e del coraggio interpretativo (spesso tallone d'Achille degli studi di provenienza universitaria, per ovvi motivi di prudenza) alcune tesi di laurea e soprattutto di dottorato, non solo a sfondo letterario, potrebbero davvero ambire a una pubblicazione. Naturalmente questo talvolta ancora accade. Ma la questione così tratteggiata diventa squisitamente una faccenda di opportunità editoriali e riguarda la saggistica in modo assai stretto. Il problema è che dei libri ben fatti e ben progettati interessa sempre meno a tutti, editori in primis, e il rischio è che si continui a stampare una tesi di laurea senza troppe revisioni solo perché ci sono dei fondi a disposizione o per altre quisquilie e fregnacce. Pochissime sono le cooperative librarie/universitarie che ad esempio hanno saputo trasformare almeno una costola in editoria e collane vere e proprie. Ma è anche vero che molti ciarlatani del sistema editoriale iniziano anche ad avere le ore contate.

Torniamo al nostro scrittore e allo studio di Paola Dottore. Berto era nato nel 1914. Gli anniversari della nascita non dovrebbero muovere chissà cosa visto che quando nasciamo nasciamo più o meno tutti allo stesso modo, con un vagito se va bene e non abbiamo ancora scritto-composto-dipinto un bel niente. Ma se questi anniversari servono a riportare attenzione su un autore che ancora ci parla, ben vengano anche queste ricorrenze allora e questi studi. Per quanto mi riguarda ci auguro di leggere presto lo studio di un amico che su Giuseppe Berto si è a lungo soffermato: mi riferisco al lavoro di cui Franco Baldasso ci ha anticipato qualcosa in questa intervista.