venerdì 31 ottobre 2014

"Di roccia e di ghiaccio. Storia dell'alpinismo in 12 gradi". Intervista con Enrico Camanni

Librobreve intervista #48

Ho conosciuto la rivista "Alp" durante voli lunghi fatti assieme a un collega. All'edicola dell'aeroporto Marco Polo lui la comprava ogni volta, assieme a un'altra rivista di caccia, "Diana". Passati gli Urali, visto che si andava quasi sempre a est, solitamente eravamo anche stanchi di chiacchierare e allora se non avevo voglia di un libro gli prendevo queste sue riviste, soprattutto "Alp", prima di dormicchiare. Questo il mio rapporto con "Alp", quasi sempre in quota. Si tratta sicuramente di una delle più belle riviste dedicate alla montagna nel gran bazar spesso poco convincente di riviste sul tema. La fondò nel 1985 Enrico Camanni, che ora ho il piacere di intervistare su Librobreve. Per molti anni ne fu anche il direttore. Tra i suoi libri, solo per rimanere al 2014, potrete trovare in libreria nella collana "Economica" di Laterza Di roccia e di ghiaccio. Storia dell'alpinismo in 12 gradi, sempre per lo stesso editore Il fuoco e il gelo. La grande guerra sulle montagne e per Ediciclo Il viaggio verticale. Breviario di uno scalatore tra terra e cielo. 

LB: Come nasce questa storia dell'alpinismo, Di roccia e di ghiaccio. Storia dell'alpinismo in 12 gradi pubblicato da Laterza (ora disponibile anche in collana "Economica") e in che cosa ha voluto differenziarla da altri libri simili?
R: Il libro nasce su una proposta dell'editore Laterza, che giustamente riteneva esistesse un vuoto nella divulgazione della storia dell'alpinismo. Il libro è rivolto a tutti e ha sortito il suo effetto: molti si sono appassionati di una storia che conoscevano poco e male.


LB: Quali sono le maggiori difficoltà di ricerca incontrate da chi si occupa di storia dell'alpinismo oggi?
R: La storia è in storia è in buona parte studiata fino alla fine del secolo scorso, quando la frantumazione rende quasi impossibile una ricostruzione organica. Il mio libro procede per gradi, dunque per personaggi e racconti. La difficoltà è stata quella di individuare dei momenti che siano stati veramente decisivi per l'evoluzione, in oltre due secoli di alpinismo.


LB: Come sta cambiando l'alpinismo? Voglio dire che il mondo cambia a velocità stratosferiche e l'alpinismo non sembra essere da meno. E c'è qualche aspetto che (la) preoccupa nelle evoluzioni contemporanee dell'alpinismo? Se sì, quale?
R: Cambia tutto in fretta, è vero. Il livello medio dei campioni è salito progressivamente, e alla fine ognuno tende a specializzarsi nella disciplina in cui eccelle. Ma ci sono anche interessanti correlazioni tra l'arrampicata sportiva e l'alpinismo, con un ulteriore innalzamento del grado. Inoltre conta molto il fattore velocità, che è una dimensione naturale per chi si allena tutto l'anno.

LB: Siamo in aria (spesso fritta) di centenario della Grande Guerra. Tanta parte dell'alpinismo conosce sviluppi significativi anche in quegli anni. Quali aspetti restano ancora da approfondire secondo lei con riferimento a quegli anni? Personalmente ho sempre trovato curioso che sia stato Mark Thompson con il suo The White War: Life and Death on the Italian Front 1915-1919 tradotto da Il Saggiatore lo storico di riferimento per la guerra in montagna. Voglio dire che l'Italia è stata teatro di uno sviluppo unico di quella guerra e sembra che non se ne sia ancora accorta.
R: Ho appena pubblicato con Laterza un libro che si occupa proprio organicamente della Guerra bianca, legando insieme gli ambienti e le storie documentate dai diari e dalle lettere dei combattenti. S'intitola Il fuoco e il gelo.

LB: Lasciando stare Daumal e il suo Il monte analogo, ci sono altri autori che vorrebbe consigliare ai lettori?
R: Direi di cominciare dai grandi classici inglesi: Whymper e Mummery.

LB: Le scrivo da Treviso, città di Giuseppe Mazzotti: quale suo libro ci consiglia?
R: Ho appena riletto il suo libro Grandi imprese sul Cervino. Resta un racconto avvincente.

lunedì 27 ottobre 2014

Poesie inedite di Yari Bernasconi


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Due poesie inedite di Yari Bernasconi (Lugano, 1982)

Conosci il mare


Conosci il mare e il sale che corrode,
che scava nelle piccole esistenze.
Ne avrai bisogno un giorno, se tornerai
dove sei nata: ritroverai le cose
indistinte in una voce, come non fossi
mai partita. I laghi saranno cancellati
dalle vie lastricate e la salsedine.
Avrai gli occhi ancora più aperti.

Anch’io, senza saperlo, sono figlio
di questa terra. Me ne accorgo dall’autostrada,
quando intravvedo la distesa d’acqua
nei pressi del Turchino, superando il Piemonte,
e sento un nodo passeggero che è nostalgia,
ma di seconda mano.


Warschauer Strasse


Il treno è arrivato in orario. Salire
le scale umide di fango, tra la folla,
significa anche vederti. Superare
l’Imbiss sulla destra; scorgere in fondo,
oltre il ponte, l’antenna; scendere
per la strada; svoltare davanti a un gruppo
di ubriachi che cantano e festeggiano
qualcuno. Ecco, significa questo,
senza tornare né arrivare:
essere a casa, qui con te, sentirlo
da una lingua straniera.

giovedì 23 ottobre 2014

"La forma della coscienza". Il male oscuro di Giuseppe Berto nello studio di Paola Dottore

È uno studio di matrice segnatamente linguistica quello che ci offre Paola Dottore su Giuseppe Berto. La forma della coscienza. Il male oscuro di Giuseppe Berto (pp. 224, Biblioteca dei leoni - LCE Edizioni, euro 16) s'addentra infatti nelle forme e nelle scelte più rincantucciate della pagina del grande scrittore di Mogliano Veneto. Il saggio si concentra sull'opera più nota, Il male oscuro, che vide la sua prima pubblicazione esattamente cinquant'anni fa, nel 1964. Libro a suo modo epocale (basti pensare al successo dell'espressione richiamata nel suo titolo e al film di Monicelli) e capace di vincere nel giro di una manciata di giorni due dei maggiori riconoscimenti letterari del nostro paese, ovvero il Campiello e il Viareggio, Il male oscuro è qui nominato per mezzo di una ricognizione puntigliosa delle tracce rimaste tra le righe: sezione bianca, capoverso, punto fermo, altri punti e anche le virgole diventano i protagonisti dell'analisi che via via diventa analisi sintattica e anche lessicale (linguaggio biblico, latino, regionalismi e dialettismi, tecnicismi, neologismi, lessico dell'insulto ecc.). Insomma, non solo della punteggiatura, per forza carente, mancante e latitante in questo libro troppo frettolosamente passato ad essere facile esempio nostrano dello stream of consciousness, ma di altri aspetti linguistici, assai tecnici e per addetti ai lavori, troverete un'ampia casistica in questo saggio. Il problema è che parlando di aspetti "tecnici" si rischia sempre di allontanare un pubblico potenziale da un simile libro e invece questi aspetti potrebbero diventare fulcro di discussioni appassionanti, come appassionante potrebbe diventare pure un'analisi metrica davvero creativa in poesia: si corre insomma il bel rischio di parlare di qualcosa di reale e non del nulla, dell'aria vera che regge e legge un testo e non dell'aria fritta.

Il libro della studiosa messinese, operante ora nella provincia trevigiana, fa pensare alla grande mole di studi simili che non sempre trovano una collocazione editoriale adeguata e spinge ad aprire una parentesi. Credo ci sia un discreto spreco di tesi ben fatte e interessanti che potrebbero diventare dei libri. Molto spesso "pubblicare la tesi" diventa il sogno risibile di molti e non è certo questo aspetto che ci interessa ora visto che stiamo parlando di uno studio meritevole di attenzione. Mi riferisco piuttosto al fatto che, setacciate e riviste con gli attenti filtri di una collana ben impostata, e magari potenziate sul versante dell'audacia e del coraggio interpretativo (spesso tallone d'Achille degli studi di provenienza universitaria, per ovvi motivi di prudenza) alcune tesi di laurea e soprattutto di dottorato, non solo a sfondo letterario, potrebbero davvero ambire a una pubblicazione. Naturalmente questo talvolta ancora accade. Ma la questione così tratteggiata diventa squisitamente una faccenda di opportunità editoriali e riguarda la saggistica in modo assai stretto. Il problema è che dei libri ben fatti e ben progettati interessa sempre meno a tutti, editori in primis, e il rischio è che si continui a stampare una tesi di laurea senza troppe revisioni solo perché ci sono dei fondi a disposizione o per altre quisquilie e fregnacce. Pochissime sono le cooperative librarie/universitarie che ad esempio hanno saputo trasformare almeno una costola in editoria e collane vere e proprie. Ma è anche vero che molti ciarlatani del sistema editoriale iniziano anche ad avere le ore contate.

Torniamo al nostro scrittore e allo studio di Paola Dottore. Berto era nato nel 1914. Gli anniversari della nascita non dovrebbero muovere chissà cosa visto che quando nasciamo nasciamo più o meno tutti allo stesso modo, con un vagito se va bene e non abbiamo ancora scritto-composto-dipinto un bel niente. Ma se questi anniversari servono a riportare attenzione su un autore che ancora ci parla, ben vengano anche queste ricorrenze allora e questi studi. Per quanto mi riguarda ci auguro di leggere presto lo studio di un amico che su Giuseppe Berto si è a lungo soffermato: mi riferisco al lavoro di cui Franco Baldasso ci ha anticipato qualcosa in questa intervista.

martedì 21 ottobre 2014

"L'offensiva scritta col lapis" di Arrigo Cajumi

Leggere una grande guerra #9

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges). 

Nelle librerie che hanno uno scaffale dedicato alla Prima guerra mondiale già da mesi si nota una calca di libri, novità, ristampe. La casa editrice il Mulino, ad esempio, ha colto l'occasione per riprendere in mano e rispolverare, senza aggiungere molto di nuovo, i propri cavalli di battaglia (anche se in questo caso l'espressione "cavalli di battaglia" potrebbe sembrare fuori luogo), studi epocali come Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale di Eric J. Leed, La grande guerra e la memoria moderna di Paul Fussell, i vari libri di Mario Isnenghi o Caporetto di Angelo Gatti, mentre Bollati Boringhieri ha pensato di rendere nuovamente fruibile Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918 di Leo Spitzer. Non è facile provare a dire con una nuova pubblicazione qualcosa di diverso nel suddetto panorama e non è nemmeno facile scegliere tra testi che si potrebbero pubblicare per la prima volta o ripubblicare dopo anni, se un editore non ha già dalla sua un catalogo storico che a quella guerra ha dedicato attenzione costante nel tempo. La condizione in cui versa da tempo il corso di laurea in storia è poi cosa nota. Tanta voglia di tradurre saggi stranieri passati inosservati non ce n'è e allora piuttosto si cerca (o si attende) la traduzione di quel saggio che "ha venduto bene in Francia", o di quell'altro che "venducchiato in Gran Bretagna" o di un altro ancora che ha "fatto scalpore in Germania". In fondo la fiera di Francoforte si è appena conclusa. E chissà magari quali libri ci perdiamo tra quelli che pubblicano nei Balcani sull'argomento... Mi è sembrata comunque buona l'iniziativa de La Vita Felice che in questo panorama un po' scansafatiche, fatto di schizofrenia e forse di poco coraggio editoriale, ha rimesso in circolo questo breve testo di Arrigo Cajumi. Si tratta di pochi fogli protocollo scritti di getto, ripresi in scansione alla fine del volume, ritrovati nella Biblioteca comunale di Milano tra le carte dell'autore. Il libro si intitola L'offensiva scritta col lapis (pp. 76, euro 9) e uscì per la prima volta nel 1994. Siamo alle ultime battute della guerra, tra il 22 ottobre e l'armistizio. Cajumi è un sottotenente, un "ragazzo del '99", visto che è nato a Torino proprio il 22 ottobre di 19 anni prima. Possiamo leggere questa manciata di pagine almeno in due modi: come testimonianza vivace e interrotta di quei giorni dell'offensiva finale e come testimonianza di alcuni giorni di gioventù di uno dei più interessanti e misconosciuti intellettuali italiani della prima metà del secolo scorso. (Per me inoltre è stato un modo inaspettato per ripassare i miei transiti quotidiani: Postioma, Padernello, Istrana, Cusignana, Povegliano, Arcade sono solo alcuni dei toponimi a me assai noti nominati ripetutamente dal giovanissimo Arrigo Cajumi.)

lunedì 20 ottobre 2014

Poesie inedite di Michela Monferrini


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Due poesie inedite di Michela Monferrini (Roma, 1986)


Non il nuotatore, ma l’uomo
sta nel tuffo di partenza.
Là si richiede precisione e forza,
concentrazione e scatto,
tutto un dramma d’ossa
e muscoli in tensione
che aspirano all’impatto.
Il fotografo allineato ci fermava al volo
d’un hula hop spezzato,
ma se le altre già rispondevano al fischio
come cani,

io, ancorata al blocco,
mi sottraevo al gioco sincronizzato.
La mia non essendo partenza, ma pazienza.


Cresciuti ad ordini del cloro e trasparenza,
combattevamo la noia parlando di noi alle piastrelle sul fondo
e ancora oggi, prestati all’estate di acque poco chiare,
sconfiggiamo la diffidenza nuotando da fantasisti,
dando gli occhi in pasto al sale:
molti dicono d’aver visto scale
scendere dal mare fino ad Atlantide.


sabato 18 ottobre 2014

Salvateli dalle rievocazioni storiche (della Grande Guerra e non solo)

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #4

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Mi auguro avvenga presto qualcosa, di certo non una disgrazia, ma magari che qualcuno più in vista prenda la parola e punti il dito con severità, insomma che avvenga qualcosa che faccia aprire gli occhi davanti al grande escremento concettuale, etico ed epistemologico rappresentato dalle "rievocazioni storiche". L'altro giorno avevo davanti un quotidiano autorevole che riportava l'ennesimo programma dedicato alle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra e leggevo nientepopodimeno dell'esistenza di un comitato per le rievocazioni storiche. Non ci volevo credere. Spero ci rendiamo presto conto che siamo oltre la decenza, prossimi allo schifo. Per iniziare prendiamo soltanto la stoltezza dell'espressione "rievocazione storica": la storia non si può certo rievocare e poi, ammettendo anche che sia rievocabile, che ce ne facciamo della rievocazione così come è pensata oggi, ovvero all'incirca come una sagra paesana più o meno sofisticata? Viaggiamo nel tempo? Impariamo? Capiamo? Per favore. Questo è soltanto un punto. Inoltre non possiamo credere di comprendere a partire da un manipolo di mascheranti che giocano a sfilare o a far la guerra, mondiale o napoleonica che sia. Queste rievocazioni rappresentano chiaramente l'insinuarsi di un germe di rincoglionimento acuto nei programmi dedicati al centenario e c'era da aspettarselo. Lo stesso cinema, che in fondo presenta mezzi ben più potenti e raffinati di quelli messi in opera da questi raffazzonati comitati di rievocazioni, non è riuscito a fare un buon lavoro a partire dal grande romanzo di Lussu, pur essendo Uomini contro un buon film e Francesco Rosi il regista che tutti sappiamo. Molto meglio una poesia di Rebora come storiografia o il diario di Don Giovanni Minzoni.

Racconterò un aneddoto, perché credo aggiunga qualcosa su queste rievocazioni, sul loro essere nocive a tutti i livelli. Nel mio aneddoto siamo ad un livello locale, ma temo che passando al livello nazionale le cose possano solo peggiorare. In occasione del novantesimo anniversario della fine della Prima guerra mondiale, in un lembo di greto del Piave vicino a dove abito, si tenne una di queste rievocazioni storiche, organizzata molto selvaggiamente ma con una quasi commovente profusione d'impegno, con tanto di scoppio di mine, di certo non potenti come quelle impiegate all'epoca (ma pur sempre esplosivo), finte trincee, fumi, soldati ovviamente in divisa, urla durante il finto assalto. Ero di passaggio e mi fermai a osservare. Allo scoppio di una di queste piccole mine posta in una pozza d'acqua (in modo da fare scenograficamente più schizzi) un sasso bagnato di medie dimensioni ma sufficiente a far male e forse a uccidere qualcuno è schizzato e si è schiantato sullo schienale di un passeggino dove fortunatamente non era seduto alcun bambino. Tutti quelli attorno al passeggino si guardarono sugli occhi un po' sgomenti, compresi i genitori del bambino utilizzatore del passeggino che stava in braccio loro; poi tutti ripresero comunque a guardare più o meno divertiti l'assalto alla trincea nemica. Si sa che le disgrazie possono accadere continuamente. Ma fosse successa una disgrazia in quel caso che cosa sarebbe successo? L'opinione pubblica avrebbe giustificato tutto come si fa con le tragedie che avvengono nei campi degli scout che costruiscono le loro palafitte per la notte su un torrente, corso d'acqua notoriamente soggetto a piene improvvise e con una forte pendenza dell'alveo? Nel grande fiume di libri che ricordano questo anniversario della guerra che ha cambiato per sempre la faccia al mondo, qualcuno scriva un libretto agile e tagliente sulla pioggia escrementizia di tutte le rievocazioni storiche, lo si dica alla televisione, alla radio, dappertutto. Non se ne può più. Nessuno provi a dire che servono a qualcosa: le rievocazioni storiche, così come sono organizzate oggi, sono sovente un precipitato della stupidità umana.

giovedì 16 ottobre 2014

da "Elegie romane" di Iosif Brodskij

Una poesia da #45

Iosif Brodskij (1940 - 1996)
Senza scomodare il Grand Tour oppure D'Annunzio, Goethe e Sesto Properzio che scrissero a loro volta elegie sulla nostra città eterna e senza rivangare altre faccende e collegamenti più o meno gratificanti intellettualmente, si potrebbe provare a notare, di tanto in tanto, quante e quali poesie gli scrittori abbiano dedicato al nostro paese, ai suoi paesaggi, alle sue città e a Roma in particolar modo e come la geografia della nostra penisola sia cespite di quella che chiamiamo "ispirazione", termine sempre ispido in poesia e per questo posto tra virgolette. Questo avviene anche nelle Elegie romane di Brodskij che trovate all'interno del volume Adelphi intitolato semplicemente Poesie (a cura di Giovanni Buttafava, pp. 223, euro 18). Ho scelto per oggi la numero XII. Non penso di aver bisogno di spendere molte parole su questo testo e sulla serie delle Rimskie elegii pubblicate per la prima volta a New York nel 1982 e riportanti in esergo una dedica a Benedetta Craveri: resto al testo di oggi, alla sua affilata bellezza, quasi vertiginosamente oltraggiosa nella parte centrale, reclamante soltanto l'attenzione di chi legge.


Chìnati, Ti devo sussurrare all'orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridìo delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c'è mano, e non c'è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frantume! Una dracma
d'oro è rimasta sopra la mia rètina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

mercoledì 15 ottobre 2014

Presentazione di "Come i coralli" di Nicoletta Bidoia al Teatro Capovolto di Carbonera il 24 ottobre

Segnalo questo appuntamento per il prossimo venerdì 24 ottobre alle ore 21 presso il Teatro Capovolto di Carbonera (Treviso). Del libro Come i coralli di Nicoletta Bidoia ho scritto qualcosa qui (la locandina qui sotto è ricavata da un collage dell'autrice).

lunedì 13 ottobre 2014

"Balena" di Roberta Durante

Della poesia di Roberta Durante mi è già capitato di parlare altre due volte. Stavolta mi limito a dare notizia di questo libro appena uscito, Balena (Edizioni Prufrock spa, pp. 46, euro 10), a mostrarne l'innovativo booktrailer in chiusura di post e ad affermare che non avrebbe senso, per un libro che presenta un numero contenuto di testi, pubblicarne online un terzo o addirittura la metà, come fanno alcuni lit-blog, senza porsi troppi problemi nei confronti di chi i libri pensa anche a venderli. E colgo l'occasione per dire che va preservata una considerazione per il lavoro editoriale che passa anche attraverso queste forme d'attenzione: non è possibile che per pubblicare due testi di un libro di Mondadori si debbano fare richieste macchinose, mentre per pubblicare 11 testi di un libro che ne contiene 21 di un cosiddetto "piccolo editore" nessun autore di blog si ponga mai l'interrogativo se quello che sta facendo è un'azione opportuna. Il confronto non regge. Da qualche parte c'è qualcosa che non va. E non sto intraprendendo leziosi discorsi di copyright. Alcuni problemi dell'editoria in Italia inizieranno forse a sciogliersi quando abbandoneremo aggettivi dimensionali davanti alla parola "editore" e torneremo a parlare di chi editore prova a esserlo davvero e chi fa finta di esserlo, scoprendo la differenza tra chi "stampa e distribuisce" libri e chi "fa e progetta" ancora i libri. Certo, la dimensione conta sempre. Ma nell'editoria il problema dimensionale inizia un po' a rompere le scatole e forse la sua centralità è pure ad un punto di non-ritorno, quantomeno di messa in discussione. L'editoria è più un fatto di logistica nel senso più basso e più alto del termine. 

Ma questi discorsi sono una palla. Le poesie di Roberta Durante invece non sono pallose, anzi, ed è bella la palla in copertina con la balena ocra dentro. Se con il primo libro, Girini, si percepiva un orecchio già pronto ad accogliere rivelazioni sonore, se con il recente Club dei visionari si intuivano anche l'occhio e l'iride dell'autrice capaci di credere in quel che non vedevano e di vederlo addirittura meglio, in questa sgusciante nuova prova salutiamo un libro dove il cinematografico montaggio ritorna a essere centrale e ad aggiungersi come nuovo occhio. Vi lascio al booktrailer. Se volete farvi un'idea dei testi, una piccola scelta è apparsa qua

domenica 12 ottobre 2014

"Cavolate sui pomodori". Ancora qualche appunto sulla critica

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #3

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.


- "La critica è morta."
- "Invece no. La critica è ancora viva."
- "Sì! La critica è più-viva-che-mai!"
- "La critica, in realtà, è a-go-niz-zan-te."
- Davvero? Non sapevo.

Basta. Che palle. Non se ne può più di queste formulette riferite alla critica. Se ci fosse più coraggio, meno livore, meno fregola e fretta da parte di certi critici, più o meno giovani, di creare un vuoto attorno a sé, in tutte le direzioni spaziali e temporali, se ci fosse veramente un modo per scegliere e fare critica saremmo tutti più felici e contenti. In questi giorni mi è capitato spesso di pensare alla critica d'arte, sia riferita alla letteratura, alla musica, alle arti figurative o qualsiasi altra arte. Resto sempre vicino a Gombrich se penso che è più conveniente parlare di artisti (persone in carne e ossa che nascono e muoiono) anziché di arte: ci si semplifica un sacco la vita e si scoprono percorsi più interessanti, viaggi di pensiero e di vita che come tutti i viaggi veri si fanno in solitudine, anche quando accompagnati. Pensavo ad esempio alle specificità tuttora difese e pretese dalla critica musicale, dove è pur sempre richiesta una certa preparazione tecnico-teorica o a quella artistica dove si presume il critico conosca a menadito almeno l'Iconologia del Ripa. In quella letteraria, più simile all'industria casearia-spannometrica delle caciotte, tutti ci improvvisiamo critici. Ultimamente, con grande disagio, sono stato presentato anch'io come critico, solo perché qui scrivo qualche recensione, testi che in realtà sono spesso tentativi di dire qualcosa su libri che trovo importanti per me e che vorrei suggerire ad altri. Qui non stronco nessuno perché la stroncatura è un esercizio di stile che probabilmente non mi interessa proprio. Se un libro non mi interessa semplicemente non perdo qualche minuto a scriverne; non mi paga nessuno per scrivere su Librobreve, al massimo mi arriva qualche libro gratis dagli uffici stampa, la maggior parte me li compro. Ma non è di me che voglio parlare, questo inciso era un riflesso condizionato di una situazione di disagio che ho vissuto di recente. Allora torniamo alla critica, viva-morta-agonizzante. Mi sembra sia un problema posto fondamentalmente male quello della sua fine, fondato su categorie tardonovecentesche già di loro malmesse. C'è qualcosa che non va insomma nell'amalgama vischioso in cui ci trasciniamo da troppo tempo quando parliamo dello stato di salute della nostra critica. Il nostro modo di vivere e stare al mondo è completamente cambiato, la letteratura stessa è chiamata a un grande ripensamento se non vuole diventare solo parte dell'industria dell'entertainment (indoor o outdoor che sia). Un distinguo che pochi fanno è questo: si scrive quello che si può e quello che si vuole, si pubblica qualcosa, poi la fama e il successo sono un'altra cosa da quello che sostiene la critica che indovina qualcosa di buono. Nel dire che il problema della critica è mal posto intravedo anche questo binomio, ormai instauratosi nelle coscienze, tra critica e successo, critica e fama, critica e il famigerato canone, macchina dell'oblio e della memoria in ugual misura. E se fossero memoria e oblio come la spirale di un cavatappi che sembra muoversi in avanti o indietro a seconda del senso di rotazione ma che in realtà non si allunga né si accorcia (sono i due manici del cavatappi che si alzano e abbassano e il tappo infilato nella bottiglia che viene perforato e che si alza). Per tornare alla tecnicità della musica non è nemmeno detto che la musica rimanga la patria di una "tecnicità salvata" a tutti i costi. Anni fa un conservatorio aveva scelto per la propria pubblicità lo slogan "Wolfgang Amadeus... Zappa" e questo non per dire che Frank Zappa non sapesse suonare o ignorasse certa teoria, ma presumo per dire che ricerca e coraggio devono vivere nel gesto artistico e critico (intendo il critico come un artista), pena la sua totale inutilità e, peggio ancora, nocività. E la critica allora? Alla critica, o meglio a quella che intendiamo chiamare critica di domani, non resta che porsi in un atteggiamento di vera umiltà, il che non significa atteggiamento falsamente dimesso, ma un atteggiamento che fa sì che si provi a rinominare certi aspetti del nostro vivere angusto su questa terra senza fare come Pietro Citati il quale, per elogiare una delle sue verdure preferite di un tempo, si è trovato a scrivere "cavolate sui pomodori".

Piuttosto, quando nasce la critica? La critica, se così vogliamo continuare a chiamarla, continuamente nasce. E non sto parlando di un'origine data una volta per tutte, sto parlando di un'origine non originale che continuamente si rivela a sé, la stessa origine non originale di cui sono fatte tutte le scelte del vivere, una dopo l'altra.

martedì 7 ottobre 2014

da "Andremo a rubare in cielo" di Patrick Kavanagh

Una poesia da #44


Andremo a rubare in cielo. Titolo bellissimo per l'unico libro di poesia di Patrick Kavanagh oggigiorno disponibile in Italia, un'antologia dei suoi snodi poetici. Lo trovate in catalogo delle edizioni Ancora (pp. 128, euro 12, a cura di Saverio Simonelli). L'incontro con la poesia di quest'altro grande irlandese del Novecento, vissuto fra il 1904 e il 1967, è avvenuto per me grazie a una pubblicazione della udinese Forum, un libro più cd nel quale Pierluigi Cappello compiva il suo florilegio e lettura da William Shakespeare, Carlos Montemayor, Arthur Rimbaud, Vicente Aleixandre, Giorgio Caproni e Patrick Kavanagh. Questo per dire che se da cosa nasce cosa, da libro può nascere libro. Pur essendo tra i grandi nomi della poesia irlandese del secolo scorso, Kavanagh ancora non ha conosciuto una grande sorte di traduzioni in italiano. Diciamo pure che dopo Yeats, ed escludendo i casi di Heaney e Muldoon, la vicina poesia irlandese del Novecento non ha conosciuto grandi spazi di frequentazione da noi. Chissà se è perché chi è interessato la legge dall'originale. Non credo. Penso in realtà più a coloro che nell'ambito dell'editoria poetica fecero "per viltade il gran rifiuto" e abdicarono una volta per tutte alla propria funzione di dotare le librerie italiane e i lettori di poesia (che esistono!) di un certo percorso e direzione nella scelta e nella proposta di testi poetici stranieri in traduzione, vittime della presunzione di sapere che la poesia non interessa e non vende (e allora perché trascinarsi stancamente in un'impresa non redditizia?). Non so se nemmeno questo sia vero. A giudicare dai post di questo blog, noto che quelli più ricercati sono proprio quelli che hanno a che fare con la poesia. Ma probabilmente questo non fa testo e non è sintomo di nulla. Vi lascio alle parole di Kavanagh tradotte da Saverio Simonelli. Buona lettura.


EPIC


I have lived in important places, times 
When great events were decided: who owned 
That half a rood of rock, a no-man's land 
Surrounded by our pitchfork-armed claims.
I heard the Duffys shouting "Damn your soul" 
And old McCabe stripped to the waist, seen 
Step the plot defying blue cast-steel - 
"Here is the march along these iron stones."
That was the year of the Munich bother. Which 
Was most important? I inclined 
To lose my faith in Ballyrush and Gortin 
Till Homer's ghost came whispering to my mind. 
He said: I made the Iliad from such 
A local row. Gods make their own importance.


EPICA


Ho vissuto in luoghi importanti, in tempi

In cui si sono decisi grandi eventi: chi fosse il proprietario
Di quel mezzo miglio di roccia, una terra di nessuno
Circondata dalle nostre rivendicazioni armate di forcone.
Ho sentito i Duffy esclamare "al diavolo la vostra anima"
E il vecchio McCabe, l'ho visto a torso nudo,
Entrare nel campo sfidando il blu del duro acciaio -
"Qui si passa, tra questa terraglia!"
Quello era l'anno del tumulto di Monaco. Cosa
Fu più importante? Ero quasi propenso
A perdere la fede in Ballyrush e Gortin
Finché non venne il fantasma di Omero a sussurrarmi in cuore:
Ho fatto l'Iliade a partire
Da una simile rissa locale. Sono gli Dei che fanno la differenza.

domenica 5 ottobre 2014

"La strana disfatta" di Marc Bloch torna in libreria

Quote #6

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

L'edizione Einaudi di questo libro importantissimo di Marc Bloch, introdotta da un saggio mirabile di Silvio Lanaro, era scomparsa dalla circolazione da un bel pezzo. Ci pensa l'editore Res Gestae a riproporre queste pagine dello storico medievale e degli Annales che fece la conoscenza di entrambe le guerre mondiali e le manda in libreria arricchite degli scritti della clandestinità degli anni 1942-1944 (pp. 214, euro 16). L'étrange défaite è la testimonianza sul 1940 francese, ovvero su quel frangente temporale in cui tutto salta o rischia di saltare e collassare definitivamente sotto l'onda d'urto dello schiacciasassi hitleriano: stato, nazione, paese. Patria. Dal basso all'alto e dall'alto al basso di nuovo. Sono pagine dove Bloch, di passaggio - lo scrivo giusto per portarvi un esempio dell'apertura dell'analisi - parla del successo dello scoutismo come chiaro sintomo di una carenza del sistema educativo nazionale. La testimonianza di Bloch è una delle più alte che la storia intellettuale del Ventesimo secolo abbia depositato, quella di uno studioso tra i più capaci che in un momento tra i più drammatici della storia del proprio paese ha saputo rovesciare in affetto e fraternità per i propri commilitoni e connazionali quella che fu l'atavica tipica diffidenza di tanti intellettuali verso altri uomini (pensiamo solo al fastidiosissimo piglio elitario e civilizzatore che certa sinistra italiana cresciuta come tanti di noi a suon di "Happy Days", "Il mio amico Arnold" e "I Jefferson" tuttora si porta dietro, senza aver trovato sondaggisti che le suggeriscano che è stato quasi sicuramente la sua più grande disgrazia elettorale). Pochi giorni fa qui si è scritto di Piero Calamandrei con riferimento alla scuola. Per tanti versi Calamandrei e Bloch sono due nomi che mi vien da accostare. Circa tre anni dopo Bloch, nel 1943, Piero Calamandrei, in una situazione tremenda e analoga ma in fondo meno grave e spappolata di quella francese, annotava queste parole nel suo diario: "Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un'allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all'operaio che passa in bicicletta: si può esprimere, senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo, la facezia che avvince spesso più di un'invettiva. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d'ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: 'Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!'". Ecco, la "patria" era scomparsa proprio durante il Fascismo che la eresse a parola passe-partout. E nel 1940 in Francia che cosa succede? La patria forse muore? E oggi in quale forma accogliamo una parola che a tanti suonerà dissonante come "patria"?

Torniamo allora a Marc Bloch e al passo scelto per oggi, un frangente in cui lo storico-testimone diventa acido nei confronti del proprio paese-patria, contro quell'indole e contro i propositi bucolici che a suo avviso hanno lasciato la Francia in uno stato di arretratezza economica e culturale a sprofondare in una "molle noncuranza". Meditiamo le sue parole, perché ancor oggi siamo prigionieri di tanti quotidiani miti bucolici che prendono varie forme e rischiano di spazzarci dopo averci fregato con il proverbiale prosciutto davanti agli occhi:

"E ciò che di noi è stato sconfitto, si abbia il coraggio di confessarlo, è appunto la nostra cara piccola città. Le sue giornate dal ritmo troppo fiacco, la lentezza dei suoi autobus, le amministrazioni sonnolente, le perdite di tempo moltiplicate ad ogni passo da una molle noncuranza, l'indolente pigrizia dei suoi caffè di guarnigione, le mene di una politica dal corto respiro, l'artigianato scarsamente redditizio, le biblioteche dagli scaffali vuoti, il gusto del già visto e la diffidenza nei confronti di ogni novità che possa turbare confortevoli e consolidate abitudini: ecco ciò che è stato travolto dalla sfrenata velocità, che il famoso "dinamismo" di una Germania dagli alveari ronzanti ci ha scagliato contro."

venerdì 3 ottobre 2014

"Il mondo senza sonno" di Stefan Zweig

"Leggere una Grande Guerra" #8

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

La collana che l'editore Skira dedica alla narrativa ha recentemente ospitato quattro testi che ricadono nel corpo di scrittura che Stefan Zweig ha dedicato al primo conflitto mondiale, scrivendone sia in presa diretta sia a distanza di anni. Il libro s'intitola Il mondo senza sonno (pp. 112, euro 12). Il racconto che dà il titolo al volume, Die schlaflose Welt, è una ricostruzione della sensazione stremante di allerta continua che interviene persino nel ciclo sonno-veglia. Episode am Genfer See è il racconto dell'odissea inutile di un prigioniero russo che finisce sulle sponde del lago di Ginevra, in un paese neutrale pertanto, e del suo suicidio nel lago. Il terzo racconto (Der Zwang), L'obbligo, è un mirabile tentativo di fissare in prosa il dissidio che segue una chiamata alle armi, tra l'istinto di diserzione (alimentato anche dai famigliari) e l'accoglimento di una costrizione e un obbligo al quale, quasi misteriosamente, si sente di non poter più fuggire. Fu questo in effetti un dissidio ricorrente in molti uomini che partirono per il fronte e conosciamo letterature e stratagemmi che riguardano tanto l'accettazione della guerra quanto la diserzione. Il volume di Skira si chiude con un reportage giornalistico uscito sul "Berliner Tageblatt" nel 1928 e dedicato alla città belga che ha dato il nome al gas dell'iprite, Ypres. A dieci anni dalla fine della guerra Zweig intravede già quel fenomeno speculativo legato alle sciagure belliche. Forse non è un fenomeno nuovo e magari vi erano forme di turismo bellico simili già in precedenza, immagino con Napoleone e i luoghi delle sue campagne e battaglie. Per stare allo sviluppo di questo fenomeno in Italia è sufficiente prendere in mano una guida del Touring Club degli anni Venti e Trenta. 
(Il primo racconto del volume si può leggere anche qui.)

giovedì 2 ottobre 2014

Milena Djoković e le diverse sfumature d'anguilla. Ricette e storie dai Sargassi alle lagune

Ad Orbetello, lì vicino alle lagune del Tirreno, dove il promontorio dell'Argentario è graffiato e acchiappato da due unghie di terra, c'è una casa editrice che faremmo bene a tener d'occhio. Si chiama Effequ. Chissà se l'avete mai incontrata. Ha un bel catalogo, quattro collane ben progettate e "fa" ancora i libri (intendo dire che non si limita a stamparli). Quest'anno, tra gli altri titoli, ha pubblicato un libretto di Milena Djoković intitolato Diverse sfumature d'anguilla. Ricette e storie dai Sargassi alle lagune (pp. 128, euro 10). Questo libro è un ricettacolo perché fa parte della collana "Ricettacoli" e capite bene, sin dal nome di collana, che è un modo intelligente e obliquo (un controcanto) per fare editoria culinaria in un'epoca in cui i fatturati della librerie si reggono grazie alle vendite di Gordon Ramsey o ad altre spocchiose pubblicazioni nelle quali interi regimi alimentari e proteici, responsabili dell'umano nutrimento per secoli, vengono devastati in improbabili inquadrature fotografiche e da una profonda ignoranza alla base, anzi no, al palato. L'autrice, Milena Djoković, ha vissuto proprio a Orbetello ma anche a Vetralla, Roma, Belgrado ed è traduttrice dal serbocroato (sue le versioni di Vietato Leggere e Baba Yaga ha fatto l'uovo di Dubravka Ugrešić pubblicate da Nottetempo).

Il pesce-sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari e ai nostri estuari, torcia e frustra, freccia d'Amore in terra (sì, va bene, basta con Montale, d'accordo), ecco l'anguilla è protagonista in questo libro di un'indagine appassionata frammista alle ricette. Si potrebbe parlare di libro-inchiesta, se non fosse che la parola "inchiesta" ci giunge ormai un po' svuotata e incapace di rendere il lavorio intelaiato dall'autrice, che con metodo e vera creatività ha inseguito per il mondo, tra gorielli di melma, questo pesce quasi scomparso dal nostro regime alimentare (troppo grasso? Qualche recondito tabù per la sua forma e il suo modo di muoversi? Ci torneremo tra pochissimo, parlando del suo nome nel dialetto veneto). E il titolo dell'opera? Si lega ad Orbetello, dove si mangia appunto l'anguilla sfumata di Orbetello, un piatto che si fa risalire alla dominazione spagnola e che si prepara con un'anguilla affumicata, marinata e poi condita con una salsa a base di peperone, il pimento. Ma la geografia di questa scrittura ci porta in tanti posti e il libro interessa anche per questo motivo a diversi livelli, perché l'anguilla diventa un pretesto non pretestuoso per parlare di molte cose. La scrittura di Milena Djoković ci porta fino a qui, intendo fino al Veneto da dove scrivo io, dove il pesce prende il nome dialettale di bisàto (a Venezia) e di bisàta (nell'entroterra), verosimilmente a ricordare una biscia, caso pressoché unico nel panorama della nomenclatura ittica dialettale di questo pesce e che forse risente di un cattolicesimo di "sfumatura" veneta. Insomma Diverse sfumature d'anguilla rappresenta un bel modo per (non) fare editoria culinaria: intelligente, affilato, sveglio. Giusto così, era ora, perché degli altri libri che con la vera cucina non hanno niente da spartire ne abbiamo veramente piene le scatole e speriamo presto anche gli scatoloni del macero. Ah, scusate, Montale riaffiora: se leggete la poesia trovate anche i "paradisi di fecondazione" ma se leggete questo libro scoprirete che anche l'anguilla è minacciata di estinzione.

mercoledì 1 ottobre 2014

Poesie inedite di Luca Rizzatello


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Due testi da il signor kleck di Luca Rizzatello (Rovigo, 1983), libro scritto assieme a Giusi Montali e di prossima pubblicazione


dell'intento


scrivere la lanterna che proietta
le girandole di giunchi a bruciare
tra la lente e la parete la polvere
sulle mostrine dell'imbonitore
che bercia come se davvero fosse
tutto impresso lì ma l'aes grave o
il buon selvaggio che così non si
vede il veleno non la medicina


il signor kleck


è soltanto un sasso che non impatta
sebbene si palesi nella specie
della scaglia d'oro poi dello spirito
di negazione infine del controllo
a ridondanza ciclica ma kleck
si propaga dentro il cielo che prende
più della sua luce e scuote le ombre
dei rami sul prato dei rami sul