Quote #6
"To repeat or
copy the words of another, usually with acknowledgment of the source."
Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di
quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di
un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi
importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri
significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.
L'edizione Einaudi di questo libro importantissimo di Marc Bloch, introdotta da un saggio mirabile di Silvio Lanaro, era scomparsa dalla circolazione da un bel pezzo. Ci pensa l'editore Res Gestae a riproporre queste pagine dello storico medievale e degli Annales che fece la conoscenza di entrambe le guerre mondiali e le manda in libreria arricchite degli scritti della clandestinità degli anni 1942-1944 (pp. 214, euro 16). L'étrange défaite è la testimonianza sul 1940 francese, ovvero su quel frangente temporale in cui tutto salta o rischia di saltare e collassare definitivamente sotto l'onda d'urto dello schiacciasassi hitleriano: stato, nazione, paese. Patria. Dal basso all'alto e dall'alto al basso di nuovo. Sono pagine dove Bloch, di passaggio - lo scrivo giusto per portarvi un esempio dell'apertura dell'analisi - parla del successo dello scoutismo come chiaro sintomo di una carenza del sistema educativo nazionale. La testimonianza di Bloch è una delle più alte che la storia intellettuale del Ventesimo secolo abbia depositato, quella di uno studioso tra i più capaci che in un momento tra i più drammatici della storia del proprio paese ha saputo rovesciare in affetto e fraternità per i propri commilitoni e connazionali quella che fu l'atavica tipica diffidenza di tanti intellettuali verso altri uomini (pensiamo solo al fastidiosissimo piglio elitario e civilizzatore che certa sinistra italiana cresciuta come tanti di noi a suon di "Happy Days", "Il mio amico Arnold" e "I Jefferson" tuttora si porta dietro, senza aver trovato sondaggisti che le suggeriscano che è stato quasi sicuramente la sua più grande disgrazia elettorale). Pochi giorni fa qui si è scritto di Piero Calamandrei con riferimento alla scuola. Per tanti versi Calamandrei e Bloch sono due nomi che mi vien da accostare. Circa tre anni dopo Bloch, nel 1943, Piero Calamandrei, in una situazione tremenda e analoga ma in fondo meno grave e spappolata di quella francese, annotava queste parole nel suo diario: "Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un'allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all'operaio che passa in bicicletta: si può esprimere, senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo, la facezia che avvince spesso più di un'invettiva. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d'ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: 'Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!'". Ecco, la "patria" era scomparsa proprio durante il Fascismo che la eresse a parola passe-partout. E nel 1940 in Francia che cosa succede? La patria forse muore? E oggi in quale forma accogliamo una parola che a tanti suonerà dissonante come "patria"?
Torniamo allora a Marc Bloch e al passo scelto per oggi, un frangente in cui lo storico-testimone diventa acido nei confronti del proprio paese-patria, contro quell'indole e contro i propositi bucolici che a suo avviso hanno lasciato la Francia in uno stato di arretratezza economica e culturale a sprofondare in una "molle noncuranza". Meditiamo le sue parole, perché ancor oggi siamo prigionieri di tanti quotidiani miti bucolici che prendono varie forme e rischiano di spazzarci dopo averci fregato con il proverbiale prosciutto davanti agli occhi:
"E ciò che di noi è stato sconfitto, si abbia il coraggio di confessarlo, è appunto la nostra cara piccola città. Le sue giornate dal ritmo troppo fiacco, la lentezza dei suoi autobus, le amministrazioni sonnolente, le perdite di tempo moltiplicate ad ogni passo da una molle noncuranza, l'indolente pigrizia dei suoi caffè di guarnigione, le mene di una politica dal corto respiro, l'artigianato scarsamente redditizio, le biblioteche dagli scaffali vuoti, il gusto del già visto e la diffidenza nei confronti di ogni novità che possa turbare confortevoli e consolidate abitudini: ecco ciò che è stato travolto dalla sfrenata velocità, che il famoso "dinamismo" di una Germania dagli alveari ronzanti ci ha scagliato contro."
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