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venerdì 28 ottobre 2016

Giovanni Boine: la punta dell’iceberg. Uno scritto di Chiara Catapano

È dalla lettura di Plausi e botte che cercavo un modo per proporre un post introduttivo all'opera di Giovanni Boine. Alla fine lo ha scritto chi è molto più competente in materia, Chiara Catapano, che ringrazio molto per il contributo che segue.

Giovanni Boine nel 1913
Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (“Poeti italiani del Novecento”, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.
Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Un buon affare, per chi lo trova
Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiente della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

C’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.
Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 - marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Boine in un dipinto di Stefano Parolari
Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.
Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.
Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Chiara Catapano


giovedì 8 ottobre 2015

da "Poesie" di Vincenzo Cardarelli

Una poesia da #54


Cardarelli, Bontempelli e Savinio
Nella foto è quello a sinistra. In mezzo è Massimo Bontempelli, quello col vestito scuro è Alberto Savinio. Qualche tempo fa stavo sfogliando questo suo libro in una bancarella antiquaria. Il signore della libreria - mi pare fosse la libreria Ardengo di Roma (che nome!) - principiò un breve discorso su Vincenzo Cardarelli (all'anagrafe Nazareno, 1887 - 1959) e sul fatto che non se lo "fili" più nessuno. Non avevo bisogno di comprare quel libro, visto che a suo tempo, usato (o forse mai aperto) al Libraccio di via Santa Tecla a Milano, avevo trovato l'antico Meridiano Mondadori curato da Clelia Martignoni nel 1981. Nella citatissima antologia di Mengaldo Cardarelli c'è. Poi è vero che non se lo "fila" più nessuno? Non saprei rispondere. O meglio, non è vero, perché ora pubblico una poesia di Cardarelli da Poesie e quindi quel nessuno non vale più. E comunque sono sicuro ci sia chi continua a leggerlo. Capisco bene cosa significhi un'affermazione come quella del libraio, soprattutto dal suo punto di vista. Comunque non proseguo, perché sarebbero solo i soliti noiosissimi discorsi sul canone, buoni per quelli che sulle rimodulazioni dei canoni ci campano o provano a campare. Capisco ora scrivendo che per me è quasi più interessante parlare e ascoltare i librari antiquari, e non perché oggi è una giornata sabiana.


FUGA


Brevi sono le forme
che il caos inquieto produce.
La vita è fiamma vinta.
Ogni cosa è costretta
in uno spazio imperioso.
Ascese immani s’appuntano
al vertice di un’ora
per ricadere dolorosamente
in una perduta impotenza.
Se poi ci si rialzerà,
non è certo.
A volte il destino divaga.
Attese di anni non bastano
a dar tempo di giungere a un momento.
E noi stringiamo la grazia
come una mano che si ritira.


(Qui le opere di Vincenzo Cardarelli nel catalogo storico della Fondazione Mondadori.)

sabato 12 settembre 2015

Su una ipotesi di Pier Vincenzo Mengaldo, su lacerazioni e omologazione, su trauma e non trauma

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #9

Pier Vincenzo Mengaldo
Qualche settimana fa sul settimanale del Corriere della Sera "La Lettura" è apparsa un'intervista a Pier Vincenzo Mengaldo. Verso la fine lo storico della lingua e critico confessa la passione per gli scrittori israeliani sostenendo questo: "Parecchi anni fa ho formulato un’ipotesi: che cioè la narrativa migliore nasca in Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali, per esempio contrasti etnici, politici, religiosi. Paesi in cui le lacerazioni sono profonde, come Israele. Alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata, come sono quella italiana o quella francese". Mi verrebbe da chiedervi banalmente se siete d'accordo con questa ipotesi, ma non avrebbe molto senso. Anche per Mengaldo - mi par di capire - si tratta pur sempre di un'ipotesi che andrebbe suffragata con un lavoro lungo, accurato e sicuramente controverso. Per restare sulla traccia, quale spinoso breve libro mi piacerebbe scrivere o trovare attorno a questa affermazione e al nucleo di riflessioni che la presuppone?

Provo ad andare con ordine, premettendo che di primo acchito non mi sono trovato in accordo con Mengaldo e che per nulla sono rimasto affascinato dall'ipotesi. La sua è un'affermazione che ci si aspetta da un uomo della sinistra che fu, come lui stesso si definisce all'inizio dell'intervista, quando giustamente lamenta la barbarie preoccupante a cui siamo giunti, anche in Italia. Si tratta di una ipotesi in larga parte ancora in scia ad una critica letteraria marxista: il contrasto e il conflitto da un lato, l'omogeneità e l'omologazione dall'altra, l'aspettarsi che la letteratura dia il meglio di sé nel conflitto, nello sporco, nel disastro. Fin qui niente di nuovo, mi pare. Ora, da Boccaccio in giù abbiamo tutti ben presente che cosa significhi il ritrovare nella letteratura il cosiddetto tessuto sociale, e lo avevamo appreso anche dallo studio della letteratura latina o in altre ancora. Se questo tessuto sociale è omogeneo (omologato?), poco contrastante, come potrebbe essere il caso attuale di Italia e Francia, ne deriverà anche una letteratura meno interessante e meno increspata, piatta (i dati sulla disoccupazione e disuguaglianza, italiana e francese, non mi spingerebbero a parlare in questo modo, ma tralascio, anche perché si rischia di riesumare i disastri della "letteratura del precariato" e del suo fetido marketing mix). A sostegno di tutto ciò, potremmo inoltre ricordare che dalle lacerazioni dell'epoca di Dante è scaturito quel poema inarrivabile che è la Commedia. Ma c'è una qualche originalità in un'affermazione come quella di Mengaldo? Si può considerare interessante a sua volta questa ipotesi? Vi ricordate Orson Welles ne Il terzo uomo? Intendo quella celebre battuta che vuole l'Italia delle lotte intestine, dei massacri, dei Borgia in grado di produrre Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento, contrapposta alla pacificata Svizzera che in cinquecento anni non è stata in grado di produrre qualcosa di più rilevante degli orologi a cucù? Anche quella battuta può vicendevolmente stimolarci come anche lasciare il tempo che trova (magari domani potremmo scoprire che il vicino di casa dell'inventore degli orologi a cucù scrisse un poema magnifico). A mio avviso la debolezza dell'ipotesi sta nel continuare a far derivare una letteratura interessante da un contesto problematico di contrasti "etnici, politici, religiosi". Il punto su cui non possiamo più andare così lisci e tranquilli è la facile derivazione dell'interesse di una data letteratura nazionale dal coefficiente di lacerazione del contesto sociale nel quale questa sorge e si nutre.


Mengaldo definisce la sua come un'ipotesi, e allora mi chiedo anche quale genere di ipotesi sia un'ipotesi che collega con disarmante linearità la "narrativa migliore" ai "Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali". Interessante notare come nell'intervista Mengaldo parta dalla narrativa, per poi concludere più genericamente che "alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata". Inoltre, in che senso intende questa ipotesi Mengaldo? Se, come credo, la intende in termini di ipotesi scientifica, non gli mancano certo gli strumenti o i dati per verificarla (cioè le opere dei narratori che spinti da contesti realmente problematici producono una narrativa migliore), se invece la intende dal punto di vista della logica, cioè come un enunciato assunto come dato allo scopo di verificarne le conseguenze e a prescindere dall'effettiva correttezza dell'enunciato, mi chiedo che cosa potrà sprigionare questo enunciato e dove potrà condurre. In altre parole, in questo secondo caso, mi domanderei se la sua ipotesi sia una buona, promettente e originale intuizione critica.

C'è da aggiungere, infine, che il ragionamento di Mengaldo, pur rimandando curiosamente e in modo interessante a contesti nazionali, si colloca in una cornice che è quella che ha elevato il trauma o l'assenza di trauma a grimaldello critico principale per spiegare pressoché ogni cosa in letteratura. E a me pare che abbiamo chiesto di spiegare un po' troppo al trauma e che ormai non ce la faccia più a darci delle dritte interessanti, nemmeno se con un'intuizione critica interessante, furba ma miope si pone l'assenza di trauma come centrale (si veda ad esempio lo stimolante libro di Daniele Giglioli, emblematicamente intitolato Senza trauma). In un librino allora mi piacerebbe provare a verificare quest'ipotesi, non tanto come ipotesi scientifica da suffragare coi dati, quanto piuttosto come enunciato secco che viene assunto per indagarne le conseguenze, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alla realtà. E quale sarebbe dunque il mio enunciato? Questo:  

Le potenzialità esplicative ed euristiche del concetto di trauma (e parimenti quelle del concetto di assenza di trauma) nella critica letteraria sono pressoché esaurite. Questo non significa espungere il trauma, reale o immaginario, dalla nostra epoca (così come non significa escludere comunque delle possibilità di "riabilitazione"). Significa, forse più banalmente, porre dei dubbi sulla progressiva inservibilità di un concetto abusato.

(Comunque scherzavo: sarebbe una perdita di tempo scrivere un libro del genere, mi bastava scrivere questo post.)

mercoledì 22 luglio 2015

"Nuovi giorni di polvere" di Yari Bernasconi

Il segmento testuale "uno dei più..." che si trova sovente nelle quarte di copertina o in altri paratesti sta diventando quasi un tic e sarebbe davvero curioso tentare una statistica lessicale in merito. L'avrò usato anch'io su queste pagine, e spero soltanto di averlo fatto in momenti di poca lucidità e poca fantasia. All'espediente però non sfugge nemmeno un decano come Goffredo Fofi il quale, nella nota a Nuovi giorni di polvere (Casagrande, pp. 96, euro 18 - CHF 20), parla di Yari Bernasconi (Lugano, 1982) come di "uno dei più coinvolgenti poeti delle ultime generazioni". Il problema non è quanto Fofi sia lontano da fare centro - pure l'obiettivo di questo mio scritto è simile a quello di Fofi, ossia suggerire la lettura del libro di Bernasconi cercando di metterlo in relazione con altro che ho letto e magari con altro che si scriverà - bensì la scorciatoia critica che queste espressioni spesso racchiudono e il loro avvitarsi sulla base di un principio di auctoritas che ancora, in qualche modo, soprattutto nella critica letteraria, sembra tenere, aggrappato però a una roccia friabilissima. (Penso ora a Mengaldo, che non era estraneo a scorciatoie analoghe, anche se nel suo caso il giudizio di valore diventava spesso un giudizio ben raccordato a un sistema di valori emerso o autoemergente nel testo critico.) Insomma la formula "uno dei più |aggettivo| della sua generazione/delle ultime generazioni" per me diventa ormai automaticamente una sorta di "abuso di posizione critica dominante" se non è supportata da una congrua analisi del testo e sortisce ormai effetti contrari dell'invito a leggere. Non so voi. Quest'auctoritas, fra l'altro, è qualcosa che i poeti intimamente vorrebbero o dovrebbero sempre rifiutare, a trenta come a novant'anni, così come mi pare rifiutarla la vena del polso di Bernasconi. Si noti anche un altro aspetto, ovvero la collosità problematica del concetto di "generazione" in poesia, ripreso anche da Fofi nel suo giudizio che parla di "ultime generazioni"; verrebbe da chiedere: quante generazioni? Quali "ultime generazioni"? Intende quelle dopo la sua? Che cosa ci entusiasma ancora nel parlare per generazioni in poesia e non ad esempio in altri generi letterari o nel campo della ricerca scientifica? Parlare di generazioni inizia ad aver senso se è in atto una vera "questione morale" che le sta attraversando, ma nella megamonogenerazione serpeggiante in cui si ricade spesso oggi tutti quanti, dal-nipote-al-nonno senza soluzione di continuità, da Noto a Oslo, parlare per generazioni rischia di configurarsi come l'ennesimo e fiacco ritrovato del marketing.

Passo finalmente al libro, tralasciando giudizi diretti su autore o biografia, a mio avviso sempre pericolosi e poco fertili. Tra le pagine, fra l'altro, scompare un battito generazionale per lasciar posto a un'anabasi camminata quasi sempre da un'enigmatica, forse inconciliata prima persona plurale (che sia la prima persona plurale il fine e la fine di questa scrittura?). Bernasconi scrive spesso di un noi, a volte esplicito, altre meno. Di polvere, polvere e (nuovi) giorni. Quante polveri conoscete? C'è quella da sparo, quella cosmica, quella che rimane delle lavorazioni e dalle limature, e poi la polvere delle case che si appoggia sui piani. Ci sono polveri più o meno visibili. Ci sono anche le polveri che ulcerano i nostri stati di coscienza e il nostro organismo o quelle farmaceutiche. Ad un livello letterario, almeno per chi scrive, forse per piccolezza di vedute, il rimando più immediato è John Fante di Ask the Dust. In effetti ci sono molte domande che possiamo rivolgere alla polvere. Il titolo rinvia anche a un immaginario biblico e, tutto sommato, sembra sottolineare la portanza e durata del concetto di vanitas vanitatum che può essere ridestata un istante da un'"aria improvvisa" (come in una poesia della serie irlandese). Nel libro la polvere è quella che raccoglie un dito indice che, nell'atlante d'Europa, si sposta a indicare la località estone di Dejevo, nella più grande isola del paese baltico (Lettera da Dejevo fu l'esordio di Bernasconi pubblicato dall'editore Alla chiara fonte) alla Svizzera e all'Italia, per poi tornare a nord con una cospicua sezione irlandese, Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela). In questa sezione abbiamo la riprova che spesso si scrivono i versi più bellamente vagolanti in quello stato di alterazione che il viaggio può comportare, agostinianamente più per la pressione del viaggio sulla pelle dei nostri giorni che per quello che possiamo effettivamente scoprire distanti da casa. Come in Galway: "Se c’è qualcosa di vero in questa strada, tra le case, / attorno ai corpi dei turisti che spingono all’entrata / dei locali, cantando con voci grasse, è tutto / nell’asfalto. L’asfalto levigato e la sua inerzia. / L’asfalto sotto i ciottoli, negli interstizi, nelle crepe. / Quell’asfalto ignorato. // Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso."

Facciamo ora un passo indietro. Dopo l'iniziale Dejevo s'apre la sezione dal titolo fortiniano Non è vero che saremo perdonati ("Non è vero che siamo in esilio. / Non è vero che torneremo in patria, / non è vero che piangeremo di gioia / dopo l’ultima svolta del cammino. / Non è vero che saremo perdonati." dai versi del fiorentino). Qui entra il paesaggio della Svizzera, il discrimine del San Gottardo e la sua galleria ferroviaria, il treno per Zurigo, ma poi trovano spazio frammenti di conversazione e "Cartoline", dalla località francese di Saint-Gilles-du-Gard e da quella svizzera di Herisau. Siamo vicini a San Gallo: "Dalle colline si vede San Gallo, rassicurante, / col suo stadio. Gli anziani stanno insieme, salutano / il soldato che torna in caserma dagli altri. / Immacolate, le case e le facciate respingono i prati, / troppo verdi. Ristagna una fierezza vaga: / le nostre donne, le nostre terre, le nostre bestie. // È strano che in un bosco, proprio qui, / ci sia il corpo senza vita di una bambina. / Così stonato. È strano che una terra come questa / dia anche, ogni tanto, di che morire. /". Spesso capita che in questi versi si immischi nel paesaggio un elemento di forte inquietudine, quasi misterioso. Il controllo formale è sempre molto alto, il metro quasi rassicurante anche se non si capisce bene su che cosa rassicuri (ho avvertito in questo l'aspetto intrigante del libro). Di certo Sereni, Orelli e il già citato Fortini sono stati a lungo meditati (Orelli pure conosciuto e frequentato, ricordo infatti la curatela del suo Abbecedario), eppure il piglio più interessante giace dove Bernasconi s'allontana da un'idea di tradizione e calca uno scarabocchio sopra quella che un tempo si chiamò "linea lombarda" ("Siamo cambiati senza movimento: all’oscuro / delle unghie più nere, grati dei sentieri battuti, / le strade e i cortili puliti. Sangue? Macerie? / La guerra vera era noiosa: distante e prevedibile.").

Lungo la Landstrasse è una sezione anaforica. Molte poesie di questo terzo movimento del libro iniziano infatti con "Siamo": "Siamo diversi, ma il sangue dei nostri padri / è rosso. [...]", "Siamo tanti, ma presto ci perderemo.", "Siamo in viaggio, ma non in fuga. [...]", "Siamo selvaggi, dicono, come se fosse / un problema. [...]", "Siamo felici nella nostra carovana, tra i volti / che conosciamo. [...]", "Siamo indifesi davanti ai bastoni / che sembrano forconi; [...]". Anche qui torna prepotente la prima persona plurale, di cui si diceva sopra. La quarta sezione, La montagna di fuoco, raggruppa solamente due prose poetiche e la poesia intitolata "Residui". Ora, se vogliamo criticare chi scrive di residui possiamo farlo, possiamo giocare a individuare i pusterliani in Ticino o in Italia (poco cambia), resta che a mio avviso scrivere di residui significa accogliere nell'opera qualcosa che è etimologicamente ma anche ontologicamente rimasto indietro. Io penso allora, per contrapposizione, più che a Pusterla, a I compagni corsi avanti del Vocativo zanzottiano, quel finale "[...] Strugge la mite / notte Hitler, di fosforo, e congiunta // in alito di belva sugli estremi / muschi dardeggia Diana le impietrite / verità della mia mente defunta." Quest'associazione dovrebbe tornarmi utile per un pensiero alla fine.

La sesta sezione segue la già ricordata Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela) e si intitola Se camminiamo. Questo è anche il titolo della prima poesia: "Se camminiamo è per andare avanti, / per cercare qualcosa, per non abbandonare / una speranza. Dimenticando tutto il resto. / Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove? Riconosciamo i sassi / e gli orizzonti: i sentieri ci dicono / che ci siamo, che andiamo.". I toni tornano intimi (stavo per scrivere intimissimi), quasi un morettiano diario senza le date ma ritorna forte un senso del luogo, come nel "luogo vacillante" di un testo, nella ferroviaria "Berna–Milano–Napoli (quadretto di genere)" o nella poesia conclusiva "Un commiato" che termina con questi versi: "L’acqua che passa si è già presa il domani. / Io ti scrivo da qui, dove poi si scompare. / Perdona se non tornerò in quello spazio / perenne.". Questo richiamo ai e dei luoghi resta, come residuo, uno degli aspetti più coinvolgenti e convincenti di queste poesie. Se restassimo alle parole di Fofi, spostando l'accento più sull'opera che sul nome del poeta, mi domanderei allora dove e in che misura è "coinvolgente" la scrittura poetica di Bernasconi? Paradossalmente - e non intende essere un gioco di contrari - è tanto più coinvolgente quando ci parla in modo chiaro, anche se obliquo, di una esclusione che ci riguarda. Non mi riferisco alla sbandierata esclusione di una (nostra?) generazione al cospetto della Storia, ma a quell'esclusione forse salvifica e persino rassicurante che sperimentiamo nel viaggio e nel sentimento di un luogo, è la nostalgia "di seconda mano" richiamata in un testo di spostamento tra la Svizzera e l'Italia, sempre nella sezione conclusiva del libro. Può essere persino il rischio di un'esclusione perenne dall'azione e in questo i versi provano a tenere alta la guardia. Non è e non può essere l'esclusione da un'autonomia di pensiero che dobbiamo comunque provare a conquistare se non vogliamo cadere in quella pressoché unica, lunga e sinuosa generazione destinata a essere fatta a pezzi all'occorrenza, per questo e quell'utilizzo nella macelleria del reale o del virtuale. Attraverso il perseguimento di una spazializzazione e scansione della propria scrittura, Bernasconi rimane aggrappato a quell'esclusione, spesso incistata nei luoghi, ma che da sola può divenire il fondamento di qualsiasi principio-appartenenza, di un'anabasi forse incompiuta e tuttavia senza ritirata: "Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove?", appunto.

martedì 14 agosto 2012

da "Questo muro" di Franco Fortini

Una poesia da #9

La raccolta di Franco Fortini Questo muro esce nel 1973. Per chi volesse in rete è disponibile un'interessante analisi di uno studioso di prim'ordine come Pier Vincenzo Mengaldo (trovate tutto qui). Si tratta di una raccolta delle poesie scritte in larga parte negli anni Sessanta, nei febbrili anni Sessanta fortiniani. Già dal 1974, negli Oscar Mondadori, è disponibile, proprio a cura di Mengaldo, un'antologia delle poesie a partire da Foglio di via e che comprende anche Questo muro, uscito appena un anno prima. Anche da questa semplice collocazione temporale ed editoriale si evince l'importanza del libro nel percorso poetico di Franco Fortini: Questo muro rimane tra i più importanti lasciti di Fortini. Raccolta della "piena maturità" la definisce Mengaldo, "forse la sua più alta". Interessante, proprio in avvio del saggio indicato sopra, la nota sul movimento, opposto e contrario a quello normale e consueto per Fortini di immersione nel presente, "cioè un distacco verso un linguaggio in cifra che tanto più si rende necessario tanto più il presente punge". 

Come sempre difficile scegliere un testo tra gli altri. Ho optato per una poesia dal titolo forte, Gli alberi. Mi sembrava potesse essere una scelta abbastanza buona per questo poeta che, sempre Mengaldo, definisce "dell'allegoria e della parabola".













GLI ALBERI


Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a metter fuori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.