Covertures #10
In quanto a copertine in Italia non siamo messi così male. D'accordo, dopo La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e il suo strepitoso successo è stata un'invasione di volti in primo piano, occhi su quella tonalità, sguardo circa come quello, inclinazione del collo circa come quella, sfondo verdino circa come quello, foglie e boschetti ecc. Non è difficile capire il motivo: annaspando si cercano appigli e la copertina è uno dei principali appigli per adescare lo sguardo in libreria. Di qui l'imitazione dei casi di successo e il benchmark. Nei 20-30 secondi che prevedono il richiamo dell'attenzione di una persona in libreria, l'interesse di afferrare un libro, sfogliarlo e leggerne risvolti e altri paratesti, il desiderio di leggerlo per intero e l'azione di acquistarlo, un editore si gioca spesso il destino di una copia venduta. Naturalmente c'è chi arriva in libreria con le idee già formate su cosa acquistare e allora la copertina non avrà questa rilevanza. Quel che però spesso non si ricorda è che la copertina può e dovrebbe far parte sostanziale di un progetto di libro (e parlo di libro e non di collane coi loro "format"). Non è difficile ravvisare una certa uniformazione e banalizzazione delle copertine da quando anche le case editrici hanno iniziato ad utilizzare scriteriatamente le stesse banche date di immagini delle agenzie di pubblicità e comunicazione (Getty Images, iStockphoto ecc). Il volume di Taschen The Book Cover in the Weimar Republic / Buchumschläge in der Weimarer Republik curato dal librario Jürgen Holstein (pp. 452, euro 49,99, in inglese e tedesco) ricolloca la copertina del libro sul suo terreno d'appartenenza, cioè quello della cultura del progetto, dove tuttavia oggi sembra abitare sempre più malvolentiere e lo fa isolando un certo modo di progettare copertine emerso nella fucina della Germania weimariana, disponendo nell'impaginato un migliaio di esempi. Sotto alcuni scatti dall'interno del bel volume.
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lunedì 16 maggio 2016
sabato 26 dicembre 2015
"El Greco" di Taschen. Un libro di Michael Scholz-Hänsel per parlare di Treviso e del cubista del Cinquecento
Solitamente chi transita per Treviso la ricorda. La città è una bella città, anche se spesso i trevigiani del centro sono fastidiosi lamentoni che rischiano di accanirsi su un corpo morente o, nella migliore delle ipotesi, di tirarsi la proverbiale zappa sui piedi. Inoltre, decenni di amministrazioni preoccupate a far la guerra ai problemi del prurito, più che della cura delle lesioni più profonde della cute e dei tessuti o degli organi interni, uniti a una politica urbanistica a volte incomprensibile, hanno indotto la città e i suddetti commercianti lamentosi poco fantasiosi a non credere che con la cultura si potesse anche mangiare (oltre che pensare, riflettere anche, persino divertirsi). Quale stupido, grossolano errore strategico. E con cos'altro si potrebbe mangiare, oggi, in una città che non vive più nemmeno del cosiddetto settore terziario? Preferisco comunque parlare di economia dei servizi, anziché di cultura. Ho trovato il parlare di cultura sempre oltremodo imbarazzante, fuorviante. Quanti adorabili idioti discorsi si sentono ogni volta che si imbraccia la cultura come tema, con idiozie che toccano il culmine quando la cultura entra nell'alveo denso del grande pastone discorsivo della politica. Adorno dovrebbe averci detto qualcosa di significativo. Parlare di un artista del Cinquecento e di come una mostra a lui dedicata possa inserirsi in una città è qualcosa di interessante. Inoltre la divulgazione è affascinante e attraverso una certa idea di divulgazione può passare persino il ripensamento di una società e di certi suoi nodi.
Ma tutto questo che c'entra con Doménikos Theotokópoulos detto El Greco? Come saprete, se la pubblicità fa ancora il proprio mestiere, a fine ottobre è stata inaugurata la mostra "El Greco in Italia". Tale evento per la città di Treviso arriva dopo la scorpacciata impressionistica di qualche anno fa, una serie di mostre che nel sostanziale scarso interesse scientifico, artistico e culturale che rivestivano (almeno per chi vi scrive), potevano aprire gli occhi ai trevigiani su una direzione da prendere e sviluppare, senza pensare solo a "fare il botto" con quella serie di mostre, ma ricostruendo, con pazienza, un tessuto umano ed economico in larga parte lacerato. L'argomento del governo della città e del circondario è naturalmente grandemente complesso, già problema medievale (e Treviso è città medievale), e chiama a raduno tutte le intelligenze che in una città possono ancora operare. Ci sono anche dei segnali vitali che non vanno taciuti (ma accade spesso così anche in ogni organismo morente), tuttavia rischiano di soffocare o migrare in qualche cunicolo della puntiforme padana pianura. Insomma, il bilancio di salute rischia di essere in grave perdita, senza che nessuno faccia un grande affare (i commercianti in primis). C'è davvero una sensazione di tristezza a girare in una città, in fondo assai bella, nella quale sembra scattare ogni sera il coprifuoco dopo le otto, se non per le aree calde dello spritz.
Benvenuto El Greco, quindi (volendo poi a Treviso c'è anche Escher, nel complesso di Santa Caterina oppure il rinnovato Museo Bailo, dopo anni di chiusura). In realtà una singola mostra o un'accoppiata di mostre potrà far quel che può, ma è pur sempre qualcosa, una ripartenza. E se volete arrivare in città con qualche anticipazione, anche se non è necessario, potreste prendervi questo El Greco di Michael Scholz-Hänsel (Taschen, pp. 96, euro 8,49). La mostra può contare su un comitato scientifico degno del nome e la presenza di Lionello Puppi in questo rassicurerà molti. Sul pittore nato nella località cretese di Candia e morto a Toledo permane una fitta nebbia. Eppure lo ritroviamo, anche nel percorso espositivo, come felice contaminatore-contaminato, precursore del Cubismo (per Picasso fu l'unico cubista "veneziano" del secolo) e di Francis Bacon. Quel che colpisce è la tavolozza de El Greco, se raffrontata anche con quella degli artisti che venne ad ammirare in Italia: troviamo allora Tiziano che frequentò durante il soggiorno veneziano, Tintoretto dal quale fu attratto soprattutto per certi esiti più drammatici della sua pittura o Parmigianino dei quali troverete alcune opere esposte nelle sale di Ca' dei Carraresi. Quest'artista ha saputo farsi ponte anche nei cromatismi, in alcune stilizzazioni delle figure, nei superamenti di stilemi razionalistici e rinascimentali attraversando da est a ovest l'Europa del sedicesimo secolo e stazionando nel nostro paese per un intenso, significativo periodo che nella mostra di Treviso è efficacemente documentato. (Chiudo con un'immagine di un'opera non presente in mostra ma forse esemplificativa di alcune cose buttate nella mischia di questo pezzo.) www.elgrecotreviso.it
Ma tutto questo che c'entra con Doménikos Theotokópoulos detto El Greco? Come saprete, se la pubblicità fa ancora il proprio mestiere, a fine ottobre è stata inaugurata la mostra "El Greco in Italia". Tale evento per la città di Treviso arriva dopo la scorpacciata impressionistica di qualche anno fa, una serie di mostre che nel sostanziale scarso interesse scientifico, artistico e culturale che rivestivano (almeno per chi vi scrive), potevano aprire gli occhi ai trevigiani su una direzione da prendere e sviluppare, senza pensare solo a "fare il botto" con quella serie di mostre, ma ricostruendo, con pazienza, un tessuto umano ed economico in larga parte lacerato. L'argomento del governo della città e del circondario è naturalmente grandemente complesso, già problema medievale (e Treviso è città medievale), e chiama a raduno tutte le intelligenze che in una città possono ancora operare. Ci sono anche dei segnali vitali che non vanno taciuti (ma accade spesso così anche in ogni organismo morente), tuttavia rischiano di soffocare o migrare in qualche cunicolo della puntiforme padana pianura. Insomma, il bilancio di salute rischia di essere in grave perdita, senza che nessuno faccia un grande affare (i commercianti in primis). C'è davvero una sensazione di tristezza a girare in una città, in fondo assai bella, nella quale sembra scattare ogni sera il coprifuoco dopo le otto, se non per le aree calde dello spritz.
Benvenuto El Greco, quindi (volendo poi a Treviso c'è anche Escher, nel complesso di Santa Caterina oppure il rinnovato Museo Bailo, dopo anni di chiusura). In realtà una singola mostra o un'accoppiata di mostre potrà far quel che può, ma è pur sempre qualcosa, una ripartenza. E se volete arrivare in città con qualche anticipazione, anche se non è necessario, potreste prendervi questo El Greco di Michael Scholz-Hänsel (Taschen, pp. 96, euro 8,49). La mostra può contare su un comitato scientifico degno del nome e la presenza di Lionello Puppi in questo rassicurerà molti. Sul pittore nato nella località cretese di Candia e morto a Toledo permane una fitta nebbia. Eppure lo ritroviamo, anche nel percorso espositivo, come felice contaminatore-contaminato, precursore del Cubismo (per Picasso fu l'unico cubista "veneziano" del secolo) e di Francis Bacon. Quel che colpisce è la tavolozza de El Greco, se raffrontata anche con quella degli artisti che venne ad ammirare in Italia: troviamo allora Tiziano che frequentò durante il soggiorno veneziano, Tintoretto dal quale fu attratto soprattutto per certi esiti più drammatici della sua pittura o Parmigianino dei quali troverete alcune opere esposte nelle sale di Ca' dei Carraresi. Quest'artista ha saputo farsi ponte anche nei cromatismi, in alcune stilizzazioni delle figure, nei superamenti di stilemi razionalistici e rinascimentali attraversando da est a ovest l'Europa del sedicesimo secolo e stazionando nel nostro paese per un intenso, significativo periodo che nella mostra di Treviso è efficacemente documentato. (Chiudo con un'immagine di un'opera non presente in mostra ma forse esemplificativa di alcune cose buttate nella mischia di questo pezzo.) www.elgrecotreviso.it
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El Greco, Laoconte, 1610-14 (National Gallery of Art, Washington) |
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mercoledì 20 agosto 2014
Foto della Prima guerra mondiale a colori in un libro edito da TASCHEN
"Leggere una Grande Guerra" #6
"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).
Sarà capitato a tutti di sfogliare libri fotografici sulla Grande Guerra. Di questi tempi è ancora più facile, dato il pullulare di pubblicazioni sull'argomento. E il nostro immaginario è quasi sicuramente un immaginario privo del dato cromatico. A coprire questo parziale buco dell'editoria arriva la casa edtrice TASCHEN con questo volume fotografico intitolato The First World War in Colour curato da Peter Walther (Hardcover, 21 x 28,5 cm, pp. 384, € 39,99). Il libro, progettato secondo un ordine cronologico (un capitolo per ogni anno del conflitto, compreso il cosiddetto aftermath) mette a disposizione gli sforzi di chi si impegnò con le prime fotografie a colori realizzate durante il conflitto. La tecnologia è quella nota con il nome di autocromia. Per la nostra mente non è come vedere Stanlio e Ollio a colori, e non perché parliamo di foto e non di cinema. Qui ciò che colpisce lo sguardo è la posa dei soggetti e delle scene riprese. Manca spesso la drammaticità della presa diretta e l'urgenza. Però è come se ci fosse una drammaticità nuova e aggiunta, quella del colore. A questo link potrete vedere qualche foto in anteprima.
"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).
Sarà capitato a tutti di sfogliare libri fotografici sulla Grande Guerra. Di questi tempi è ancora più facile, dato il pullulare di pubblicazioni sull'argomento. E il nostro immaginario è quasi sicuramente un immaginario privo del dato cromatico. A coprire questo parziale buco dell'editoria arriva la casa edtrice TASCHEN con questo volume fotografico intitolato The First World War in Colour curato da Peter Walther (Hardcover, 21 x 28,5 cm, pp. 384, € 39,99). Il libro, progettato secondo un ordine cronologico (un capitolo per ogni anno del conflitto, compreso il cosiddetto aftermath) mette a disposizione gli sforzi di chi si impegnò con le prime fotografie a colori realizzate durante il conflitto. La tecnologia è quella nota con il nome di autocromia. Per la nostra mente non è come vedere Stanlio e Ollio a colori, e non perché parliamo di foto e non di cinema. Qui ciò che colpisce lo sguardo è la posa dei soggetti e delle scene riprese. Manca spesso la drammaticità della presa diretta e l'urgenza. Però è come se ci fosse una drammaticità nuova e aggiunta, quella del colore. A questo link potrete vedere qualche foto in anteprima.
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Peter Walther,
Taschen,
The First World War in Colour
domenica 3 novembre 2013
Taschen pubblica "Type. A Visual History of Typefaces and Graphic Styles". E noi siamo sempre più dentro un'epoca di caratteri?
Bene, ho scelto appositamente la foto di profilo di questo libro. Non è quel che si può definire "libro breve". Eppure lo potete davvero aprire, consultare, sfogliare e guardare (sì, come si guarda un film) come un libro breve, per qualche istante, senza paura di perdere il filo. Prendere, lasciare e riprendere. Questo può accadere in realtà con molti libri editi da Taschen, l'editore "edonista". E quelli dedicati alla tipografia, all'arte tipografica e ai "typefaces" sono davvero - almeno per me - tra i più belli e avvincenti. Non ricordo più quale visual designer britannico ha affermato di preferire di addormentarsi con un bel libro di "typefaces" davanti anziché... che ne so... con un libro di foto di belle donne. Era una provocazione (ma neanche eccessiva, da come l'aveva messa) che ben richiamava il piacere estetico che una coerente e efficace progettazione tipografica ancora riveste. E vi dirò di più: credo fermamente che la diffusione esponenziale del web ponga ancor più in primo piano l'importanza dei caratteri, della loro progettazione, disposizione e visualizzazione. Solo che l'amatorialità con cui il web è avvicinato ha impedito una riflessione seria su questi temi e che altre sono le priorità. Ma se su cinque anni di scuola si facesse una mezz'ora di educazione tipografica non credo che nessuno andrebbe in rovina, con buona pace dei fantomatici programmi ministeriali che forse espungono o ignorano questo tema. Vero anche che i diversi browser che utilizziamo mostrano un classicissimo Arial 10 con sfumature leggermente diverse (pur essendo ormai in caduta libera, stando alle statistiche, mi pare tuttora insuperata la "font rendering" di Internet Explorer se paragonata a quella di un FireFox o di un Chrome). E con i display piccoli di smartphone o tablet come la mettiamo? Credo sia bene insomma continuare a parlare di caratteri tipografici.
Nel catalogo Taschen, degli stessi autori, trovate Type. A Visual History of Typefaces & Graphic Styles. 1901–1938, oppure, come articolo "correlato", il bellissimo Bodoni. Manual of Typography – Manuale tipografico (1818) o l'altrettanto irresistibile Letter Fountain. The anatomy of Type di Joep Pohlen. In questo volume gli autori, Cees W. de Jong (designer proveniente da un paese molto attento a questi temi come i Paesi Bassi), Alston W. Purvis (professore alla Boston University) e Jan Tholenaar (altro olandese, stavolta collezionista) si concentrano su un orizzonte temporale di tre secoli che va dal 1628 al 1938. Il libro apre davanti agli occhi del lettore-voyeur di cose tipografiche un universo di design estrapolato dalla storia dell'editoria (a proposito di editoria, ci sono ancora editori che puntano molto sull'avere una propria font, pensiamo ad esempio a Voland e alla font omonima progettata da Alberto Lecaldano oppure a chi ha fatto dell'editoria un "genere letterario" come Adelphi, che pare si sia affidata ad un Baskerville leggermente rivisitato). Nel libro troverete davvero di tutto: roman, italic, bold, semi-bold, narrow e broad fonts, iniziali, decorazioni, esempi litografici, incisioni e inediti percorsi calligrafici. I nomi? A dire il vero, se siete soliti percorrere il menu a tendina dei vostri programmi è facile che qualcuno vi suoni famigliare: William Caslon, Fritz Helmuth Ehmcke, Peter Behrens, Rudolf Koch, Eric Gill, Jan van Krimpen, Paul Renner, Jan Tschichold, A. M. Cassandre, Aldo Novarese e il grande Adrian Frutiger. Il primo volume si ferma al principio del Ventesimo secolo. Il secondo ricopre il denso quarantennio fino al 1938. Non vi resta che tuffarvi e nuotare nelle lettere, in questi elementi costitutivi di una perdurante "parola dipinta".
Ah, questo blog è scritto in Georgia. Non è il massimo, ma tra le opzioni che mi forniva la piattaforma era la font "meno peggio", la stessa scelta ad esempio per l'edizione online del Corriere della Sera. Molto meglio del Times New Roman (che non riesco più a guardare) o del Comic Sans (che per fortuna non c'è come opzione e che lascio volentieri ai bollettini di parrocchia o ai boy scouts, laddove ha attecchito con indici di penetrazione misteriosamente alti).
Nel catalogo Taschen, degli stessi autori, trovate Type. A Visual History of Typefaces & Graphic Styles. 1901–1938, oppure, come articolo "correlato", il bellissimo Bodoni. Manual of Typography – Manuale tipografico (1818) o l'altrettanto irresistibile Letter Fountain. The anatomy of Type di Joep Pohlen. In questo volume gli autori, Cees W. de Jong (designer proveniente da un paese molto attento a questi temi come i Paesi Bassi), Alston W. Purvis (professore alla Boston University) e Jan Tholenaar (altro olandese, stavolta collezionista) si concentrano su un orizzonte temporale di tre secoli che va dal 1628 al 1938. Il libro apre davanti agli occhi del lettore-voyeur di cose tipografiche un universo di design estrapolato dalla storia dell'editoria (a proposito di editoria, ci sono ancora editori che puntano molto sull'avere una propria font, pensiamo ad esempio a Voland e alla font omonima progettata da Alberto Lecaldano oppure a chi ha fatto dell'editoria un "genere letterario" come Adelphi, che pare si sia affidata ad un Baskerville leggermente rivisitato). Nel libro troverete davvero di tutto: roman, italic, bold, semi-bold, narrow e broad fonts, iniziali, decorazioni, esempi litografici, incisioni e inediti percorsi calligrafici. I nomi? A dire il vero, se siete soliti percorrere il menu a tendina dei vostri programmi è facile che qualcuno vi suoni famigliare: William Caslon, Fritz Helmuth Ehmcke, Peter Behrens, Rudolf Koch, Eric Gill, Jan van Krimpen, Paul Renner, Jan Tschichold, A. M. Cassandre, Aldo Novarese e il grande Adrian Frutiger. Il primo volume si ferma al principio del Ventesimo secolo. Il secondo ricopre il denso quarantennio fino al 1938. Non vi resta che tuffarvi e nuotare nelle lettere, in questi elementi costitutivi di una perdurante "parola dipinta".
Ah, questo blog è scritto in Georgia. Non è il massimo, ma tra le opzioni che mi forniva la piattaforma era la font "meno peggio", la stessa scelta ad esempio per l'edizione online del Corriere della Sera. Molto meglio del Times New Roman (che non riesco più a guardare) o del Comic Sans (che per fortuna non c'è come opzione e che lascio volentieri ai bollettini di parrocchia o ai boy scouts, laddove ha attecchito con indici di penetrazione misteriosamente alti).
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