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giovedì 21 luglio 2016

Piero Cipriano e "La società dei devianti": depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante)

Si apre all'insegna di Michel Foucault, George Orwell e Emmanuel Carrère il terzo libro che Piero Cipriano licenzia per Elèuthera. La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante) (pp. 248, euro 15) segue La fabbrica della cura mentale del 2013 e Il manicomio chimico del 2015. Ogni suo libro è inoltre caratterizzato, sin dai sottotitoli, dalla riluttanza con la quale Cipriano, di professione psichiatra e psicoterapeuta di formazione etnometodologica, si trova a fare il proprio lavoro all'interno delle istituzioni di cui inevitabilmente parla e che inevitabilmente critica. Per questa via di accesso ci ricolleghiamo a Foucault, secondo il quale - è noto - si procedeva verso una forma di controllo statale della devianza. Ritornando sulla lezione del "collega" inglese Derek Summerfield, Cipriano ricorda inoltre che "l’ordine politico-economico trae vantaggi quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale". Di Orwell Cipriano riprende le riflessioni metascrittorie: nel suo distinguere i quattro ricorrenti motivi per cui solitamente si scrive, lo scrittore britannico non dimenticava quello politico (scrivere per cambiare il mondo, anche provando a cambiare una singola disciplina che sta dentro il mondo, la psichiatria ad esempio). Infine arriviamo a Carrère, un autore particolarmente amato dal nostro psichiatra podista, e al suo tipico "patto con il lettore". Anche Cipriano ne fa uno, e lo porge così:
[...] lettore, ti racconto di me, delle mie passioni, dei miei tormenti, ti faccio entrare nel mio flusso di coscienza, però poi mi segui fino in fondo, non mi lasci, non interrompi la lettura appena il gioco si fa duro, quando scrivo venti pagine per provare a spiegare che cos’è la depressione o la schizofrenia o quando riscrivo, in tutti i modi che so, che è necessario slegare i cristi in croce, o che bisogna togliere le pasticche all’umanità.
Da qui e dalla circoscrizione e conferma della riluttanza, parte questa terza fatica di Piero Cipriano (la parola "fatica" qui ci può stare) e questo terzo colpo ai dogmi repressivi, un "grido" che prova a chiamare a raccolta i "cento Basaglia" che ancora in Italia ci sono e che possono provare a fare della psichiatria qualcosa di diverso da un esercito di "tecnici-aguzzini-e-freddi" che spesso alimentano l'imprenditoria e il business della salute.

Il libro è strutturato in 31 capitoli abbastanza brevi, spesso simili a exempla, montati secondo una logica cumulativa e argomentativa serrata, e tenuti insieme dall'occhio del regista (in un romanzo breve uscito per Manni nel 2010, Film anarchico e impopolare. Nella terra dei lupi e dei santi, il protagonista è proprio un regista). Si tratta di un esperimento interessante di fiction che non è fiction (una peculiare non-fiction novel, toh, per scrivere come si dovrebbe, con ampi stralci di saggio narrativo) oppure, se si guarda dal versante opposto, possiamo pensare di avere davanti un saggio informale e colloquiale, concepito come una progressiva aggressione ed erosione del terreno preso in esame, cioè quello della follia con cui si cerca di irretire istituzionalmente e commercialmente... un'altra follia, o perlomeno quanto ci ostiniamo comunemente a chiamare così. Chi ha conosciuto la scrittura di Piero Cipriano nei primi libri non avrà bisogno di queste note provenienti invece da un suo lettore dell'ultim'ora il quale, suggerendo la lettura di questo nuovo nuovo, evidentemente si immagina un lettore altrettanto tardivo interessato sia a questa nuova opera sia alle vecchie opere dell'autore. Chiudono il libro l'utile poscritto e le altrettanto utili bibliografia e - soprattutto - filmografia (da Nei giardini di Abele di Sergio Zavoli del 1968 al recentissimo La pazza gioia di Paolo Virzì, e certo è che la regia e il montaggio ritornano costantemente nell'approccio di Cipriano).


La costituzione del volume sin dal titolo sposta l'attenzione su una parola nuova, "società", mentre nei primi due libri facevano capolino le parole "fabbrica" e "manicomio" (quest'ultima parola parzialmente dematerializzata dall'aggettivo "chimico"), a conferire comunque fisicità architettonica agli aspetti relativi alla salute mentale e alla sua "gestione" dopo la chiusura dei manicomi. Parlare di "società" dei devianti e non solo delle "istituzioni totali", su cui si era soffermato magistralmente il saggio Asylums di Erwing Goffman (libro che ricordiamo fu tradotto da Franca Ongaro e prefato da Franco Basaglia), traduce quel continuum scabroso che va da un'ineffabile e tuttavia esistente "follia" alla "normalità" altrettanto ineffabile. Allo stesso tempo è un libro la cui strutturazione traduce un dubbio di fondo che riguarda la libertà di non sapere chi siano veramente i devianti (pensavo all'epoché leggendo e ad un certo punto questa parola è spuntata nella prosa di Cipriano, e a ben vedere epoché richiama la "messa tra parentesi" della malattia mentale di cui parlava Franco Basaglia, in attesa di sgretolare certe sovrastrutture che la imbrigliano e non aiutano nessuno). Cipriano evita di essere inconcludente in questo loop, soprattutto quando salda il proprio ragionamento in un circuito economico-produttivo che riconduce la non produttività del deviante al lucro che su di questo è prodotto. Tra tutti, di particolare interesse i capitoli che ritornano sull'eredità basagliana, il carteggio diviso in parti con la "decima madonna", ovvero Nicoletta Bidoia, sulla scia del suo libro Vivi. Ultime notizie di Luciano D. (libro di cui ho scritto qui) e quello intitolato programmaticamente "Una nosologia non botanica e non entomologica della sofferenza psichica". Ma non mancano spunti pratici più fecondi come "Il paziente zero".

Di fondo, tra le pagine, resta la "riluttanza" che è la cifra (e forse ormai un'etichetta, pericolosa e a doppio taglio come ogni altra etichetta) con cui Cipriano veicola il proprio pensiero e operato, una postura metodologica che traduce la scarsa propensione a cedere alla follia istituzionalizzata con cui ancora si prova a imbrigliare - magari chimicamente e non architettonicamente o con le fasce e il contenimento - la follia. Alla parola Cipriano riserva sicuramente un'attenzione importante e speranzosa, anche se non altrettanto speranzosa è la prospettiva di certa psicanalisi, su cui emergono alcune riserve. La stessa storia della nostra lingua conserva tracce di espressioni in uso come "matto da legare", ma la stessa lingua e parola diventano, qui come altrove, dei territori dove può accadere qualcosa che si avvicina alla "cura" (che cosa fa Cipriano nel suo lavoro? Scrive che prova a parlare ai pazienti). Resta da capire come la plurisecolare vicenda della sofferenza psichica, che oggi ha per ogni colore la pasticca del colore giusto e rispondente, possa confluire dentro una rinnovata e rinnovabile visione, che raccolga davvero l'eredità basagliana (nonché di molti altri "eretici"); è una vicenda molto lunga che tra l'altro, non di rado, intercetta la scrittura, la letteratura, artisti e scienziati, la musica o il cinema. Oltre un secolo fa uno scrittore come Edmondo De Amicis non scriveva solo libri come Cuore ma varcava i cancelli e affondava da vicino lo sguardo su questo "mondo", portato lì anche da vicende personali tutt'altro che lineari. Eppure di De Amicis ci portiamo appresso soprattutto l'altra immagine, meno interessante. Il dubbio deve rimanere un principio metodologico fondante e su questo Cipriano, per quel che capisco io, mi pare abbia molto da dire e suggerire. Sulle "ricette" con cui rispondere alla sofferenza mentale e ad altri mali dell'anima non è del resto facile pronunciarsi e non lo è mai stato. "Ricette" è un vocabolo principe del linguaggio medico, ed è inevitabile che una critica passi anche per la riconsiderazione di questo linguaggio. Di questa riconsiderazione linguistica la prosa di Cipriano pone già qualche base.


sabato 12 marzo 2016

A Treviso il 19 marzo l'anteprima di CartaCarbone festival 2016

Segnalo questo appuntamento marzolino nato da un'idea di Paola Bellin attorno al tema sterminato della guerra. La serata appartiene alla programmazione di anteprima di CartaCarbone Festival 2016 organizzato dall'Associazione culturale Nina Vola.



ANTEPRIMA CARTACARBONE FESTIVAL 2016
ASSOCIAZIONE CULTURALE NINA VOLA
UNO_PUNTO_TRE

NELLA DEMENZA CHE NON SA IMPAZZIRE
Per una poesia civile

Sabato 19 marzo, ore 20.45
Sala Luigi di Francia
Via Roggia, 12 - Treviso




La serata, ideata e curata da Paola Bellin, rientra nella programmazione 
di eventi-anteprima del CartaCarbone festival 2016
L'evento si propone la partecipazione corale del pubblico ad una riflessione e sensibilizzazione sulle tragedie umane, individuali e collettive, delle guerre, attraverso conversazioni di impegno civile con tre poeti ospiti della serata:
 Nicoletta Bidoia, Alberto Cellotto, Loretta Menegon

Improvvisazioni sonore di Lucio Bonaldo.

Alla serata parteciperanno Emily Pravato e Tommaso Zambon 
del Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico "Leonardo da Vinci" di Treviso.

martedì 17 novembre 2015

"sopra la panca": incontri di poesia e musica a Treviso in Piazza Santa Maria dei Battuti

Il titolo "sopra la panca" allude alle polemiche sulle panchine recentemente installate nella piazza di Santa Maria dei Battuti a Treviso - panchine troppo assomiglianti a delle bare, per qualcuno - e mi pare abbastanza efficace per provare a sotterrarle con ironia (intendo le polemiche). Il programma completo di questa rassegna di poesia e musica a ingresso libero si trova nella locandina qui sotto e, più nel dettaglio, in questo pieghevole: quattro venerdì di fila a partire dal 20 novembre, alle 18 degli incontri di poesia, alle 19 la musica e un quinto venerdì conclusivo di sola musica.  

La notizia da dare è questa: dopo aver presentato in città decine e decine di poeti provenienti da tutta Italia, finalmente anche Marco Scarpa torna a leggere a Treviso.

Ringrazio in particolar modo Paola Bellin. L'evento è in collaborazione con Treviso Smartcity/Città di Treviso, assessorato Semplificazione sviluppo e crescita, San Leonardo Libreria Universitaria Spazio Espositivo, Codice a Curve Forme d'arte e Proteo Fare Sapere. Ad un livello personale ringrazio il percussionista Lucio Bonaldo che ha accettato di riproporre per l'occasione la lettura del poemetto sulla Prima guerra mondiale Nella demenza che non sa impazzire (contenuto in Pertiche, La Vita Felice, 2012).


Un riassunto per la parte di poesia, 
con alcuni rimandi agli autori interni al blog:

venerdì 20 novembre 2015, ore 18

venerdì 27 novembre 2015, ore 18

venerdì 4 dicembre 2015, ore 18
Alberto Cellotto con Lucio Bonaldo, Luca Rizzatello

venerdì 11 dicembre 2015, ore 18

mercoledì 15 ottobre 2014

Presentazione di "Come i coralli" di Nicoletta Bidoia al Teatro Capovolto di Carbonera il 24 ottobre

Segnalo questo appuntamento per il prossimo venerdì 24 ottobre alle ore 21 presso il Teatro Capovolto di Carbonera (Treviso). Del libro Come i coralli di Nicoletta Bidoia ho scritto qualcosa qui (la locandina qui sotto è ricavata da un collage dell'autrice).

lunedì 12 maggio 2014

"Come i coralli" di Nicoletta Bidoia

Tempo fa, in una delle scorribande di letture sconclusionate di geologia e paleoantropologia, ero alle prese con un agile volumetto di Laterza, La scienza delle nostre origini, scritto dagli antropologi Claudio Tuniz, Giorgio Manzi e David Caramelli. Mi ero imbattuto in un passaggio sui coralli e avevo da poco letto in anteprima quasi tutte le poesie di Nicoletta Bidoia ora contenute in Come i coralli (La Vita Felice, pp. 84, euro 13). Questo il passo che avevo evidenziato con un orecchio: "Il corallo si forma sott'acqua, ma quando il livello del mare s'innalza, per esempio in seguito allo scioglimento dei ghiacci polari, l'aumentato spessore di liquido scherma il Sole, che così non può raggiungere le alghe che vivono simbioticamente con il corallo. Attraverso la fotosintesi, tali piante microscopiche forniscono ai coralli il nutrimento necessario, per cui l'assenza dell'energia solare fa morire le alghe e, a cascata, il banco di corallo".

"Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno." Il titolo del libro, quell'allitterante similitudine del fiore-animale acquatico, accetta di arrivare a noi quantomeno in accezione duplice. Se prima vi è la meraviglia (e questo è un libro non estraneo alla meraviglia del vivere e alla festa dell'osservare e del raccontare), in seconda ma non secondaria battuta vi è la consapevolezza del corallo, che diventa scheletro calcareo di qualcosa che vive nascosto, nelle profondità dei mari o come fossile in quota tra le montagne. E se il corallo assomiglia a un tentacolare albero, L'albero è allora il titolo della poesia d'apertura, la prima della sezione intitolata Novecento e tutta incentrata su quel lavoro invischiato che è il recupero orale della memoria. Qui però avviene subito qualcosa di diverso, di nuovo: il riconoscimento di uno scarto che abita pienamente gli ultimi tre versi di questo testo.

Andò a Venezia negli archivi
e compose l’albero della vita,
la dinastia con le bandiere
sulla diramazione di un nome.
Trovò nel sangue tracce di Sardegna
e un più nobile corredo francese.
“Veniamo dai De Lion” diceva,
appuntando d’orgoglio le radici
di una storia. C’era tutto in quelle tavole,
compresa la filigrana dei destini,
ma l’albero si è perso, non si trova
e del disegno fastoso
non è rimasto niente.

Si discende adesso come tutti,
un rametto dopo l’altro
alla cieca.

Nel lungo componimento successivo, La solita storia, assistiamo al racconto della prigionia di guerra del nonno dell'autrice e diventa palpabile la presenza dell'opera, davvero centrale nella formazione e nella scrittura di Nicoletta Bidoia (in questo testo sono Tosca, Rigoletto e L'Arlesiana). Ed è sempre il canto, che davvero andrebbe capito in tutta la sua centralità nella letteratura, che ritorna anche nel testo intitolato Il gigante.

Stacca il turno e ritorna
fischiando Bandiera rossa.
La sventola sottovoce, in bici,
col sollievo di chi sogna. Qualcuno
ascolta - riporta - e in sette
sul piazzale della chiesa
rinfacciano ogni nota, colpendo invano
i suoi due metri e rotti di coraggio.
Li sistema tutti e rincasa.
Ma sono i giorni del ‘28 e un canto
si paga col morire. Basta un soffio,
un’ipotesi di castigo e un camion
tende l’agguato a quella voce.
La squadra si avvicina una sera,
di fronte al bar di Lancenigo,
facendo fuori l’usignolo
lì, sulla strada.

Un'oralità polifonica e fittamente abitata, quasi dolcemente invasa dagli altri e così vivida nella prima sezione, subisce poi un arresto non brusco, tuttavia deciso e meditato, nella parte centrale intitolata Silenzi. Sembra qui sfrondato il numero di persone precipitate dentro i testi. Qui, come nei ritagli dei collage e dei teatrini di carta in cui l'autrice trova la propria più grande beatitudine (si possono vedere su Youtube), si prova davvero a trascrivere il silenzio "quasi fosse l'aria rarefatta di un ghiacciaio". Ed è qui che si registra meglio anche quel rallentamento che appartiene al ricordo. Così, in una poesia che prende lo spunto architettonico e volumetrico da due chiese, leggiamo:

Due chiese mi porto dentro:
quella interna al collegio a Reggio Emilia
- nella viva preghiera ero in attesa
che la pietra si allungasse
e tenesse davvero con sé -
e Santa Lucia a Treviso, sempre di mattina presto,
dopo la corriera e prima dell’ufficio,
deserta anche quella.
Una mezzora di niente, poco meno,
uno slargo atteso di silenzio. Mi ostinavo così
ad accogliere Dio o un suo frammento,
come quando insistevo di andare all’asilo
prima degli altri, per vederli arrivare
e per capire da dove veniva tutta la gioia
che avrei provato dopo (con gli altri
si vive anche così, da soli,
e pieni di pensieri per loro)
- poi le braccia si allargavano
perché avevo fatto spazio. Ecco, il buio
è solo un’altra faccia da guardare
e a volte anche la nostra si spegne
e fa paura, così finisce che tutto
è reciproco di qualcosa, e anche se non vuole
ne fa parte.

Parlami, la terza e conclusiva sezione di Come i coralli, si apre ancor più alla molteplicità del vivere e alla stratificazione di situazioni che ci conducono in molti posti, in tanti piani del sentire e del resistere, persino da un veterinario bizzarro che dà ancora del voi. E se "tutto varia col variare del tutto", come vuole il Fabio Pusterla citato in epigrafe del volume, c'è qualcosa che inevitabilmente resta. In Cima Uomo si legge:

Resta la luce delle cose indovinate,
l’armonia che a fine agosto si incastona
nella conca tra Cima Uomo
e l’ansia. Portiamo qui la vita
- il modesto dono al paesaggio -
davanti a quelle pale,
mai così lontane come oggi nelle nuvole,
mentre sale la musica dal fondo
a ricordare tutta la fatica
di essere cima, burrone,
strapiombo e quasi mai
essere prato. 

I coralli, nel loro essere quasi-pietra quasi-rosso quasi-sangue (Pietra sangue per ritornare a Pusterla?) e nel loro esistere così dipendenti e in fondo grati all'inclinazione dei raggi solari che ricevono, all'habitat dei loro banchi, ci invitano a riunire le barriere del mare con le buzzatiane barriere delle pareti dolomitiche, che furono mari tropicali a loro volta, in tempi lontanissimi, e poi a provare a tastare la temperatura e la pelle di quei visi di roccia dove vediamo proiettato il tremolio rosso-viola dell'enrosadira, quel magnifico fenomeno cromatico che dà il titolo a una poesia di questo libro. I coralli e le rocce ci invitano anche a compiere quello sforzo davvero oltraggioso e creativo che ci vede trasformare il bianco del bicarbonato di calcio e del magnesio nell'accensione di un viso ("Se parliamo di loro, la distanza scompare / e ci raggiunge in pianura una pace / e un lieve discorso di pietre dolomiti / che sanno mutare le pareti come guance, / trasfigurare le crode in alba, /in docile tramonto."). Si verifica in questo libro una sorta di simbiosi di uomo natura e scrittura che non è un artato rimescolamento di piani e dei regni viventi, bensì un'interrogazione fonda e mai calcata del nostro stare al mondo.

Il corallo è come noi. Pare uno,
ma sono tanti i tremori che lo fanno. La fiducia
sembra farsi verticale, poi s’inclina
- basta un’ombra che s’impiglia in uno sguardo.
Chi racconta di colonie millenarie sta parlando
dei giorni nostri in fila, se non fosse che ogni tanto
si spira per un niente.
Siamo scheletri e barriere e rosso vivo
che si annoda e che compone
- sapendo di mentire - un ordine perfetto
e la sua fine.



(La trasmissione Fahrenheit di Radio Tre dedicava proprio oggi un'intervista all'autrice, completata dalla registrazione di alcuni testi di questo nuovo libro letti dalla voce stessa di Nicoletta Bidoia.)

martedì 6 maggio 2014

A Cesenatico il 14 giugno staffetta 4x4 voci e una serata di poesia in omaggio a Nino Pedretti


Sabato 14 giugno ore 21.00
Giardino di Casa Moretti, Cesenatico (FC)


Librobreve: staffetta a più voci.
Serata in omaggio a Nino Pedretti
Letture di Nicoletta Bidoia, Alberto Cellotto, 

Una staffetta è una corsa, una sciata o una nuotata che si porta a termine con altri, spesso proprio in quattro, quattro come le voci che ho radunato per questa serata, su invito di Manuela Ricci di Casa Moretti.
L’ho pensata quindi come una staffetta circolare: ogni poeta è invitato a presentare il poeta che verrà poi, fino a quando il penultimo poeta-frazionista presenterà a sua volta il primo presentatore, il quale correrà come ultimo poeta-frazionista. Correrà o nuoterà per arrivare a chiudere una sorta di cerchio, per tagliare un traguardo che in realtà non sta in nessun luogo preciso. Come la poesia, forse.
Ho scelto la formula della staffetta nel momento in cui mi è stato chiesto di leggere cose mie e di essere pure il presentatore: non mi piaceva l’idea di presentare tutti i poeti e di leggere infine dei miei testi. Per questo motivo ho pensato a una staffetta, a uno sforzo condiviso, dove ognuno è lettore ma anche presentatore. Come compagni di corsa e nuotata ho chiamato poeti che sento vicini e che stanno scrivendo cose nuove. Mi auguro che le corse e le bracciate delle poesie lette assieme creino un bel movimento d’aria o moti ondosi.
Vorrei dedicare la serata a Nino Pedretti. Galeotto fu un suo libro, Al vòuşi, ospitato su “Librobreve”, questo spazio nella rete dove è nato il contatto con Manuela Ricci e Casa Moretti, che ora si concretizza in una serata vera tra versi e amici. 


La tradizionale rassegna estiva "La serenata delle zanzare" di Casa Moretti avrà inizio domenica 1 giugno. Ecco qui sotto gli altri appuntamenti (in caso di brutto tempo questi avranno luogo nel Teatro comunale adiacente a Casa Moretti).


 

Domenica 1 giugno ore 18.00 - Giardino di Casa Moretti
Parole matte nel giardino del poeta...
Spettacolo per bambini con 
CHIARA CARMINATI e GIOVANNA PEZZETTA

Domenica 29 giugno ore 18.30
Ma «io non ho niente da dire»: grado zero, afasie, silenzi della poesia del Novecento
letture di SILVIO CASTIGLIONI
in occasione dell’inaugurazione della mostra

Sabato 5 luglio ore 21.00 Giardino di Casa Moretti
Minute poetiche di Calligraphie
reading di ROBERTA BERTOZZI e FABIO ORRICO

giovedì 7 novembre 2013

"Vivi. Ultime notizie di Luciano D." di Nicoletta Bidoia: vivendo viviamo!

Quale repertorio ci riserva Luciano D., protagonista di questo "salvataggio con nome" compiuto da Nicoletta Bidoia e pubblicato da qualche settimana dalle Edizioni La Gru (pp. 136, euro 13)! Il signor Luciano D., il "messia", arriva nella casa di riposo dove lavora l'autrice dopo quarant'anni di manicomio. A volte ritorna su quel passato anteriore alla legge Basaglia, ma non come ci si potrebbe aspettare. Spiazza dolcemente, ci frega ironicamente Luciano. Lui nomina madonne (e tante), scrive sulla "Settimana enigmistica", poi verga lettere. Indirizzate a chi? A Bush, alla regina Elisabetta, al papa o al presidente del Portogallo. Faceva e credeva anche a molto altro, come alla resurrezione dei denti (e non c'era qualche religione o mistica, dalle parti della Palestina, dove i denti ricoprivano una certa rilevanza? Ricordo bene di aver letto qualcosa del genere o sono diventato matto?). Matto io? Matto il signor Luciano? Se vogliamo imbrigliarlo in questa parola va bene, se ci tranquillizza va bene così. Ma tra le righe di questa cura di Nicoletta Bidoia, intesa non tanto in senso medico, viene a galla molto altro, assieme all'ironia e all'intelletto di quest'uomo ch'era solito salutare con il motto "Vivendo viviamo" da cui il "vivi" del titolo. E allora come si pone il racconto di chi trae in salvo questa vita apparentemente ai margini? Come si scrive di una vita, custodita e custode, che è entrata nella nostra vita?

La difficoltà maggiore, nel concepire un libro simile, era rappresentata a mio avviso dall'ampiezza dei passi, dall'interpolazione delle scene, dalle scelte temporali compiute dall'autrice che ha messo mano al "file" Luciano D., un file progressivamente ispessitosi negli anni, sovraccaricato di materia narrativa e di memoria. Per questo ho ripreso all'inizio l'immagine informatica del "salva con nome", fatta propria da Antonella Anedda nella titolazione di uno dei più bei libri di poesia dell'ultimo lustro. E qui sta il tentativo riuscito di questo recente libro, il primo al di fuori del recinto della poesia per Nicoletta Bidoia. A volte le pagine funzionano e stanno in piedi per quella sinuosa complicità che si crea tra chi racconta e chi si racconta in questi paragrafi, talvolta anche brevissimi ma mai lapidari, tra l'estro di Luciano e le attività prosaiche e consunte della giornata tipica di chi racconta e scrive questo libro. Qui c'è la cura conquistata a fatica di una vita che sta dentro un'altra vita, il desiderio del come ogni vita potrebbe (dovrebbe?) stare dentro ogni altra vita. E se arrivare a questo è un processo doloroso, incompiuto costituzionalmente, e che pure in qualche modo sempre accade, la cosa importante da segnalare qui è la buona levitas con cui Nicoletta Bidoia incontra nella scrittura Luciano D., dei molti sorrisi che sa provocare, come piccole scosse. Non certo un elettroshock di sorrisi.

Mi chiedo infine da dove nasce un simile libro. Da molte cose, credo, da un accumulo che è proprio di poesia e che pure ha trovato in questa riuscita e inedita forma narrativa un ottimo outlet, una foce (lasciatemi usare la parola "outlet" anche in uno dei suoi sensi originari). Nasce da questo, lo si legge già nelle prime righe. Sembra provenire da un senso grande di gratitudine e riconoscenza forte, quasi una sorta di grazia: "In quegli anni ho parlato con lui a lungo e ho conservato i fogli che mi consegnava. Al termine di ogni sua visita annotavo le nostre conversazioni, aspettando con pazienza che si rifacesse vivo. Poi, quando lo hanno trasferito, ci siamo scritti diverse lettere. Sono stata fortunata. Il signor Luciano si conosce, non s’inventa."  

Il libro è dedicato a Veronica Kleiber, figlia del maestro Erich e sorella di Carlos; in questa dedica si intreccia la lunga fedeltà all'opera, alla danza e alla musica di Nicoletta Bidoia, arti (arti al femminile e, anatomicamente, pure al maschile) che in fondo non suonano spazi lontani dalla follia. Scrivevo di "outlet". Per risalire alla sorgente, a un la di principio e accordatura, più che la citazione da Wittgenstein dopo il frontespizio è l'altra frase di Kurt Vonnegut, narratore tra i più amati dall'autrice, che ci apre alla stradina verso questo prato narrativo, maculato di fioriture celate e erbe non note: "Noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere."

sabato 29 giugno 2013

da "L'obbedienza" di Nicoletta Bidoia

Una poesia da #22


Nicoletta Bidoia si diverte in una maniera autentica a costruire teatrini in carta e collage. Potete andare su Youtube per vedere come il divertimento si trasformi in questo suo gesto creativo, quasi misterioso e ampio, in punta di piedi. Negli ultimi tempi mi ha detto più di una volta di aver tralasciato la poesia, verso la quale era continuamente insoddisfatta e, quasi a compensazione, sottolineava sempre di aver abbracciato quest'altra attività legata ai teatrini e ai collage. (Mi tornava in mente Montale che dipingeva coi resti del caffè.) A leggere le ultime poesie che ha scritto, dopo molto tempo, ho pensato che non abbia affatto smesso di scrivere, pensare e occuparsi anche di poesia. Forse ha soltanto tralasciato l'altro gesto, quello di riversare la poesia su carta, o su altri schermi, come  ad esempio quello che avete davanti. Non pubblico però questi inediti, ma ripesco dal suo libro più bello intitolato L'obbedienza uscito per Lietocolle nel 2008 (pp. 94, euro 13, con una nota di Isabella Panfido). Quel libro seguiva altri due, usciti sempre per lo stesso editore, intitolati Alla fontana che dà albe (2002) e Verso il tuo nome (2005, prefato da Alda Merini). Data la brevità dei testi scelti e di buona parte dei testi di questo libro, ho deciso di pubblicarne più d'uno. Anche perché non posso non pescare dalla sezione d'apertura intitolata La mappa che vale da sola la ricerca di questo "libriccino". Il distico caproniano "bruciata ogni ormai inattendibile / mappa, nessuna via regia" sta in posizione d'epigrafe di questo segmento del volume che prende lo spunto dalla notizia di una pattuglia di alpini svizzeri sorpresi da una bufera di neve sulle Alpi, dati per dispersi e poi tornati al campo grazie ad una mappa che si rivelò essere... (lo scoprite tra qualche riga). Dall'altro lato non posso fare a meno di riscoprire alcuni testi molto brevi che possiedono però un'escursione termica elevata. Rilevare questa escursione termica a distanza di cinque anni dalla prima lettura di questo libro è qualcosa di insolito, come certi mutamenti che si avvertono sulla superficie del proprio corpo, non in tutte le età della vita a dire il vero. In mezzo, in mezzo a questi cinque anni dalla prima lettura alla rilettura (e in genere dalle prime letture alle riletture) che cosa c'è? Cosa passa? Cosa cambia?

(Per concludere, ricordo anche questo link della trasmissione "Fahrenheit" di Radio3.)













ah! sans que rien ne me soutienne ni me guide
que la puissance de l’erreur
Philippe Jaccottet*


Il nostro andare è uguale
a chi non sa vedere, a chi
ogni giorno si separa e chiama
e di domande sfinisce l’eco
e aspetta.

               Ma so di alpini
che, perduti in guerra,
ritorno fecero con una mappa
e i nodi sciolsero su quella carta
che solo dopo si scoprì sbagliata.

Non di Alpi lei parlava
ma di Pirenei.

-

Smarrirsi venne prima, 

già nelle pianure della nebbia. 
Queste sono zone dove si crede soprattutto 
alla verità dei corpi, al loro segnale fermo 
tra le idee. Le voci, quando c’è bruma, 
restano cenni di esistenza, 
promesse di vicinanza tutte da provare. 
Si va piano, specialmente la notte 
e ogni passo che si salva 
rassicura il passo dopo. 
Per timide prove si procede 
in cerca di una qualche trasparenza, 
di uno slargo, di aria
che non offuschi l’aria.

-

La risposta è dire freddo
se si trema e chiara
se c'è luce: accordare
la realtà con le parole,
saperlo ancora fare.

E dopo, ma solo dopo
aver tradotto bene il cuore,
morire di neve
o viverne il bagliore.

*: “ah! senza che nulla mi sostenga né mi guidi / tranne la potenza dell’errore”
Philippe Jaccottet