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mercoledì 28 giugno 2017

Senza colpa e assoluzione: i saggi di Giovanni Turra raccolti in volume (con un estratto su "Meteo" e "Sovrimpressioni" di Andrea Zanzotto)

Cleup ha raccolto in un recente volume intitolato Senza colpa e assoluzione. Scritture e scrittori a Nordest negli anni Duemila (pp. 196, euro 16) alcuni saggi del poeta e critico Giovanni Turra. Denominatore comune di questo libro è, come da sottotitolo, l'area di provenienza degli autori trattati. Si attende a breve un nuovo libro di saggi critici di Turra dove lo sguardo inevitabilmente s'allargherà e ricordo allora che uno degli autori più assiduamente frequentati dall'autore è il ligure Francesco Biamonti, per il quale possiamo ricordare Colloquio con F.B. (in Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, 2008). 

La natura di questi scritti, che riguardano tra gli altri autori quali Ferruccio Brugnaro, Luciano Cecchinel, David Maria Turoldo, Giuliano Scabia e Gian Mario Villalta, ha passi e moventi diversi. Veri e propri saggi convivono qui con più concentrate note a margine o prefazioni. Il titolo che presta il cappello a questa raccolta di scritti presenta un motivo di curiosità, ponendo lo sguardo in una sorta di limbo dove né la colpa né l'assoluzione riescono a soverchiare. Più che l'area di provenienza, è quindi questa sorta di categoria critica (o questa constatazione di "sospensione" o epochè) un denominatore comune delle scritture studiate da Turra, estendibile a macchia sulle nostre dubitanti mappe letterarie.

Per gentile concessione dell'autore si pubblica come estratto *.pdf un contributo su una stagione particolarmente viva e interessante della poesia di Andrea Zanzotto, relativa al lustro 1996-2001. Il saggio si intitola "Gli aforismi improbabili di Andrea Zanzotto. Per una lettura di Meteo e di Sovrimpressioni", vale a dire le raccolte del poeta di Pieve di Soligo uscite rispettivamente nel 1996 (per Donzelli) e nel 2001 (per Mondadori).


 G. Turra, Gli aforismi improbabili di Andrea Zanzotto. Per una lettura di "Meteo" e di "Sovrimpressioni"

martedì 29 settembre 2015

CartaCarbone 2015, la seconda edizione del festival letterario di Treviso dal 15 al 18 ottobre


Tra il 15 e il 18 ottobre a Treviso avrà luogo la seconda edizione del festival letterario CartaCarbone, a cura dell'associazione Nina Vola. 80 eventi, 18 tra letture sceniche e spettacoli, 150 ospiti (qui la lista completa), 6 laboratori, 3 tavole rotonde, 3 eventi speciali sono i numeri con cui la manifestazione si propone, con questa nuova edizione dal respiro decisamente più internazionale, di consolidare il successo di pubblico registrato all'avvio nel 2014. Una cura rilevante è dedicata alla poesia e per l'approfondimento del versante poetico del programma riporto di seguito il comunicato ricevuto da una delle curatrici del festival, Paola Bellin. Il programma completo è ovviamente consultabile a questo indirizzo (oppure qui come pdf interattivo).
 
CartaCarbonePoesia

Luciano Cecchinel
CartaCarbone festival 2015, alla seconda edizione, si apre alla poesia proponendo otto incontri con autori che tracciano il mondo poetico italiano, e da quest’anno anche internazionale, grazie alla presenza di uno dei più importanti poeti vietnamiti, Nguyen Chi Trung che con Venti (Samuele Editore, 2014) si domanda come il suono della morte viva nel vento, nei luoghi dove la concretezza dei suoi studi matematici si contrappone all'astrattezza di quelli filosofici. Poeti riconosciuti per originalità e cifra stilistica, oltre che per incisività del messaggio: Luciano Cecchinel e il plurilinguismo aspro e franto dei suoi versi che in silenzioso affiorare esprimono la necessità del ricordo, memento da non lasciare andare; Vivian Lamarque, poetessa limpida, che raggiunge il lettore grazie alla musicalità dosata e chiara dei suoi versi, sfrondata di ermetismi e capace di stupire con una poesia illegittima; Roberta Dapunt, il cui dialogo con il sacro si manifesta nei misteri del quotidiano, nelle beatitudini della malattia. Ma anche poeti giovani: Francesco Targhetta, autore di raccolte poetiche, l’ultima Le cose sono due (Valigie rosse, 2014), e di un romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn edizioni, 2012), osserva e rappresenta, senza sconti per l’io-poetico, l’umanità della porta accanto che corre, latita, attende nella contraddizione dei molti e dei nessuno; Giovanni Turra e la fisicità della sua trama poetica, nudità sensuale delle parole visive, orografia dei corpi in Con fatica dire fame (La Vita Felice, 2014). Simone Maria Bonin, giovanissimo poeta, traduttore e curatore della poesia del poeta statunitense Hart Crane in Atlantide (Thauma edizioni, 2014), dialogherà, raccontandosi nelle forti esperienze di viaggio, dell’essere altrove per esplorare e stemperare l’io-poetico, in un incontro di urgenza poetica e grafico-poetica, con Riccardo Fabiani, poeta, illustratore, viaggiatore che traduce l’esperienza di cammino in uno schedario emotivo raccolto in Road Trippin, realizzato tramite crowdfunding in completa autonomia editoriale. Altra presenza significativa sarà quella di Antonio Turolo la cui raccolta Corruptio optimi pessima (Nuova Dimensione, 2007) rappresenta uno degli esempi più alti di poesia italiana degli ultimi anni. Poesia che scandaglia e si restituisce integra all’onestà del sentire attraverso una lingua limpida lontana da equilibrismi labirintici.

Incontri con poeti ma anche poetry slam con Lello Voce, poeta, scrittore, performer poliedrico della poesia sonora e affabulatorio interprete, tra i fondatori del Gruppo 93 e del semestrale letterario "Baldus". Insieme ai poeti che coinvolgeranno il pubblico nella performance di poetry slam anche Nicolas Alejandro Cunial, già presenza apprezzata nella serata dedicata alla poesia giovane Uno Punto Due di anteprima del festival, poeta performer in effrenata e dirompente azione di arti combinate, pillole di carne cruda (La Gru, 2013). Ospite d’onore del poetry slam un grande poeta, scrittore italiano, Nanni Balestrini, esponente di rilievo della neoavanguardia (gruppo dei poeti Novissimi, Gruppo 63) presente a CartaCarbone festival con il suo ultimo romanzo Carbonia (Bompiani, 2013).

Ancora poesia nella dirompenza del rap declamato, affermato, in continua combinazione simbiotica di musica e parola senza mediazione, con la presenza di Taiyo Yamanouchi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Hyst, dirompente forza musicale che comunica energia, positività in un mix alchemico di racconto poetico, ricercato nella parola che incide, e di potente formula sonora. Insieme a Nicolas Alejandro Cunial, impegnato anche in questa performance, e Federico Martino Big F, rapper e visual performer, anche lui già apprezzato nell’evento Uno Punto Due, travolgente nella sua libertà dai quattro/quarti in nome dell’autonomia della parola.

Versi itineranti , poesia errante quelli del performer poeta di strada MaRea che appende come panni stesi le sue poesie e le diffonde per le strade delle città, in luoghi insoliti: Stendiversomio per tirar fuori le parole dal chiuso dei libri.

Poesia dell’ineffabile nella Lectura Dantis di Ivano Marescotti, attore di teatro e di cinema, interprete per i canti I, V, XXVI dell’Inferno, e nel commento/declamazione di Giorgio Battistella del XXXIII canto del Paradiso.
(p. b.)

lunedì 25 novembre 2013

"dirti Zanzotto", il libro curato da Niva Lorenzini e Francesco Carbognin presentato a Bologna il 27 novembre


mercoledì 27 novembre 2013, ore 17.00
Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio 

(Sala Stabat Mater)

ZANZOTTO E BOLOGNA

presentazione del volume:
dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011)
a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin
Nuova Editrice Magenta 2013

intervengono:
Marzio Breda, Francesco Carbognin, Luciano Cecchinel
Niva Lorenzini, John Welle

Il volume che verrà presentato mercoledì 27 alla Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio a Bologna rappresenta senza dubbio una delle più interessanti proposte editoriali sorte attorno a Zanzotto (e, in fondo, ancora, di Zanzotto), nei mesi immediatamente successivi al secondo anniversario della scomparsa. Già ho dato notizie di Luoghi e paesaggi, curato da Matteo Giancotti e pubblicato da Bompiani il mese scorso. Questo dirti dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011) (a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin, Nuova Editrice Magenta, pp. 185, euro 20) dice chiaramente, sin da quel sottotitolo, del bel rapporto che si creò tra l'"inbulonà" di Pieve di Soligo e la città felsinea, un segno visibile, finalmente, che la leggenda che lo voleva appunto imbullonato ("lontan massa son ’ndat pur stando qua / invidà, inbulonà deventà squasi un zhóch de pionbo") alla sua Pieve è appunto un po' troppo leggenda e andrebbe almeno in parte rivista. Ad esempio un'altra città molto importante dove Zanzotto fu spesso accolto è Torino, dove lo attendevano Gian Luigi Beccaria e Carlo Ossola. Tuttavia non è una geografia di città che ci interessa ora, bensì iniziare a sciogliere certe leggende che contribuiscono a cristallizzare percezioni non feconde (e questa è soltanto una).

Il modo migliore per dare notizia di un libro simile è andare, passo passo, al suo interno. Troverete interventi in buona parte inediti, ricavati anche da un paziente lavoro di sboninatura (che magnifico verbo "sbobinare", anche se a molti non evocherà bei ricordi!) e gli atti del convegno intitolato proprio come il libro in questione, svoltosi a Bologna nel novembre del 2011. L'arco temporale è piuttosto ampio. Si va dal 1983, anno di Fosfeni, periodo nel quale Zanzotto curiosamente iniziava ad allenarsi (defaticarsi?) con degli haiku anglo-italiani (oggi leggibili in Haiku for a season e sicuramente importanti per la resa di libri di molti anni successivi come Meteo) all'anno della scomparsa del poeta. Del 2004 è il conferimento della laurea honoris causa nell'ateneo bolognese. Il primo blocco del volume è quindi un percorso di autoesegesi che parte da un contributo del poeta su Fosfeni, passa per lo scritto Poesia e percezione del 1989 e arriva alla lezione dottorale tenuta da Zanzotto nel 2004. Il denominatore comune è proprio la presenza di Zanzotto a Bologna in queste occasioni, una città dove sembra tornare volentieri a dire cose sempre nuove.


Il secondo blocco di contributi si rifà al convegno che si svolse a Bologna il 24 novembre 2011, vale a dire poco più di un mese dopo la morte del poeta. Vi troviamo il contributo di Stefano Dal Bianco intitolato eloquentemente "La religio di Zanzotto tra scienza e poesia", quello di uno dei curatori del volume, Francesco Carbognin, "La grammatica del «Vero»", che salda in modo originale le ultime opere del poeta ai libri più consolidati e più abbondanti di bibliografia, lo scritto di Maria Antonietta Grignani che saluta l'arrivo delle "carte" zanzottiane acquisite dal "Centro manoscritti" dell'ateneo di Pavia e infine un contributo di Philippe Di Meo, tra i principali traduttori di Zanzotto, su "Gli articoli di G.M.O.", la poesia d'apertura di Idioma.


La terza e ultima parte del libro ne costituisce l'appendice e presenta interviste e dialoghi compresi tra il 2001 e il 2009. L'aspetto occasionale di certi scritti nati parlati, unito ad una certa libertà di fondo che li fa muovere, trasforma anche l'appendice intera in un bacino dove è possibile continuare a scavare, a raccogliere e studiare la lingua, le letture, i traumi e le impennate del pensiero del poeta del secondo Novecento che in qualche modo tutti (almeno quei "tutti" che hanno a cuore la poesia) debbono continuare ad attraversare. I tre blocchi che vi ho brevemente descritto trasformano questo volume pubblicato da Nuova Editoriale Magenta in un tassello significativo per tutti coloro che puntano a raccogliere una seppur minima ma efficace bibliografia attorno ad Andrea Zanzotto.


COLLOQUIO

"Ora il sereno è ritornato le campane suonano per il vespero ed io le ascolto con grande dolcezza. Gli ucelli cantano festosi nel cielo perché? Tra poco e primavera i prati meteranno il suo manto verde, ed io come un fiore appassito guardo tutte queste meraviglie." 
SCRITTO SU UN MURO IN CAMPAGNA 

Per il deluso autunno, 
per gli scolorenti 
boschi vado apparendo, per la calma 
profusa, lungi dal lavoro 
e dal sudato male. 
Teneramente 
sento la dalia e il crisantemo 
fruttificanti ovunque sulle spalle 
del muschio, sul palpito sommerso 
d'acque deboli e dolci. 
Improbabile esistere di ora 
in ora allinea me e le siepi 
all'ultimo tremore 
della diletta luna, 
vocali foglie emana 
l'intimo lume della valle. E tu 
in un marzo perpetuo le campane 
dei Vesperi, la meraviglia 
delle gemme e dei selvosi uccelli 
e del languore, nel ripido muro 
nella strofe scalfita ansimando m'accenni; 
nel muro aperto da piogge e da vermi 
il fortunato marzo 
mi spieghi tu con umili 
lontanissimi errori, a me nel vivo 
d'ottobre altrimenti annientato 
ad altri affanni attento. 

Sola sarai, calce sfinita e segno, 
sola sarai fin che duri il letargo 
o s'ecciti la vita. 

Io come un fiore appassito 
guardo tutte queste meraviglie 

E marzo quasi verde quasi 
meriggio acceso di domenica 
marzo senza misteri 

inebetì nel muro. 



(da Vocativo, 1957)

domenica 29 aprile 2012

"Sanjut de stran" di Luciano Cecchinel





burigòt de nòt

in tra i mur sbieghi e i piói che i picoléa
va entro ’ncora la luna
ma i burigòt i se cen
la so coltrina de scur:
sol che ’n slùer in cao tant,
òci de gat in tel fis

ma de sbris se vet un cofà ciòc
podarse a ’n mur, snaar l’aria in traza:
pena de là de ’n canton na pòrta
la buta fòra an rui de lus cròta
e te busnar sordi
scainar de besteme

relòjo mai stuf de ’n tènp ndat
i travi e le piere i scròca;
tel scur fa pégola
sol che i gat e ’l ciòc
i sarà bòni de ’ndar pian pian
ndé che i sa, ’ndé che i ol

(diroccamenti di notte: tra i muri e ballatoi che pencolano / entra ancora la luna / mai i diroccamenti si tengono / la loro coltre di buio: / solo un rilucere ogni tanto, / occhi di gatto nel fitto // ma di straforo si vede uno come ubriaco / appoggiarsi a un muro, fiutare l’aria in traccia: / appena al di là di un angolo una porta / vomita un ruscello di luce malata / e tra brontolìi sordi / guaìti di bestemmie // orologio instancabile di un tempo andato / le travi e le pietre crocchiano; / nel buio come pece / solo i gatti e l’ubriaco / riusciranno ad andare pian piano / dove sanno, dove vogliono)

Sanjut de stran (Marsilio, pp. 160, euro 12,50, con la ricca prefazione di Cesare Segre) è un libro composto in larga parte dal 1989 al 1998, ma già iniziato sul finire dei Settanta. Nella vicenda dell'autore segue quindi Al tràgol jért (I.S.Co 1988 e poi per Scheiwiller 1999), il volume in dialetto che ha fatto conoscere ai più la traccia della strada da strascino di questo poeta veneto spesso appartato ma che oggi, a tutti gli effetti e affetti del lettore di poesia, si colloca ai vertici della poesia italiana contemporanea. Il profondo e largo carotaggio della prefazione di Segre sta a testimoniare proprio il tentativo di puntare fermamente il dito verso i rilievi più importanti dell'orografia poetica italiana, visto che da subito Segre avverte che "con Cecchinel siamo al livello più alto della poesia". In quel primo, fondamentale libro fu importante la presentazione di Zanzotto, sia per quello che effettivamente diceva (nel capitolo dei poeti-critici Zanzotto critico è grande tanto quanto il poeta, molto più innovativo e "creativo" di Montale, ad esempio), sia per quello che significava quel sodalizio tra i due autori delle Prealpi trevigiane. Zanzotto ha spesso abbozzato la cartografia degli autori a lui vicini, si pensi ai confronti con Rigoni Stern, alle diversità rilevate tra i due boschi, quello di Asiago e quelli del “quadrilatero” zanzottiano che aveva come vertici Asolo, il Montello, a est Pordenone e il “nord sbarrato dalle Alpi” e il cui centro ideale ricadeva così nella città di Conegliano (nella pittura di Cima?). Così Zanzotto ha registrato subito le isoipse della poesia di Cecchinel, di quel paesaggio di luce obliqua tra i laghi di Revine, poco distante da Pieve di Soligo. Altri libri importanti, in italiano, o parzialmente in italiano, si sono aggiunti in questi anni ultimi, dall'einaudiano Lungo la traccia (2005) a Le voci di Bardiaga (2008). Proprio quest'ultimo libro del 2008 potrebbe costituire un suggerimento di lettura in giornate di festività laica come quella celebrata lo scorso 25 aprile, un libro importante, passato un po' inosservato, lontanissimo da qualsiasi strumentalizzazione.

"Singhiozzo di strame" è un titolo che non si limita ad essere bifronte come tutti i segni linguistici, ma si apre ai punti cardinali della poesia di Cecchinel, alla rosa dei venti che soffiano nella pagina. Nel singhiozzo ritroviamo il respiro difficile, il dolore del pianto, l'interrogativo - ogni volta nuovo - di quando passerà la contrazione involontaria di un diaframma che non si può più controllare, l'universo fonico di accenti improvvisi e, appunto, singhiozzanti del suo dettato, persino certe credenze popolari legate al singhiozzo, forse. Chissà, sulle tradizioni popolari il nostro poeta ha riversato molta attenzione. Lo strame invece è l'erba e la paglia secca, usata come foraggio o lettiera. Ci catapultiamo subito nel mondo prealpino dove la sua poesia si sostanzia e ricade, sempre, frusciando nelle passeggiate che attraversano un microcosmo residuale di erbe, crepacci, spelonche, sfalci, faville, ceneri, ruderi, macerie, alberi (carpino, frassino, pioppo, acacia, ciliegio, pino solitario o alberi malati, come nella bellissima poesia intitolata alla voce del castagno malato, la voze del castegnèr cròt, dedicata a Walt Whitman), animali, spesso notturni (a corvi, ghiri, poiane, coturnici, cornacchie, pipistrelli, talpe e alle "litanie scure" di grilli e rane fa da contrappeso la presenza delle lucciole, insetti di luce, ma la cui visibilità è subordinata al buio). Di Cecchinel ammiriamo allora le impennate verticali di uno sguardo orizzontale, finanche rasoterra, le quali chiamano a raccolta suolo e cieli, scur da lus (scuro da luce, come si intitola un'importante sezione dell'opera), lo stare al mondo di quest'uomo il cui metronomo sembra essere il jazz di un crepitio di un fuoco, del larin. Il nord dell'abbraccio prealpino guarda il sud di uno scirocco che infastidisce come in sì, saron fora dove leggiamo “mejo ’ndar a stròz del nostro vèrt, / oialtri ste pura, se cusita ve conċ, / te l’òstro sarà de siròc / co le so gran sganghe, ’l so còz” (sì, saremo fuori: “meglio vagare nel nostro aperto, / voialtri state pure, se così vi conviene, / nel vostro chiuso di scirocco / colle sue grandi smanie, il suo unto appiccicoso”) oppure in par quei ’ndati via par cònt so dove riappare questo vento, sempre nel finale, “al par tut in crèpiti ’l car grant / al sie drio spacarse e no l’è vènt / te sta nòt de siròc” (per quelli che se ne sono andati per conto proprio: "sembra che decrepito il carro grande / stia spaccandosi e non c’è vento / in questa notte di scirocco:"); l’oriente delle albe con il loro guaz (l'umido dei prati) si sublima in vapore nel fuoco “…in tra i cuèrt scanadi dal foc / injazà de le stele” (… tra i tetti spezzati dal fuoco / ghiacciato delle stelle).

Poesia minuscola, nel senso che rifugge le maiuscole tranne quando si rivolge al Tu, che sembra porsi come un perenne inizio in medias res (com'è ogni saper raccontare veramente popolare), un racconto che prende abbrivio da un punto quasi casuale del paesaggio per compiere un vertiginoso circuito fonico, nel senso anche dell'udito e non soltanto del suono al quale ogni poesia inevitabilmente rimanda, perché è poesia dell'udito quella di Cecchinel, quasi l'autore riesca meglio di altri a sottrarsi agli inganni lirici sottesi talvolta allo sguardo e ad aggrapparsi alla verità del suono, sia appunto singhiozzo, o dei silenzi, come quelli della sezione gen de vodo (gomitoli di vuoto).

La luce è malata, il fuoco è soffocato. L'ossigeno non abbonda nella tavola degli elementi di questi versi. Le faville sono scure e non accese. Le stelle di ghiaccio. Le ombre possono persino accecare. Il lampo è incantato e non scorre (e chissà che cos'è un lampo incantato e riflesso sui laghi di Revine, osservato magari dall'alto, dal Pian de le Femene, ad esempio). Laddove prevale lo sguardo, la vista, ritroviamo immagini inedite per la poesia. L'espressionismo fonico e ritmico, del quale si è spesso parlato per la sua poesia, non è contrappeso della lacerante epoché sulle immagini della natura, è piuttosto sospensione che poi scivola in un presentimento tragico dell'uomo in passeggiata su un paesaggio abbandonato, a due passi dal crepaccio. Qui, in Cecchinel, la lingua è tai e dontura (taglio e giuntura).

Una poesia profondamente radicata, che però sa gettare ponti imprevedibili su autori lontanissimi nello spazio e nel tempo e su temi nemmeno accennati. Il titolo dell'ultima sezione, saor de gnent (sapore di niente), ad esempio, stride magnificamente con l'impiego folcloristico del dialetto oggi tanto in voga. Per alcuni attimi sembra pure alludere all'omicidio (volontario, con plurime aggravanti) di questo "parlar", un'esecuzione reiterata ogni volta che del dialetto è fatto un impiego finalizzato alla vendita di volumi patinati sull'alimentazione e sulla cucina che fu, o alla vendita di pietanze surrogate che abbozzano una malsana filologia culinaria, con l'unico scopo di aumentare il prezzo medio dei pasti, in un'editoria o ristorazione che insomma non hanno il minimo rispetto di quel regime alimentare che nulla ha da spartire con l'oggi. Cecchinel non parla certo di questo, ma è la forza etica del suo dialetto, delle sue titolazioni e dei cortocircuiti innescati dal suo dettato poetico che può condurre persino a questi ragionamenti. Il sapore di niente è però anche altro, è soprattutto altro, “… ùltima biava / magra e tenpestada!” (ultimo grano / magro e grandinato!), i ciòchi cioè gli ubriachi che vogliono bene alla notte, un’altra poesia notturna retta da una bellissima similitudine coi gatti, quei do de la soa vale a dire “i depressi”, quelli fuori, quelli che vogliono bene al niente o l’ultimo vìver, con quell’immagine della goccia che a mio avviso e tra le cose più potenti dell’intera raccolta:

l’ultimo ziar del bòt de canpana
al se misia su al taer
come che l’ultima joza
la à caro desparir tel sut
e l’ultima buboleta de lus
la ol reparse tel scur

cusì l’ultimo vìver
al spèta de zièder pian pian
e l’é fa se ghe cognese polsar
dal zepedimènt incantà de ’n sgranf
par intrar, par èser cetà tel gnent
che l’è de tuti,
l’è tut

(l’ultimo vivere: l’ultimo ronzìo del rintocco di campana / si mischia al silenzio / come l’ultima goccia / desidera sparire nell’asciutto / e l’ultima lucciolina di luce / vuole ripararsi nel buio // così l’ultimo vivere / aspetta di cedere pian piano / ed è come se avesse bisogno di riposare / dal rattrappimento inceppato di un crampo / per entrare, per essere acquietato nel nulla / che è di tutti, / che è tutto)