domenica 29 aprile 2012

"Sanjut de stran" di Luciano Cecchinel





burigòt de nòt

in tra i mur sbieghi e i piói che i picoléa
va entro ’ncora la luna
ma i burigòt i se cen
la so coltrina de scur:
sol che ’n slùer in cao tant,
òci de gat in tel fis

ma de sbris se vet un cofà ciòc
podarse a ’n mur, snaar l’aria in traza:
pena de là de ’n canton na pòrta
la buta fòra an rui de lus cròta
e te busnar sordi
scainar de besteme

relòjo mai stuf de ’n tènp ndat
i travi e le piere i scròca;
tel scur fa pégola
sol che i gat e ’l ciòc
i sarà bòni de ’ndar pian pian
ndé che i sa, ’ndé che i ol

(diroccamenti di notte: tra i muri e ballatoi che pencolano / entra ancora la luna / mai i diroccamenti si tengono / la loro coltre di buio: / solo un rilucere ogni tanto, / occhi di gatto nel fitto // ma di straforo si vede uno come ubriaco / appoggiarsi a un muro, fiutare l’aria in traccia: / appena al di là di un angolo una porta / vomita un ruscello di luce malata / e tra brontolìi sordi / guaìti di bestemmie // orologio instancabile di un tempo andato / le travi e le pietre crocchiano; / nel buio come pece / solo i gatti e l’ubriaco / riusciranno ad andare pian piano / dove sanno, dove vogliono)

Sanjut de stran (Marsilio, pp. 160, euro 12,50, con la ricca prefazione di Cesare Segre) è un libro composto in larga parte dal 1989 al 1998, ma già iniziato sul finire dei Settanta. Nella vicenda dell'autore segue quindi Al tràgol jért (I.S.Co 1988 e poi per Scheiwiller 1999), il volume in dialetto che ha fatto conoscere ai più la traccia della strada da strascino di questo poeta veneto spesso appartato ma che oggi, a tutti gli effetti e affetti del lettore di poesia, si colloca ai vertici della poesia italiana contemporanea. Il profondo e largo carotaggio della prefazione di Segre sta a testimoniare proprio il tentativo di puntare fermamente il dito verso i rilievi più importanti dell'orografia poetica italiana, visto che da subito Segre avverte che "con Cecchinel siamo al livello più alto della poesia". In quel primo, fondamentale libro fu importante la presentazione di Zanzotto, sia per quello che effettivamente diceva (nel capitolo dei poeti-critici Zanzotto critico è grande tanto quanto il poeta, molto più innovativo e "creativo" di Montale, ad esempio), sia per quello che significava quel sodalizio tra i due autori delle Prealpi trevigiane. Zanzotto ha spesso abbozzato la cartografia degli autori a lui vicini, si pensi ai confronti con Rigoni Stern, alle diversità rilevate tra i due boschi, quello di Asiago e quelli del “quadrilatero” zanzottiano che aveva come vertici Asolo, il Montello, a est Pordenone e il “nord sbarrato dalle Alpi” e il cui centro ideale ricadeva così nella città di Conegliano (nella pittura di Cima?). Così Zanzotto ha registrato subito le isoipse della poesia di Cecchinel, di quel paesaggio di luce obliqua tra i laghi di Revine, poco distante da Pieve di Soligo. Altri libri importanti, in italiano, o parzialmente in italiano, si sono aggiunti in questi anni ultimi, dall'einaudiano Lungo la traccia (2005) a Le voci di Bardiaga (2008). Proprio quest'ultimo libro del 2008 potrebbe costituire un suggerimento di lettura in giornate di festività laica come quella celebrata lo scorso 25 aprile, un libro importante, passato un po' inosservato, lontanissimo da qualsiasi strumentalizzazione.

"Singhiozzo di strame" è un titolo che non si limita ad essere bifronte come tutti i segni linguistici, ma si apre ai punti cardinali della poesia di Cecchinel, alla rosa dei venti che soffiano nella pagina. Nel singhiozzo ritroviamo il respiro difficile, il dolore del pianto, l'interrogativo - ogni volta nuovo - di quando passerà la contrazione involontaria di un diaframma che non si può più controllare, l'universo fonico di accenti improvvisi e, appunto, singhiozzanti del suo dettato, persino certe credenze popolari legate al singhiozzo, forse. Chissà, sulle tradizioni popolari il nostro poeta ha riversato molta attenzione. Lo strame invece è l'erba e la paglia secca, usata come foraggio o lettiera. Ci catapultiamo subito nel mondo prealpino dove la sua poesia si sostanzia e ricade, sempre, frusciando nelle passeggiate che attraversano un microcosmo residuale di erbe, crepacci, spelonche, sfalci, faville, ceneri, ruderi, macerie, alberi (carpino, frassino, pioppo, acacia, ciliegio, pino solitario o alberi malati, come nella bellissima poesia intitolata alla voce del castagno malato, la voze del castegnèr cròt, dedicata a Walt Whitman), animali, spesso notturni (a corvi, ghiri, poiane, coturnici, cornacchie, pipistrelli, talpe e alle "litanie scure" di grilli e rane fa da contrappeso la presenza delle lucciole, insetti di luce, ma la cui visibilità è subordinata al buio). Di Cecchinel ammiriamo allora le impennate verticali di uno sguardo orizzontale, finanche rasoterra, le quali chiamano a raccolta suolo e cieli, scur da lus (scuro da luce, come si intitola un'importante sezione dell'opera), lo stare al mondo di quest'uomo il cui metronomo sembra essere il jazz di un crepitio di un fuoco, del larin. Il nord dell'abbraccio prealpino guarda il sud di uno scirocco che infastidisce come in sì, saron fora dove leggiamo “mejo ’ndar a stròz del nostro vèrt, / oialtri ste pura, se cusita ve conċ, / te l’òstro sarà de siròc / co le so gran sganghe, ’l so còz” (sì, saremo fuori: “meglio vagare nel nostro aperto, / voialtri state pure, se così vi conviene, / nel vostro chiuso di scirocco / colle sue grandi smanie, il suo unto appiccicoso”) oppure in par quei ’ndati via par cònt so dove riappare questo vento, sempre nel finale, “al par tut in crèpiti ’l car grant / al sie drio spacarse e no l’è vènt / te sta nòt de siròc” (per quelli che se ne sono andati per conto proprio: "sembra che decrepito il carro grande / stia spaccandosi e non c’è vento / in questa notte di scirocco:"); l’oriente delle albe con il loro guaz (l'umido dei prati) si sublima in vapore nel fuoco “…in tra i cuèrt scanadi dal foc / injazà de le stele” (… tra i tetti spezzati dal fuoco / ghiacciato delle stelle).

Poesia minuscola, nel senso che rifugge le maiuscole tranne quando si rivolge al Tu, che sembra porsi come un perenne inizio in medias res (com'è ogni saper raccontare veramente popolare), un racconto che prende abbrivio da un punto quasi casuale del paesaggio per compiere un vertiginoso circuito fonico, nel senso anche dell'udito e non soltanto del suono al quale ogni poesia inevitabilmente rimanda, perché è poesia dell'udito quella di Cecchinel, quasi l'autore riesca meglio di altri a sottrarsi agli inganni lirici sottesi talvolta allo sguardo e ad aggrapparsi alla verità del suono, sia appunto singhiozzo, o dei silenzi, come quelli della sezione gen de vodo (gomitoli di vuoto).

La luce è malata, il fuoco è soffocato. L'ossigeno non abbonda nella tavola degli elementi di questi versi. Le faville sono scure e non accese. Le stelle di ghiaccio. Le ombre possono persino accecare. Il lampo è incantato e non scorre (e chissà che cos'è un lampo incantato e riflesso sui laghi di Revine, osservato magari dall'alto, dal Pian de le Femene, ad esempio). Laddove prevale lo sguardo, la vista, ritroviamo immagini inedite per la poesia. L'espressionismo fonico e ritmico, del quale si è spesso parlato per la sua poesia, non è contrappeso della lacerante epoché sulle immagini della natura, è piuttosto sospensione che poi scivola in un presentimento tragico dell'uomo in passeggiata su un paesaggio abbandonato, a due passi dal crepaccio. Qui, in Cecchinel, la lingua è tai e dontura (taglio e giuntura).

Una poesia profondamente radicata, che però sa gettare ponti imprevedibili su autori lontanissimi nello spazio e nel tempo e su temi nemmeno accennati. Il titolo dell'ultima sezione, saor de gnent (sapore di niente), ad esempio, stride magnificamente con l'impiego folcloristico del dialetto oggi tanto in voga. Per alcuni attimi sembra pure alludere all'omicidio (volontario, con plurime aggravanti) di questo "parlar", un'esecuzione reiterata ogni volta che del dialetto è fatto un impiego finalizzato alla vendita di volumi patinati sull'alimentazione e sulla cucina che fu, o alla vendita di pietanze surrogate che abbozzano una malsana filologia culinaria, con l'unico scopo di aumentare il prezzo medio dei pasti, in un'editoria o ristorazione che insomma non hanno il minimo rispetto di quel regime alimentare che nulla ha da spartire con l'oggi. Cecchinel non parla certo di questo, ma è la forza etica del suo dialetto, delle sue titolazioni e dei cortocircuiti innescati dal suo dettato poetico che può condurre persino a questi ragionamenti. Il sapore di niente è però anche altro, è soprattutto altro, “… ùltima biava / magra e tenpestada!” (ultimo grano / magro e grandinato!), i ciòchi cioè gli ubriachi che vogliono bene alla notte, un’altra poesia notturna retta da una bellissima similitudine coi gatti, quei do de la soa vale a dire “i depressi”, quelli fuori, quelli che vogliono bene al niente o l’ultimo vìver, con quell’immagine della goccia che a mio avviso e tra le cose più potenti dell’intera raccolta:

l’ultimo ziar del bòt de canpana
al se misia su al taer
come che l’ultima joza
la à caro desparir tel sut
e l’ultima buboleta de lus
la ol reparse tel scur

cusì l’ultimo vìver
al spèta de zièder pian pian
e l’é fa se ghe cognese polsar
dal zepedimènt incantà de ’n sgranf
par intrar, par èser cetà tel gnent
che l’è de tuti,
l’è tut

(l’ultimo vivere: l’ultimo ronzìo del rintocco di campana / si mischia al silenzio / come l’ultima goccia / desidera sparire nell’asciutto / e l’ultima lucciolina di luce / vuole ripararsi nel buio // così l’ultimo vivere / aspetta di cedere pian piano / ed è come se avesse bisogno di riposare / dal rattrappimento inceppato di un crampo / per entrare, per essere acquietato nel nulla / che è di tutti, / che è tutto)

2 commenti:

  1. Condivido dove affermi che con Zanzotto critico siamo ai massimi livelli, più di Montale, più occasionale forse, ingessato, pur sempre un gran critico. L'ho sempre pensato questo su Zanzotto. Ciao! Marzia

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  2. Grande poesia quella di Cecchinel, sia in dialetto che in italiano, per me. Gli auguro di essere letto diffusamente. Questa tua recensione potrebbe fargli bene... un saluto a tutti. MATTEO

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