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martedì 18 aprile 2017

Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica. Intervista a Mariuccia Salvati

Librobreve intervista #79


Si intitola Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica ed è edito da Carocci (pp. 212, euro 19) l'ultimo libro di Mariuccia Salvati, docente di Storia contemporeanea all'università di Bologna. In collaborazione con Franco Baldasso, che insegna Italian Studies presso Bard College a New York, ho rivolto alcune domande all'autrice. Ci siamo soffermati sul percorso che l'ha portata a questa nuova opera e l'intervista è diventata un momento nel quale ricordare figure di primo piano della ricerca storica. Quasi involontariamente il tutto si è trasformato in un omaggio a Silvio Lanaro, storico dell'Università di Padova scomparso nel giugno del 2013, che desideriamo così ricordare. 

Cogliamo l'occasione per segnalare che giovedì 20 aprile alle ore 17:00 presso la Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica (Piazza della Enciclopedia Italiana, 4 - Roma) si terrà la presentazione del volume. Ne discuteranno con l’autrice Giuliano Amato, Marc Lazar e Renato Moro.

Silvio Lanaro
AC:. Il suo libro pone al centro il problema del linguaggio. Era un tema caro a uno storico come Silvio Lanaro, che dedicò ai problemi epistemologici del linguaggio e della scrittura storica addirittura un libro che è quanto di più lontano possa esserci dall'odierno furoreggiare dello "storytelling" (Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Marsilio, 2004). Come muta questo tema fondante del linguaggio nel suo libro, nei diversi decenni che prende in esame?
MS: Lei ha colto giustamente il legame del mio libro con Silvio Lanaro, che con il suo Retorica e politica (2011, pubblicato due anni prima della morte), è stato molto vicino ai miei pensieri mentre riflettevo sulla opportunità di procedere a una operazione come la raccolta di saggi sparsi. Con Lanaro siamo stati molto amici a partire dalla fine degli anni ’80; abbiamo collaborato insieme nella costruzione di reti come la Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), nella selezione di giovani allievi (concorsi), in numerosi convegni. Vi è sempre stata una sintonia di fondo: direi la voglia di chiarezza, di intelligenza delle cose, oltre allo scarso interesse per l’uso politico della storia contemporanea. Vi era poi tra di noi (oltre alla profonda amicizia…) uno strano legame ‘culturale’ antecedente alla nostra collaborazione universitaria: entrambi abbiamo letto per tempo gli scritti di un intellettuale protagonista del ventennio fascista (e poi della sociologia del dopoguerra), come Camillo Pellizzi (citato in Passaggi): soprattutto gli scritti degli anni ’20, quando l’uso della retorica politica era rivendicato sulla stampa (in polemica con Gobetti) dal giovane intellettuale in funzione del fascismo. Il fascismo è stato prima di tutto (di questo era convinto anche Silvio) un linguaggio pubblico, un linguaggio retorico, cioè funzionale a una soggezione mentale delle masse e a una visione distorta della realtà: ce ne rendiamo conto ancora di più oggi.
Quanto alla sua domanda (se il tema del linguaggio muti nel libro): in realtà mi sono resa conto (ex post) che quel tema non muta e per questo il libro è un libro coerente. Il linguaggio rimane per lo storico lo strumento attraverso cui cogliere i cambiamenti: il linguaggio - dei testimoni, del corpo (la maschera), della folla, del leader – è prova, è testimonianza, ma può essere letto se lo si inserisce in un percorso di eventi che aiuti a coglierne il senso profondo. 

Marc Bloch
AC: Si percepisce nella sua prosa la necessità di un ritorno a un "fattore umano" nel mestiere di storico. Il richiamo a Marc Bloch è evidente, tuttavia potrebbe chiarire cosa significa davvero riportare il "fattore umano" dentro la ricerca storica? Da un punto di vista epistemologico e di metodo è qualcosa che può essere più facile a dirsi che a farsi...
MS: Lei ha colto benissimo quest’altro punto di sintonia con Silvio Lanaro. Per anni ho insegnato a Bologna Storia della Francia (nei primi anni del corso di laurea in storia si insegnava la storia dei singoli paesi europei, poi si passò a insegnare la storia d’Europa) e dunque la Francia tra le due guerre, il movimento operaio e figure come Marc Bloch e Simone Weil. Così Apologia della storia, La strana disfatta, La prima radice, erano testi di lettura quasi obbligatori per trasmettere il dramma degli anni Trenta e la permanenza di una cultura che non era solo antifascista, ma umanista e razionalista. Era un modo per contrapporre intellettualmente (e non ideologicamente) il filone della Dichiarazione dell’89 alla cultura dello stato fascista. Entrambi gli autori sono poi presenti – sempre per il loro richiamo all’uomo - nel capitolo su Amnistia e amnesia, cioè sulla guerra e sul come uscirne.

FB: Perché secondo lei questo periodo di transizione è stato oggetto di moltissimi studi storiografici negli ultimi 10-15 anni? Da Zunino a Liucci, da Focardi a Bistarelli, da Lanaro a La Rovere, da Luzzatto a Schwartz per citarne solo qualcuno.
MS: In realtà, come lei sa bene, questo periodo è stato oggetto di studi storici fin dall’immediato dopoguerra, ma con un focus diverso nei vari periodi: la resistenza, la RSI, la guerra civile (il libro di Claudio Pavone è un libro di storia di una guerra civile non solo tra corpi ma anche tra menti, spiriti, giudizi): ma è pur sempre una transizione, un passaggio. Quello che lei giustamente segnala per i decenni più vicini a noi è l’attenzione agli intellettuali, testimoni e protagonisti di quella transizione e per questo chiave di lettura della transizione. Credo che un ruolo importante come ‘segnalatori di incendio’ l’abbiano svolto i convegni organizzati per i decennali della resistenza) dagli istituti di cultura come la Fondazione Basso, il Gramsci, lo Sturzo (oltre che dagli istituti della resistenza), soprattutto negli anni ’90: è allora che viene meno, con la crisi dei partiti, anche la fiducia nella affermazione di una cultura diffusa e progressista. Mentre volgeva al termine il Novecento, si era davanti a un nuovo passaggio di cui non si conosceva (e non si conosce ancora...) l’esito. Per questo si tornò a riflettere su quegli anni interrogandosi se, quando e come il fascismo fosse stato mentalmente, ‘intellettualmente’ sconfitto.

FB. Secondo lei ci sono figure di quegli anni oggi ingiustamente dimenticate? Perché?
MS: Certamente molte altre figure, soprattutto di scrittori, meritano di essere ricordate, ma mi sembra che i nomi che cito siano già di per sé evocativi di altri che non cito, ma che si inseriscono in questo recupero. Consiglio a questo proposito una bella antologia di brani, Autoritratto italiano di Alfonso Berardinelli.

Ruggero Zangrandi
FB. Lei dedica un capitolo a una figura oggi poco ricordata ma la cui testimonianza ebbe un enorme impatto per la generazione del secondo dopoguerra, Ruggero Zangrandi. Ci può introdurre alla sua figura e dire perché a suo avviso è importante ancora oggi?
MS: Non so se sia importante ancora oggi. È certamente stato dimenticato, osteggiato, probabilmente frainteso. Ed è per questo che lo ritengo un po’ il simbolo di un passaggio non completamente compiuto (o forse impossibile da compiere) nell’immediato dopoguerra dal nostro paese. Zangrandi ha pagato duramente il suo essere stato da ragazzo il compagno di banco del figlio di Mussolini. Creò alla fine degli anni ’30 un gruppetto socialista di opposizione, fu incarcerato a Regina Coeli, ma nell’estate del ‘43, a differenza di altri prigionieri politici, non venne liberato e quindi fu portato dai tedeschi occupanti in Germania. Tornò due anni dopo, segnato per sempre da quella prigionia, si iscrisse al Pci, ma non incontrò, salvo pochi casi, veri amici in quel partito. Solo Togliatti lo difese, perché in fondo condivideva la battaglia che Zangrandi stava conducendo: cioè (oltre a testimoniare Il lungo viaggio attraverso il fascismo) quella di tentare di raccogliere l’adesione al Pci anche dei giovani che erano stati mandati da Mussolini a fare la guerra, senza conoscere nulla del fascismo e tanto meno dell’antifascismo (troppo lontano).

AC: E poi troviamo pagine molto belle su Nicola Chiaromonte. Quale lettura consiglierebbe a chi è non ha letto nulla di Chiaromonte?
MS: Nicola Chiaromonte è stato un grande intellettuale e un grande scrittore. Per questo ho voluto dedicare un suo testo politico-giornalistico inedito a Silvio Lanaro nel libro in suo onore (quello riprodotto in Passaggi). Di lui consiglierei la raccolta di saggi Credere e non credere. Ma si trovano quaderni di suoi scritti e saggi su di lui presso le edizioni Una Città di Forlì. Sempre da parte del gruppo di Una città è stata fondata la biblioteca Alfred Lewin, che ha il grande merito di aver messo in rete, a disposizione di noi lettori, un grande numero di opere e soprattutto riviste, legate a queste correnti intellettuali minoritarie nell’Italia degli anni ’50-‘60.

Giaime Pintor
FB: Una domanda sorta leggendo il libro: come si può fare storia intellettuale del Novecento in Italia in modo tale da aprire una conversazione con la più ampia storia intellettuale europea?
MS: Ma questa storia è già inserita nella storia intellettuale europea! Basta intenderci su che cosa sia la storia intellettuale europea. Pellizzi era un intellettuale europeo, non solo per la sua biografia (ha vissuto a Londra dal 1922 al ’39, insegnato letteratura italiana a University College - facendo allo stesso tempo propaganda fascista), ma anche per i temi che introduceva nel dibattito italiano, collaborava con le migliori riviste di cultura, di teatro. La svolta avvenne, per lui in senso fascista, e per molti altri giovani intellettuali in senso antifascista, circa nel ’38, con le leggi antiebraiche (del resto è a quella data che si avvia anche nel mondo cattolico, a partire dal pontefice, una presa di distanza dal fascismo). Così come lo era – intellettuale europeo -  Giaime Pintor che nell’estate del 43, prima di scegliere la resistenza rivede le note al Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, e corregge la sua traduzione delle poesie di Rilke da appassionato germanista quale era. Credo che siamo stati, come intellettuali, più provinciali noi negli anni ‘70… Detto questo l’Europa tra le due guerre era un luogo terribile per viverci e pensare (basta leggere i Diari di V. Klemperer, e il suo La Lingua del Terzo Reich).

FB. Secondo lei è ancora possibile una qualche religione della politica quali furono a modo loro, e completamente diverso (il che non implica di sicuro un'equivalenza) le grandi ideologie del Novecento come Fascismo e Comunismo?
MS: Temo purtroppo che siano sempre possibili forme di accecamento della ragione, anche se non necessariamente per la politica: compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di segnalarne i pericoli.

FB. Per finire una domanda apparentemente fuori tema, forse, ma che si collega al titolo del suo libro Passaggi: cosa pensa di Donald Trump? E di Angela Merkel?
MS: Ha ragione: il primo segna un vero passaggio su cui dovranno interrogarsi soprattutto (spero) gli storici americani del futuro, la seconda è storia nostra, europea, quella migliore, intendo e che spero sia destinata a durare (sono una convinta europeista).  

domenica 5 ottobre 2014

"La strana disfatta" di Marc Bloch torna in libreria

Quote #6

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

L'edizione Einaudi di questo libro importantissimo di Marc Bloch, introdotta da un saggio mirabile di Silvio Lanaro, era scomparsa dalla circolazione da un bel pezzo. Ci pensa l'editore Res Gestae a riproporre queste pagine dello storico medievale e degli Annales che fece la conoscenza di entrambe le guerre mondiali e le manda in libreria arricchite degli scritti della clandestinità degli anni 1942-1944 (pp. 214, euro 16). L'étrange défaite è la testimonianza sul 1940 francese, ovvero su quel frangente temporale in cui tutto salta o rischia di saltare e collassare definitivamente sotto l'onda d'urto dello schiacciasassi hitleriano: stato, nazione, paese. Patria. Dal basso all'alto e dall'alto al basso di nuovo. Sono pagine dove Bloch, di passaggio - lo scrivo giusto per portarvi un esempio dell'apertura dell'analisi - parla del successo dello scoutismo come chiaro sintomo di una carenza del sistema educativo nazionale. La testimonianza di Bloch è una delle più alte che la storia intellettuale del Ventesimo secolo abbia depositato, quella di uno studioso tra i più capaci che in un momento tra i più drammatici della storia del proprio paese ha saputo rovesciare in affetto e fraternità per i propri commilitoni e connazionali quella che fu l'atavica tipica diffidenza di tanti intellettuali verso altri uomini (pensiamo solo al fastidiosissimo piglio elitario e civilizzatore che certa sinistra italiana cresciuta come tanti di noi a suon di "Happy Days", "Il mio amico Arnold" e "I Jefferson" tuttora si porta dietro, senza aver trovato sondaggisti che le suggeriscano che è stato quasi sicuramente la sua più grande disgrazia elettorale). Pochi giorni fa qui si è scritto di Piero Calamandrei con riferimento alla scuola. Per tanti versi Calamandrei e Bloch sono due nomi che mi vien da accostare. Circa tre anni dopo Bloch, nel 1943, Piero Calamandrei, in una situazione tremenda e analoga ma in fondo meno grave e spappolata di quella francese, annotava queste parole nel suo diario: "Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un'allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all'operaio che passa in bicicletta: si può esprimere, senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo, la facezia che avvince spesso più di un'invettiva. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d'ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: 'Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!'". Ecco, la "patria" era scomparsa proprio durante il Fascismo che la eresse a parola passe-partout. E nel 1940 in Francia che cosa succede? La patria forse muore? E oggi in quale forma accogliamo una parola che a tanti suonerà dissonante come "patria"?

Torniamo allora a Marc Bloch e al passo scelto per oggi, un frangente in cui lo storico-testimone diventa acido nei confronti del proprio paese-patria, contro quell'indole e contro i propositi bucolici che a suo avviso hanno lasciato la Francia in uno stato di arretratezza economica e culturale a sprofondare in una "molle noncuranza". Meditiamo le sue parole, perché ancor oggi siamo prigionieri di tanti quotidiani miti bucolici che prendono varie forme e rischiano di spazzarci dopo averci fregato con il proverbiale prosciutto davanti agli occhi:

"E ciò che di noi è stato sconfitto, si abbia il coraggio di confessarlo, è appunto la nostra cara piccola città. Le sue giornate dal ritmo troppo fiacco, la lentezza dei suoi autobus, le amministrazioni sonnolente, le perdite di tempo moltiplicate ad ogni passo da una molle noncuranza, l'indolente pigrizia dei suoi caffè di guarnigione, le mene di una politica dal corto respiro, l'artigianato scarsamente redditizio, le biblioteche dagli scaffali vuoti, il gusto del già visto e la diffidenza nei confronti di ogni novità che possa turbare confortevoli e consolidate abitudini: ecco ciò che è stato travolto dalla sfrenata velocità, che il famoso "dinamismo" di una Germania dagli alveari ronzanti ci ha scagliato contro."

lunedì 24 giugno 2013

Patria. Ricordo di Silvio Lanaro

Era già da qualche giorno che riflettevo su una cosa: credo di non essere tra i fortunati che nella vita possano dire di aver incontrato un maestro. Certo, altre fortune e altre disavventure mi riguardano, ma non quella di poter usare serenamente l'espressione "il mio maestro". Mi dispiace. Poi stamattina mio fratello, appassionato lettore di cose di storia, mi ha mandato un messaggio: "Hai visto? Silvio Lanaro è morto". Questo accadere simultaneo dei miei pensieri e l'apprendere della notizia della morte di quello che è stato, in ambito universitario, il professore più importante, mi ha fatto riflettere e scrivere di getto queste righe. Perché Silvio Lanaro per me è stato quasi un maestro. Certo non si può dire che io sia stato allievo di Silvio Lanaro e nemmeno si può dire che lui sia stato mio maestro. Troppo breve e troppo unidirezionale è stata la nostra frequentazione, quantomeno de visu. Maestro e allievo si scelgono assieme, devono potersi chiamare per nome, in quel rapporto che proprio oggi, in burocratiche e cianotiche discussioni di didattica e tecnologie applicate alla didattica, andrebbe nuovamente riscoperto, senza la paura di sembrare "inattuali". Non sono contrario alla tecnologia applicata alla didattica (proprio ieri sera leggevo con interesse un articolo sul ruolo che possono rivestire i videogiochi nell'apprendimento scolastico). Tuttavia, credo sia sempre più urgente la riscoperta dell'importanza di chi ti insegna a pensare criticamente, una volta per tutte e una volta per sempre (e quindi continuamente), per comprendere fino in fondo l'importanza di tale rapporto, anche al di fuori dei dipartimenti di filosofia, dove il binomio maestro-allievo sembra ancora tenere, seppur in pose che spesso mi appaiono affettate (e con il proverbiale prosciutto affettato sugli occhi). Silvio Lanaro è stato, più semplicemente, mio professore di storia contemporanea nel corso di laurea in Scienze della comunicazione a Padova. Non posso scrivere "mio maestro", ma dico che mi sarebbe piaciuto averlo avuto come maestro (e quindi essere stato suo allievo), anche per la voce, la mimica, la prossemica, gli scatti e i baffi, per i sorrisi e le incazzature. Anche per il suo non detto. In fondo un maestro è anche questo: anima e corpo e tra questi una voce che trapassa.

Ricordo le sue lezioni ascoltate dai banchi scricchiolanti dell'aula N del Liviano. Correva l'anno accademico 1998-99, era già caldo (quindi credo fosse il secondo semestre). Aveva preparato un corso monografico intensissimo sugli intellettuali e la crisi degli anni Trenta. Un percorso ardito e ordito tra dati economici, letteratura, importanti libri di scienza sociale pubblicati in quegli anni. Percorreva le pagine di Keynes e Polanyi, Kelsen e Schmitt, Croce e Gentile, Koestler e Orwell, Céline e Hamsun, Gide e Malraux, Lederer e Adorno, i viaggi in Unione Sovietica dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cinema della Riefenstahl e quello di Loach, le opere e la riflessione di architetti "fascisti" oggi studiati in tutto il mondo come Marcello Piacentini: difficile non appassionarsi a un corso così sapientemente intelaiato e raccontato dalla sua voce microfonata. Un giorno disse, con quella sua immodestia deliziosa per la quale penso talvolta che mi sarebbe piaciuto averlo davvero come maestro, che avremmo dovuto girare molto in Europa per trovare lezioni belle come le sue. Non ne ho la controprova, ma mi sono fidato, quasi come si fida un allievo, come ci si fida di un maestro che racconta commosso che su quegli stessi banchi, il 9 novembre 1943, in tanti ascoltarono dal rettore Concetto Marchesi il discorso inaugurale dell'Anno Accademico 1943-44. La precisione statistica unita alla sua abilità linguistica (in questo sicuramente vicino all'amico Mario Isnenghi) trasformavano ogni lezione in attenzione, una forma di "educazione all'attenzione", per usare la formula efficace che Simone Weil vuole a definizione di "cultura". La storia non era mai disgiunta da una riflessione sul mestiere di storico. Erano belle pure le sue arrabbiature, se l'attenzione mancava, quando gli studenti iniziavano a far brusio e a preoccuparsi un po' troppo per orari di autobus o treni da prendere al volo.


Tutta la sua produzione è meritevole di attenzione, lettura e rilettura. Non spetta certo a me, ora, stabilire l'orografia della sua bibliografia, che tutta s'attesta ad altezze rimarchevoli. Penso ora al bellissimo saggio su L'idea di contemporaneo che chiude con una sorta di lectio magistralis il manuale Storia contemporanea Donzelli (un esperimento che rappresentò un modo nuovo di intendere la manualistica storica). Accanto ad opere ponderose come la cura del volume dedicato al Veneto per la Storia d'Italia. Le Regioni di Einaudi, alla più recente raccolta di saggi intitolata Retorica e politica uscita due anni fa per Donzelli, al fondamentale Nazione e lavoro (uno dei suoi libri più discussi) e al più volte ristampato Storia dell'Italia repubblicana, ritorno col pensiero ad alcuni suoi libri più brevi e altrettanto belli e azzardo l'ipotesi che in questi libri più brevi Lanaro esprimesse ancor meglio la sua statura di storico. Si prenda ad esempio L'italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), uscito nella collana "Nuovo Politecnico" di Einaudi, uno studio dove si abbraccia la grande capacità di sintesi, la crepuscolare (e perciò più acuta, dolorosa e intensa) abilità di far cozzare proficuamente il dato numerico con quello letterario, le statistiche nude e crude suonate come una partitura accanto all'analisi di un romanzo o ad un'opera di inventiva (ora mi ritornano alla mente le sue scorribande sull'opera di Vitaliano Brancati o la grande lettura dedicata al fenomeno Guareschi), per giungere a quel suo contributo di epistemologia storica intitolato Raccontare la storia. Ma per ricordare Silvio Lanaro oggi, vi lascio con il suo libro forse più breve ed enigmatico. Uscì nel 1996 per Marsilio con il titolo magnificamente inattuale, e forse genialmente surrettizio, di Patria. E quel titolo ovviamente non era né inattuale né surrettizio. Il sottotitolo: Circumnavigazione di un'idea controversa. Il periplo compiuto da Lanaro con quell'opera assai breve era notevole. E rilanciava nel dibattito la patria. E non mi riferisco alla generica idea di patria, bensì alla parola "patria". Mirabile fu la perlustrazione di una letteratura mai scandagliata in precedenza e relativa al caso francese. Proprio quel volume costituisce oggi uno dei più bei lasciti di un maestro così lontano dal conformismo giornalistico di tanti sedicenti storici; quelle tesi sulla non ancora possibile agonia della patria e, anzi, sul ruolo primario della patria a garanzia e protezione delle parabole umane suonano oggi ancor più chiare, nitide, proprio come la bellissima citazione di Piero Calamandrei che Lanaro isolò per chiudere quel libro. Forse Patria ora si può intendere come un estremo tentativo di salvare dalla pattumiera lessicografica della storia una parola che non ha affatto esaurito il proprio battito. Che io sappia, non sono molti gli storici che dobbiamo ringraziare per un simile gesto, in fondo così generoso e curativo dei malesseri europei e internazionali.

mercoledì 28 settembre 2011

Casticismo ovvero cultura e nazione in Miguel de Unamuno

Faceva bene Silvio Lanaro, negli insospettabili anni Novanta, periodo di europeismo convinto e forse un po' ingenuo, a tornare a parlare provocatoriamente di "patria" in quel bel libro del 1996 intitolato proprio Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa (Marsilio). Lanaro, e altri assieme lui (pensiamo a Ruggiero Romano e Ernesto Galli della Loggia), alimentarono un dibattito a tratti acceso attorno ai termini di stato, nazione, patria, per addentrarsi a discutere di argomenti importanti ed estremi come quello della morte della patria. Lanaro fu tra gli storici più attivi di quella stagione, almeno su questo fronte, e scrisse un'importante prefazione a Che cos'è una nazione? di Ernest Renan (Donzelli) e a quella fondamentale testimonianza sul 1940 francese di Marc Bloch, L'Étrange Défaite (La strana disfatta, Einaudi). Oggi che l'Europa è più che mai sotto i riflettori e che il continente, a livello mondiale, è vissuto come una miccia pronta ad innescare una catastrofe economica, quella stagione di entusiasmo pare svanita. Si torna a parlare sempre più intensamente di stati nazionali, del rilievo dei singoli casi, magari visti più come "untori" che come risorse, persino della fine della moneta unica. Probabilmente è stato un errore farsi trascinare dagli entusiasmi europeisti, a maggior ragione se notiamo che quell'Europa era forse un apparato di burocrazia e burocrati. Oggi in tanti si chiedono dove stia l'Europa, se non sia solo una serie di uffici pronti a dettare normative su materie che conoscono pure poco. Contestualmente sbagliavamo a dimenticarci  dell'importanza di un dibattito che affrontasse apertamente la questione degli stati nazionali alle soglie del terzo millennio e non tanto nei termini di quegli inevitabili contraccolpi localistici che la globalizzazione produce.

Tutto questo preambolo per dire che possiamo rallegrarci a vedere raccolti in volume i saggi di Miguel de Unamuno attorno ai temi di cultura e nazione. Il libro, che si intitola proprio Cultura e nazione (a cura di Enrico Lodi, Medusa Edizioni, pp. 142, euro 16), raccoglie quattro scritti apparsi sulla rivista madrilena "La España Moderna" nel 1895 e usciti sette anni più tardi in un volume recante un titolo che l'editore italiano non ha voluto riprendere: En torno al casticismo. Con "casticismo" Unamuno intendeva quella purezza e integrità morale alla quale la nazione è chiamata, soprattutto nei momenti di forti turbolenze e rapida decadenza. In queste turbolenze ora possiamo vederci gli scossoni del turbobiocapitalismo attuale e, naturalmente, alla lettera, la crisi che l'arretrata Spagna attraversava alla fine dell'Ottocento (ricordiamo il significato simbolico dell'anno 1898 per la Spagna, la fine delle colonie, la guerra ispano-americana e quel fondamentale gruppo che prese il nome di Generación del 98). Per questi aspetti un parellelismo con il saggio di Lanaro, almeno negli intenti, non è del tutto fuori luogo. Il termine "casticismo", espunto dalla traduzione del titolo, è tuttavia basilare per avvistare il sole del sistema di pensiero unamuniano. Unamuno cerca le invarianti pure (caste) dello spirito di una nazione e di un popolo. Si badi che il suo ragionamento scaccia da subito certe derive esiziali che, di lì a poco, il pensiero avrebbe poi percorso, soprattutto con riferimento ai concetti di popolo, razza o nazione. Unamuno è alla tesa ricerca della radice comune e di un universale umano e di un'integrità che non è etnica bensì etica. Qui l'unica purezza possibile, qui il casticismo. Il libro poi va ricordato per l'introduzione della distinzione dei concetti di historia e intrahistoria. La seconda è quella cosa che un quadro o una poesia saprebbero raccontare meglio di qualsiasi libro che solitamente si dedica alla prima, è l'urgenza del presente, un luogo di passaggio e confine, una terra (ancora) di nessuno dove è possibile che l'historia prenda un nuovo corso e che il dubbio diventi costruttore di senso. Inoltre è un libro noto per l'incitazione accorata alla Spagna, per l'invito ad uscire dalla sua malattia guardando all'Europa; si potrebbe infine aprire una parentesi su questo aspetto controverso della saggistica di Unamuno, visto che altrove, nel suo pensiero, pare sia la Spagna la soluzione ai mali d'Europa. In sostanza c'è una virtù anche nella regionalizzazione, chiamiamola anche "campanile" se vogliamo, ma soltanto se non si perde mai di vista una patria che è quella universale, integra. Sembrano parole facili, frutto di una fede incrollobile e invece sono le parole che possono nascere solo da un profondo culto del dubbio e da uno scatto in avanti del ragionamento filosofico. Anche la tradizione in Unamuno assume nuova luce, è necessariamente tradizione "elevata al presente" e mai rivolta al passato (quanti legami con Ortega y Gasset!).

Per finire lasciatemi spendere qualche riga sulla linea editoriale di Medusa Edizioni, una casa editrice che periodicamente propone testi importanti e ben curati. Un po' è strano - già altri l'avranno notato - constatare che la casa persiste nella sua quasi totale assenza nel web (esiste un dominio registrato, un catalogo PDF scaricabile ma non un sito vero e proprio). Ricordo di averlo cercato senza successo qualche anno fa. Oggi la situazione non è cambiata di molto, è quella che vedete anche voi. Un peccato, visto che la rete può diventare una risorsa per tutti. Ma se i libri che propone continuano ad essere questi, che valga la pena tenerci una Medusa quasi interamente fuori dal web?