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martedì 9 maggio 2017

Genesi e storia della «trilogia» di Andrea Zanzotto nel libro di Francesco Venturi. Una recensione di Eloisa Morra

La seguente recensione di Eloisa Morra al libro Genesi e storia della “trilogia” di Andrea Zanzotto di Francesco Venturi (Edizioni ETS, pp. 265, euro 26) è apparsa, in forma leggermente accorciata, nel numero di maggio 2017 de "L'indice dei libri del mese". Ringrazio l'autrice per aver concesso di riproporla qui. Nella recensione troverete il riferimento alla querelle Zanzotto-Fortini. Su questa e anche sul carteggio tra i due poeti sarebbe opportuno si tornasse quanto prima (per ora un volume di riferimento resta questo numero della rivista "L'ospite ingrato" con il contributo di Velio Abati).

A più di cinque anni dalla morte di Andrea Zanzotto (1921-2011) rimane ancora molto da chiarire sul modus operandi di un autore la cui difficile opera — da Dietro il paesaggio (’51) fino all’ultima raccolta, Conglomerati, pubblicata due anni prima della morte — ha spesso sfidato, superandoli, i confini del “poetabile”, ma ha anche dato adito a interpretazioni talvolta più attente ad allinearsi a questo o quel principio teorico che a confrontarsi con i testi. Imprescindibile viatico e chiave d’accesso all’ardua poesia del veneto restava finora il “Meridiano” delle Poesie e prose scelte (1999), che conteneva un commento a ogni singola poesia ad opera di Stefano Dal Bianco. Ma, precisava Dal Bianco in quella sede, «le strade sono ancora aperte e nessuno ha avuto l’ardire di mettere ordine nelle carte dell’autore».

Il libro di Francesco Venturi intraprende per la prima volta organicamente questa via con un’approfondita analisi filologica e critica dei manoscritti e carte autografe custoditi oggi al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Ne emerge il ritratto d’un autore che, oltre a rivelarsi tormentato correttore dei suoi testi (come già si poteva arguire da alcune dichiarazioni: «io non sono mai stato affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba»), vede il moltiplicarsi delle varianti e dei potenziali percorsi poetici da percorrere come «sensazione quasi persecutoria per colui che scrive»: «Nel mio modesto caso prevale una volontà, a un certo punto diventa impellente, di troncare: basta, stop, non si varia più, che il testo sia pure “meno” riuscito non importa».

L’importante studio di Venturi mostra per la prima volta “come Zanzotto lavorava”, mettendo in campo una critique génétique che si rivela alquanto efficace sia per la comprensione dei tortuosi sentieri dell’invenzione sia per illuminare il testo ultimo. Venturi focalizza l’attenzione sul frutto della piena maturità del poeta, la “trilogia” o “pseudo-trilogia” formata da tre raccolte molto dissimili per temi e stile — il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86) —, ma che Zanzotto dice composte nello stesso arco di tempo e definisce alquanto misteriosamente «tre rami non contigui di uno stesso stesso albero». La stessa dicitura di “trilogia” e “pseudo-trilogia” costituisce da sempre un enigma per i lettori di Zanzotto: come interpretare questa definizione? In che tempi e modi le tre raccolte si sono formate, e come si è sviluppato nell’arco di un decennio un ambizioso progetto che si indovina essere inizialmente unitario? Quali le segrete connessioni tra tre libri così diversi — l’uno sprofondamento nel bosco del Montello, l’altro salita a Nord verso le abbaglianti dolomiti, l’ultimo ritorno nei luoghi familiari di Pieve di Soligo?

Per rispondere al primo quesito Venturi rintraccia da un lato elementi che possano connettere (pur in maniera intermittente) le singole raccolte alle cantiche dantesche, dall’altro richiama l’immagine del ‘rizoma’ impiegata da Deleuze e Guattari nel ’76. Fornisce poi risposte precise e intelligenti interpretazioni critiche sulla modalità di formazione del corpus ricostruendo la cronologia interna delle liriche, operazione facilitata dalla puntigliosa abitudine di Zanzotto di apporre date precise sulle sue carte e sintetizzata efficacemente nel libro in numerose tavole. Impossibile dare conto di tutte le novità emerse da questa preziosa ricognizione dei segreti del laboratorio del poeta, ma Venturi arriva a mostrare la contiguità temporale tra gli ardui testi metafisici di Fosfeni, i manieristici sonetti del Galateo e le umili poesie in dialetto trevigiano di Idioma, e a individuare nel biennio 1976-77 il periodo di massimo fervore creativo per il poeta. Ci viene poi mostrato come testi notevoli della “trilogia” risalgano già a diversi anni prima e si riconnettano alle raccolte precedenti: è il caso di Rivolgersi agli ossari… del Galateo, camminata tra gli ossari della prima guerra mondiale, già scritta nel 1965 e strettamente connessa con La Beltà (1968); o della splendida Verso il 25 aprile di Idioma, che affronta il trauma della Resistenza e il senso di colpa per la rimozione della storia nelle prime raccolte ermetiche, risalente ai primi anni Settanta e originariamente destinata alla raccolta Pasque (‘73).

Ciò che emerge sono una miniera di dati inediti, indispensabili per i futuri studi e commenti ai singoli testi. Di particolare interesse risultano, oltre ai capitoli in cui vengono rintracciate le fonti filosofiche e poetiche che hanno alimentato la trilogia (Derrida e Heidegger da un lato, Rimbaud e Celan dall’altro), le sezioni sul rapporto con il cinema di Federico Fellini e sulla querelle con Fortini del ’75-’78. In generale, vengono delineati con maggior chiarezza i referenti dei componimenti – oggetti, luoghi e eventi reali –, spesso oscurati dal turbinio del significante della poesia zanzottiana, ma sempre sotterraneamente presenti. Alla base sta la convinzione della lucidità intellettuale di un acuto interprete del nostro tempo, la cui poesia è sempre sorretta da un strenua volontà di comunicazione. A chiarirlo è la poesia che dà il titolo a Idioma, Alto, altro linguaggio fuori Idioma?, attraverso cui Zanzotto rispondeva a suo modo alla questione del “grande stile e lirica moderna” posta nell’83 da Gian Luigi Beccaria: «Ma che m’interessa ormai degli idiomi? / Ma sì, invece, di qualche piccola poesia, che non vorrebbe saperne ma pur vive e muore in essi».


Eloisa Morra


domenica 26 luglio 2015

Dialogo con Gian Mario Villalta di Alberto Carollo

Le edizioni Saecula hanno pubblicato due libri appartenenti a una stessa serie con titoli e grafica sostanzialmente analoga. Uno è Dialogo con Enrico Palandri a cura di Alberto della Rovere e l'altro, di cui scrivo ora, è Dialogo con Gian Mario Villalta a cura di Alberto Carollo (pp. 104, euro 10). Si torna a parlare di nord-est o Triveneto o Venezie nella forma del dialogo e intervista. Il filo - ma l'immagine del filo è solo comoda e non regge più se si parla di memoria - è anche quello della memoria individuale e ciò che, in un frangente preciso del dialogo, è invocata come "responsabilità della memoria": in un breve passaggio, ad esempio, l'intervistato dimostra come siano i paladini della memoria e delle tradizioni i più grandi contraffattori di queste (penso di aver provato a dire qualcosa di analogo quando ho scritto in queste pagine contro la peste delle "rievocazioni storiche"). Villalta fra l'altro non è nuovo a ragionamenti del genere, visto che qualche anno fa per Mondadori pubblicò Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici. C'è stato un tempo in cui "nord-est" si trovò ad essere etichetta e tematizzazione giornalistica pressoché quotidiana. Ora tutto ciò è scemato e in questi giorni si scrive e si legge più facilmente di Europa, di tenuta o disfacimento di questa, e si dovrebbe parlare di un lento invisibile massacro politicamente corretto degli europei fra di loro, che sotto diverse spoglie - o sotto spogli elettorali ormai esangui - sta perfezionando i massacri degli scorsi secoli. Questo non significa che sia un momento meno opportuno per parlare di queste aree e del mutamento degli ultimi cinque decenni, dei mutati cicli di lavoro e comunicazione, e da qui allargare lo sguardo e l'interpretazione. E sia detto che nelle risposte lavoro-produzione-comunicazione sono inquadrati assieme e non più in modo disgiunto: non è un fatto e un'osservazione secondaria, bensì un punto di partenza spesso dimenticato per qualsiasi ragionamento sensato che si voglia provare a fare.

Naturalmente in questo libro, completato dalle interviste a Stefano Dal Bianco e Alberto Garlini, c'è molto spazio per parlare di formazione personale, dell'infanzia e adolescenza nella campagna friulana, di letteratura o anche di premi e manifestazioni letterarie e quindi del libro, oggetto mallarmeanamente progettato affinché il mondo gli precipitasse dentro, tra le pagine, e tuttavia ora non più centrale e imprescindibile nelle trasformazioni che tutti viviamo. In questo punto si accenna naturalmente alla grande mutazione portata dalle nuove tecnologie le quali, pur rapidissime nella loro propagazione, hanno avviato in un certo qual modo una grande ma lentissima trasformazione, della quale non si vede più chiaramente un principio e non si vedrà tantomeno una fine (forse ci avvicineremo a quella che nel linguaggio delle tecnologie definiamo solitamente come "fase matura"?). Chissà se questa lenta ed estenuante trasformazione fosse stata invece più decisa, quasi una mazzata, non ci trascineremmo in certe paludi o crisi che conosciamo da tempo (questo pensiero nel dialogo investe in maggior misura i ragionamenti attorno all'editoria) o se queste supposizioni sono solo il frutto di una proiezione di una fretta. La trasformazione è comunque tale, onnipresente, e a volte viene il dubbio che i nostri mondi che descriviamo travolti dall'accelerazione, in realtà ci stordiscano pure nella loro esagerata e distratta fissità. Anche dal punto di vista della scrittura, poetica narrativa o saggistica che sia, questo dialogo mostra il non risolto della questione del contemporaneo e le molte balle che ci è piaciuto raccontarci sinora. Leggendo mi tornava in mente anche una sorta di polemica a distanza tra Covacich (il cui sodalizio è più volte citato nelle risposte di Villalta) e Goffredo Fofi, risalente ormai a diversi anni fa, nel quale lo scrittore triestino dissentiva dal critico che propugnava una maggior vitalità creativa degli scrittori del sud, a suo modo di vedere più sollecitati dai problemi veri e cocenti di quelle aree d'Italia. Questa sorta di "determinismo geografico" di Fofi oggi come ieri è incomprensibile: siamo tutti più simili e per questo dobbiamo anche prestare molta attenzione al nostro sistema di credenze e ai nostri immaginari, a come si creano, a come si consolidano e a come si infrangono nel tempo e tra gli spazi del contemporaneo.

In questo dialogo si parla naturalmente anche di cultura e non potrebbe essere altrimenti, visto l'impegno che da anni vede Villalta alla direzione artistica di pordenonelegge, il festival letterario italiano di maggior successo. Come tutte le manifestazioni che funzionano - e qui qualcuno, compreso l'intervistato, ci vedrebbe bene un gesto apotropaico - pordenonelegge ha attirato e continua ad attirare un pubblico cospicuo ma anche critiche e a generare dispiaceri. Mi domando se così fosse anche per Mantova, quando questa deteneva il primato indiscusso tra i festival letterari e mi sento di prendere una posizione di difesa, per quel che può valere e per quanto possa capire che alcuni miei connazionali siano attratti da un masochismo guidato spesso da una superbia solipsistica: credo infatti che pordenonelegge rappresenti non solo un'opportunità di accrescimento e di ascolto bell'e buona, sia per una città in senso lato sia per chi la frequenta in quei giorni, tanto ricca è l'offerta e tante le opportunità di ascoltare autori importanti senza spendere nulla per gli incontri, ma anche un esempio abbastanza singolare di rilancio. Anche tra i tanti amici poeti, tutti quelli che hanno criticato il censimento poetico fatto da pordenonelegge secondo me hanno dimenticato tre elementi fondamentali: 1) quel censimento può favorire (per quel che mi riguarda ha favorito) la conoscenza e il contatto tra chi pratica la scrittura poetica in Italia; 2) ha contribuito a una descrizione meno impressionistica del panorama basata sulle solite lamentele che siamo in troppi a scrivere e pochissimi a leggere; 3) è qualcosa, un punto di partenza, finanche una banale ma utile "rubrica telefonica". Nel dialogo tra Carollo e Villalta allora non si leggono prese di posizione figlie di una concezione statica e "ministeriale" della cultura come potrebbe essere il parlare solo di "cultura come diritto" o "cultura come privilegio", perché la cultura è già parte fondativa di un sistema sociale, economico e di pensiero, quando questo c'è davvero e dà segni di vita. Se si parla troppo a vanvera di cultura significa che è venuto a mancare quel sistema economico e di pensiero e con esso la sua cultura. Trasformare la cultura in un alibi, in una scusa o peggio ancora in un tema di dibattito fiacco è un peccato mortale. E soffermarsi a parlare solo in termini di diritto o privilegio della cultura denuncerebbe una visione vecchia e stantia della cultura stessa, legata a parametri per lo più nozionistici, didascalici e assai statici.

Nel dialogo non manca infine un'incursione nel territorio infido, a tratti forse tossico (nel senso della dipendenza), dei social media. La posizione non è da apocalittico e nemmeno da integrato. Ben si comprende che di questi non ne facciamo e non ne faremo a meno. Quel che è semmai denunciato è ricollegabile alla superbia solipsistica di cui si scriveva poco fa, all'assenza di un dialogo, ad un'interazione che rischia ad ogni curvatura del pensiero di diventare fasulla, risolta - ma in fondo drammaticamente irrisolta - nell'irrazionalità calcolata di un like

Quasi a compendio di quanto ripreso sin qui, ricordo un passaggio racchiuso in quel bel libro di racconti ormai introvabile che segnò l'esordio narrativo di Villalta, Un dolore riconoscente, dove si leggeva questo:

"La vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla.
La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente. Io mi aspetto che un giorno penserò a me stesso di questi anni nel modo in cui adesso penso a mio nonno e ai miei genitori, come qualcuno che era quello che diceva e vedeva ogni giorno, qualcuno che era tutto in quelle parole e in quegli sguardi.
Eppure questo film già finito crescerà insieme a me, questi prati che sembrano fatti per seguire la curva degli occhi, questi cieli pieni di nuvole non andranno più via. Diventeranno un peso che io sarò costretto a portare dentro di me, un altro me stesso che non smetterà di restare nel suo mondo, che porterò dentro di me insieme con un mondo ormai morto, e sarò veramente come i miei nonni e i miei genitori, ma più nessuno avrà ricordi così puri. Nessuno avrà più avuto così poco, nessuno avrà avuto abbastanza spazio, silenzio, vuoto dentro di sé come loro."


Il prezzo in copertina di quel libro di racconti era ancora in lire. Credo che, in nuce, le riflessioni che abbiamo letto in Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici o che possiamo leggere in questo Dialogo fossero tutte già in queste righe. Resta da capire, tra le altre cose, anche questo: se il mondo non è più fatto per finire in un bel libro dove diavolo può finire ora? Temo che sia fin troppo facile rispondere o pensare che possa finire nello schermo che avete davanti, grande o piccolo che sia. Io non sono del tutto convinto che questa sia la risposta esatta e definitiva, non la accendo e soprattutto non mi piace.

lunedì 25 novembre 2013

"dirti Zanzotto", il libro curato da Niva Lorenzini e Francesco Carbognin presentato a Bologna il 27 novembre


mercoledì 27 novembre 2013, ore 17.00
Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio 

(Sala Stabat Mater)

ZANZOTTO E BOLOGNA

presentazione del volume:
dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011)
a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin
Nuova Editrice Magenta 2013

intervengono:
Marzio Breda, Francesco Carbognin, Luciano Cecchinel
Niva Lorenzini, John Welle

Il volume che verrà presentato mercoledì 27 alla Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio a Bologna rappresenta senza dubbio una delle più interessanti proposte editoriali sorte attorno a Zanzotto (e, in fondo, ancora, di Zanzotto), nei mesi immediatamente successivi al secondo anniversario della scomparsa. Già ho dato notizie di Luoghi e paesaggi, curato da Matteo Giancotti e pubblicato da Bompiani il mese scorso. Questo dirti dirti «Zanzotto». Zanzotto e Bologna (1983-2011) (a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin, Nuova Editrice Magenta, pp. 185, euro 20) dice chiaramente, sin da quel sottotitolo, del bel rapporto che si creò tra l'"inbulonà" di Pieve di Soligo e la città felsinea, un segno visibile, finalmente, che la leggenda che lo voleva appunto imbullonato ("lontan massa son ’ndat pur stando qua / invidà, inbulonà deventà squasi un zhóch de pionbo") alla sua Pieve è appunto un po' troppo leggenda e andrebbe almeno in parte rivista. Ad esempio un'altra città molto importante dove Zanzotto fu spesso accolto è Torino, dove lo attendevano Gian Luigi Beccaria e Carlo Ossola. Tuttavia non è una geografia di città che ci interessa ora, bensì iniziare a sciogliere certe leggende che contribuiscono a cristallizzare percezioni non feconde (e questa è soltanto una).

Il modo migliore per dare notizia di un libro simile è andare, passo passo, al suo interno. Troverete interventi in buona parte inediti, ricavati anche da un paziente lavoro di sboninatura (che magnifico verbo "sbobinare", anche se a molti non evocherà bei ricordi!) e gli atti del convegno intitolato proprio come il libro in questione, svoltosi a Bologna nel novembre del 2011. L'arco temporale è piuttosto ampio. Si va dal 1983, anno di Fosfeni, periodo nel quale Zanzotto curiosamente iniziava ad allenarsi (defaticarsi?) con degli haiku anglo-italiani (oggi leggibili in Haiku for a season e sicuramente importanti per la resa di libri di molti anni successivi come Meteo) all'anno della scomparsa del poeta. Del 2004 è il conferimento della laurea honoris causa nell'ateneo bolognese. Il primo blocco del volume è quindi un percorso di autoesegesi che parte da un contributo del poeta su Fosfeni, passa per lo scritto Poesia e percezione del 1989 e arriva alla lezione dottorale tenuta da Zanzotto nel 2004. Il denominatore comune è proprio la presenza di Zanzotto a Bologna in queste occasioni, una città dove sembra tornare volentieri a dire cose sempre nuove.


Il secondo blocco di contributi si rifà al convegno che si svolse a Bologna il 24 novembre 2011, vale a dire poco più di un mese dopo la morte del poeta. Vi troviamo il contributo di Stefano Dal Bianco intitolato eloquentemente "La religio di Zanzotto tra scienza e poesia", quello di uno dei curatori del volume, Francesco Carbognin, "La grammatica del «Vero»", che salda in modo originale le ultime opere del poeta ai libri più consolidati e più abbondanti di bibliografia, lo scritto di Maria Antonietta Grignani che saluta l'arrivo delle "carte" zanzottiane acquisite dal "Centro manoscritti" dell'ateneo di Pavia e infine un contributo di Philippe Di Meo, tra i principali traduttori di Zanzotto, su "Gli articoli di G.M.O.", la poesia d'apertura di Idioma.


La terza e ultima parte del libro ne costituisce l'appendice e presenta interviste e dialoghi compresi tra il 2001 e il 2009. L'aspetto occasionale di certi scritti nati parlati, unito ad una certa libertà di fondo che li fa muovere, trasforma anche l'appendice intera in un bacino dove è possibile continuare a scavare, a raccogliere e studiare la lingua, le letture, i traumi e le impennate del pensiero del poeta del secondo Novecento che in qualche modo tutti (almeno quei "tutti" che hanno a cuore la poesia) debbono continuare ad attraversare. I tre blocchi che vi ho brevemente descritto trasformano questo volume pubblicato da Nuova Editoriale Magenta in un tassello significativo per tutti coloro che puntano a raccogliere una seppur minima ma efficace bibliografia attorno ad Andrea Zanzotto.


COLLOQUIO

"Ora il sereno è ritornato le campane suonano per il vespero ed io le ascolto con grande dolcezza. Gli ucelli cantano festosi nel cielo perché? Tra poco e primavera i prati meteranno il suo manto verde, ed io come un fiore appassito guardo tutte queste meraviglie." 
SCRITTO SU UN MURO IN CAMPAGNA 

Per il deluso autunno, 
per gli scolorenti 
boschi vado apparendo, per la calma 
profusa, lungi dal lavoro 
e dal sudato male. 
Teneramente 
sento la dalia e il crisantemo 
fruttificanti ovunque sulle spalle 
del muschio, sul palpito sommerso 
d'acque deboli e dolci. 
Improbabile esistere di ora 
in ora allinea me e le siepi 
all'ultimo tremore 
della diletta luna, 
vocali foglie emana 
l'intimo lume della valle. E tu 
in un marzo perpetuo le campane 
dei Vesperi, la meraviglia 
delle gemme e dei selvosi uccelli 
e del languore, nel ripido muro 
nella strofe scalfita ansimando m'accenni; 
nel muro aperto da piogge e da vermi 
il fortunato marzo 
mi spieghi tu con umili 
lontanissimi errori, a me nel vivo 
d'ottobre altrimenti annientato 
ad altri affanni attento. 

Sola sarai, calce sfinita e segno, 
sola sarai fin che duri il letargo 
o s'ecciti la vita. 

Io come un fiore appassito 
guardo tutte queste meraviglie 

E marzo quasi verde quasi 
meriggio acceso di domenica 
marzo senza misteri 

inebetì nel muro. 



(da Vocativo, 1957)

sabato 27 luglio 2013

Per i sei libri finalisti del Premio Castello di Villalta Poesia

Il testo che segue è stato pubblicato sul sito del premio di poesia "Castello di Villalta". Il 28 luglio si tiene nella cornice del castello la presentazione dei tre finalisti (questo il programma della giornata). Sono Stefano Dal Bianco con Prove di libertà (Mondadori), Enrico Testa con Ablativo (Einaudi) e Franca Mancinelli con Pasta madre (Aragno). Sono tre libri dei quali, tra l'altro, ho già scritto su queste pagine. La rosa di tre finalisti è nata a partire da una rosa di sei che prevedeva anche i libri I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi), Città alla fine del mondo di Tiziano Broggiato (Jaca Book) e Quando avrò tempo di Anna Maria Carpi (Transeuropa). Il sito internet del premio si trova a questo indirizzo e ospita molti interventi e recensioni (costituisce uno dei più vivaci esempi di blog-sito internet dedicato a un premio di poesia). Quattro libri su sei hanno già trovato spazio su queste pagine dedicate ai libri brevi. E pure gli altri due meritano attenzione. Anzi... uno dei due libri che non recensito è... no, non vi anticipo nulla.

Mi è stato chiesto un commento sui sei finalisti del Premio di poesia “Castello di Villalta”. Ringrazio la giuria per fidarsi del parere di uno che talvolta scrive come un ubriacone. E non è sempre vero che in vino veritas
Faccio allora un esperimento mentale e mi immagino un appassionato lettore di poesia che tra duecentosettantatre anni si troverà a frugare negli archivi del premio (o del castello) per capire cosa si scriveva e cosa veniva premiato attorno all’anno 2013 in una certa area d’Italia. Credo che questo curioso, che per comodità chiameremo il signor Castello, ne ricaverebbe uno spaccato abbastanza significativo, uno spaccato utile per ripartire con altre ricerche; troverebbe insomma sei buoni (se non ottimi) libri. Evidenzio la parola “libri” perché tornerà utile alla fine di questo intervento. Dico questo perché sono convinto – e lo evidenzio già nelle prime battute - che alla fine i sei titoli usciti dalla giuria rappresentino una valida rosa per incominciare a parlare della scrittura poetica in lingua italiana in quel frangente di tempo previsto dal regolamento del premio. Insomma, sono anche ottimi pre-testi. Poi, si sa, è probabile che il miglior libro della stagione sia rimasto fuori perché banalmente pubblicato un mese prima o un mese dopo i termini previsti dal regolamento. La domanda che noi potremmo farci suona circa così: quali di queste forme racchiuse in questi sei libri risplenderà ancora tra duecentosettantatre anni? Quali temi faranno vibrare i nervi nel signor Castello? La risposta è ovviamente sconosciuta ed è meglio così.
Ma torniamo al signor Castello. Potrebbe accadere che il nostro signor Castello osservi i primi esiti della giuria incrociando una misteriosa, ricorrente ed esoterica espressione che ha intercettato sui giornali del tempo: “quote rosa”. (Il nostro signor Castello ha ancora l’inspiegabile vizio della ricerca in archivi/ripostigli del passato e in questo è un tipo solitario.) E poniamo che si interroghi sulla casualità/intenzionalità della presenza di 3 voci maschili e 3 voci femminili. Stacco e ritorno in me. Io mi auguro che questa parità sia casuale (e ne sono in fondo abbastanza certo), anche perché voglio sperare che alla prossima edizione del premio, se opportuno, ci saranno sei voci femminili in finale e a quella successiva, se opportuno, 5 voci maschili e una soltanto femminile. Insomma, giocate come volete coi numeri, basta che la somma dia sempre 6 e basta che non cambi il regolamento. Un premio è un gioco con una giuria, come una gara di ginnastica o tuffi, e il bello è anche questo. A volte vince il gesto (libro) migliore, non il migliore poeta. A volte neanche quello. In fondo un certo spirito agonistico non è mai mancato alla storia delle poesie. Ma se gara c’è, qui non si separa la competizione per genere, uomini e donne competono assieme. L’agonismo rimane, a maggior ragione in un ambiente distratto dove si sgomita (e per giunta, talvolta, dopato) come quello della poesia e della sua lettura/circolazione.
In poesia, ho sempre dato qualche chance in più all’anagrafe dell’età rispetto a quella del genere (su binari simili mi pare scorra la ratio sottostante all’inedita composizione della giuria del premio, con componenti senior e junior). Distinguere, fino a farne quasi un baluardo critico, tra poesia maschile o femminile ha per me quasi lo stesso valore della distinzione tra la poesia di poeti biondi e mori. Parlatemi piuttosto di poeti pronatori e poeti supinatori, ditemi come appoggiano il piede e quali parte della suola delle scarpe consumano per prima. Esiste la poesia, quando e dove esiste. Stop. Il dato biografico e di genere ha valore fino a un certo punto. Ci interessano le opere.
Mi è stato chiesto di essere breve e allora concluderò il mio intervento con qualche frase legata a ciascuno di questi libri, alle opere appunto. Di quasi tutti questi titoli ho già parlato sin troppo diffusamente nel blog Librobreve. Provo a farlo però con le parole/appunti del signor Castello nell’anno 2286. Ecco le sue brevissime schede di lettura:

Ablativo: “Ora vivo all’ablativo” scrive l’autore. Ed è un pensiero molto intrigante, anche oggi che la lingua latina è in pieno “revival”. Che cosa significa “vivere all’ablativo”? La risposta pare contenuta in queste poesie lessicalmente lontane dagli altri cinque autori del “gruppo”.
Città alla fine del mondo: Questo partecipante e finalista ha scritto un libro dal titolo curioso. Parla di Parigi, Milano, Londra, o di cime dell’Alto-Adige ma forse i suoi testi più memorabili sono quelli dove scrive di sale d’aspetto e camere d’albergo. Strano quel suo riferirsi a un certo Celan (Paul Antschel), poeta che deve essere stato un tempo molto noto e apprezzato e di cui da un po’ di tempo mi pare si parli un po’ meno…
I padri: quest’autrice, la più giovane del sestetto, parla di tantissimi padri e pochissime madri. Suppongo che all’epoca sarà parso un ragionamento abbastanza controcorrente. Non lo so, è una sensazione. Ma oggi sento regolarmente tante persone enumerare serenamente “tanti padri e tante madri” (come nella canzone La comune di Giorgio Gaber, colonna sonora di un recente spot di vacanze). La prefatrice, che è nella rosa dei sei finalisti, parla di epoca transgender. Credo ci avessero visto e sentito bene entrambe. Un libro di una sicurezza abbagliante. Ho amato però tanti poeti insicuri, impauriti e tentennanti.
Pasta madre: è interessante questo libro dove certi fermo-immagine della poesia dell’Ottocento e Novecento diventano fermo-immagine meno lirici, meno “congelati”, più con il senso di un’immagine mossa. Il prefatore, Milo De Angelis, poeta di cui regolarmente leggiamo ancora testi nelle antologie, dev’esser stato una lettura decisiva per Franca Mancinelli. Si dà in queste pagine un senso di inevitabile pressione della vita, come se contenuto e forma avessero trovato, per qualche rapido istante, un loro accordo. Per parafrasare un poeta quasi coevo che amiamo molto oggi, Clemente Rèbora, qui si ha la sensazione di una cosa detta “ove l’uomo e la vita si intendono ancora”, anche se non senza dolore.
Prove di libertà: gran bel libro, il mio preferito. Si legge molto bene ed è un libro che si accompagna bene dal principio alla fine (caratteristica che forse manca ad altri volumi). Deve esser nato dopo carotaggi e ragionamenti linguistici e metrici. Anima curiosa questo Dal Bianco, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.
Quando avrò tempo: mi ha mosso subito il titolo di questo libro del febbraio 2013, la persona nata prima in questo gruppo di poeti (nel 1939). Questo è il libro che probabilmente restituisce più vita tra tutti quelli letti ed è stata una lettura significativa per questo. Si legge benissimo anche oggi, anche se è profondamente diverso dal libro di Dal Bianco. Questo è un libro che ti lascia il desiderio di andare a leggere tutto il resto pubblicato dall’autrice.

Se siete giunti sino a qui significa che siete stati pazienti verso l’espediente del signor Castello, un signore allampanato, sudato e col diabete mellito. Chiedo scusa per l’esperimento mentale, soprattutto al signor Castello, abitante del mondo nel 2286, per la presunzione di scrivere pensando con la sua testa. Forse avrei dovuto fare un esperimento mentale proiettandomi in un abitante della Corea del Nord di oggi? Chissà. Chiudo con me, e non posso/non potevo fare diversamente. Se fossi da solo in giuria e dovessi scegliere in questo sestetto di finalisti ricorrerei (vilmente?) all’espediente dell’ex-aequo tra le due giovani autrici Rusconi e Mancinelli. Farei questa scelta nell’ottica di isolare un libro particolarmente significativo di una stagione breve, concentrata nel tempo, un libro forse incompleto ma luminoso, un fiore sbocciato all’improvviso o una supernova. Un volo di farfalla. Premierei l’effetto sorpresa, dunque. La promessa. E questo non significa che ritengo I padri o Pasta madre superiori a Prove di libertà o Ablativo. Se però l’ex-aequo non fosse contemplato dal regolamento della giuria (e sotto sotto so che me lo augurerei), farei un’operazione leggermente forzata e premierei nel libro di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, tutti i libri che questa grande autrice ci ha regalato sino a qui, pieni di cose importanti, a partire dal meraviglioso A morte Talleyrand uscito vent’anni fa (libro splendido al quale si torna di rado, purtroppo). Lo so che probabilmente, così facendo, traviserei il senso del premio che è quello di premiare un libro, e so anche che la mia scelta assomiglierebbe da vicino al classico “premio alla carriera”. Ma non di premio alla carriera si tratterebbe, bensì di un semplice premio ai libri attraverso un libro: per come la vedo io (e anche per come la vede il signor Castello) non esistono carriere in poesia.

(Solo un appunto per la giuria, nella fase preparatoria del premio: non guasterebbe un’attenzione maggiore per quel che avviene nella cosiddetta “Svizzera italiana”, a meno che lo statuto non lo vieti.)

giovedì 18 luglio 2013

"L'importanza di essere piccoli", III edizione: dal 4 al 9 agosto nei borghi, nei boschi, nelle valli dell'Appennino bolognese

"Il mondo è delicato / il mondo è una pallina che s'increpa / teniamolo leggero / teniamolo sulla punta delle dita." Sono le parole di Nino Pedretti che l'associazione Sassi scritti ha scelto per proteggere questa terza edizione della rassegna intitolata "L'importanza di essere piccoli". Ricevo da Azzurra D'Agostino e pubblico con grande slancio: poesia e musica nei borghi dell'Appennino bolognese. Una rassegna di grande richiamo, sia per l'ideazione che per le voci invitate. Prove di libertà di Stefano Dal Bianco, Quando avrò tempo di Anna Maria Carpi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso di Ida Travi, Salva con nome di Antonella Anedda e il trentennale dei Millimetri di Milo De Angelis (recentemente riproposti da Il Saggiatore nella collana "Le Silerchie") costituiscono cinque ottime ragioni, incartate in cinque importanti e recenti libri di poesia, per calarvi in questi luoghi ad ascoltare...


comunicato stampa

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – III edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino bolognese
 dal 4 al 9 agosto 2013

Ritorna ad agosto la rassegna di musica d'autore e poesia  che mappa e custodisce poeticamente
l'appennino tosco- emiliano
con
MILO DE ANGELIS, ANTONELLA ANEDDA, UMBERTO MARIA GIARDINI, COLAPESCE, CESARE BASILE e molti altri

La rassegna “l'importanza di essere piccoli giunta alla sua terza edizione (4-9 agosto), organizzata dall'associazione SassiScritti di Porretta Terme (Bo) con la direzione artistica di Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli, realizzata con il contributo di Arci Bologna, Regione Emilia Romagna, Fondazione del Monte e Provincia di Bologna Distretti Culturali, ha avuto nell'ultimo anno un sensibile incremento dei Comuni che aderiscono al progetto. Ad arricchire “la geografia poetica” dei luoghi che accoglieranno gli incontri e i concerti si sono aggiunti il comune di Vergato e il suo pittoresco Suzzano, Grizzana Morandi con La Scola, il Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone con il Poranceto, un bosco di alberi secolari, e Granaglione con il parco fluviale di di Molino del Pallone.
Il fiorire di nuove adesioni è un dato positivo se si considera che alla base della rassegna c'è lo spirito di condivisione, valore che l'inverno scorso ha permesso all'associazione SassiScritti di essere selezionata al premio nazionale cheFare (ww.che-fare.com) con il progetto “Custodi”.
A emblema infatti di questi giorni sono stati scelti i versi di Nino Pedretti che esprimono e racchiudono l'idea di cura e custodia, parole che accompagnano l'immagine di una goccia, un filo di ragnatela e di una foglia:  esempi di fragilità e tenacia, di precarietà e di resistenza. Dettagli del mondo tanto piccoli quanto preziosi  come le parole e le note, come quegli spazi del mondo e della persona che sono da proteggere.
Manuela Dago, Franca Mancinelli, Francesca Matteoni, Marco Simonelli con Bart La Falaise e Federico Frascarelli (sei giovani artisti per un'anteprima che sia uno spazio per le voci nuove), Colapesce  e Stefano Dal Bianco, Anna Maria Carpi e Giangrande, Cesare Basile e Ida Travi, Pino Marino e Antonella Anedda, Umberto Maria Giardini e Milo De Angelis si incontreranno per la prima volta in questi giorni, il cantautore ascolterà il poeta e viceversa, incontri e scambi preziosi che trasfigureranno ed esalteranno  gli scorci più belli e sconosciuti dell'Appennino. Il borgo de La Scola arroccato attorno alle sue torri e ai suoi due oratori risalenti al 1300;  il Poranceto - un fiabesco bosco di castagni secolari; il parco fluviale del greto del Reno che solca la valle del Molino del Pallone; gli ampi panorami che abbracciano Suzzano; la bellezza domestica di Massovrana di Badi e  la dolcezza dei declivi di Capugnano.  I luoghi che “daranno asilo” alla rassegna sono i protagonisti, come gli artisti e i loro abitanti, di un evento che accade una volta all'anno ma che porta con sé il lavoro dei mesi precedenti, fatto di incontri, di laboratori, di pensieri condivisi davanti al fuoco, la lenta e paziente creazione di una comunità sensibile all'incontro con “lo straniero”, un appuntamento vissuto gioiosamente dagli abitanti stessi che accolgono i visitatori in un vero e proprio “ricevimento” culturale aperto a tutti. I buffet con prodotti locali saranno infatti preparati dalle pro loco, dalle associazioni culturali, o da semplici cittadini e cittadine che desiderano contribuire alla realizzazione della manifestazione. Infine, ma non meno importante, è la gratuità della rassegna che ribadisce il valore imprescindibile della cultura - da considerarsi come qualcosa che deve essere pubblico, diritto e possibilità a cui tutti sono invitati.

PROGRAMMA
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si svolgono a partire dalle ore 21:00

L'anteprima della rassegna, che vuole essere un momento dedicato all'incontro con artisti emergenti o addirittura esordienti, si terrà Domenica 4 agosto nel bel clima domestico del borgo di Massovrana (Badi/Castel di Casio) un abbraccio di casette appena sopra il Lago di Suviana che faranno da palco al live acustico del cantautore olandese Bart la Falaise che, accompagnato da un altro musicista, interpreterà canzoni inedite e cover con una voce limpidissima e delicata. Federico Frascarelli, un altro giovane cantautore, presenterà alcuni brani chitarra e voce dal suo Mi manda 2 righe. Nel corso della serata si terranno letture corali, improvvisate, folli e iridescenti di 4 poeti underground molto diversi tra loro ma uniti da una vena poetica che lascerà sicuramente stupiti gli spettatori. La voce delicata ma salda di Franca Mancinelli; il tono agrodolce venato di un'amara ironia che canta la vita la morte il sesso nel nostro tempo di Marco Simonelli; le spirali di senso e suono che come linfa di pianta innervano i versi di Francesca Matteoni; la freschezza e i brevi lampi che raccontano per immagini di Manuela Dago una delle fondatrici di Sartoria Utopia, 'capanna editrice' di libri di poesia cuciti a mano.

Lunedì 5 agosto inizia ufficialmente la rassegna che si sposta nel Comune di Granaglione a Molino del Pallone e più precisamente nel “parco fluviale” che si estende lungo la riva del fiume Reno, bonificata dagli abitanti del paese e gestita dalla Proloco del Molino.
Acqua che chiama acqua perché uno degli ospiti del parco sarà il cantautore siciliano Colapesce (Lorenzo Urciullo, nel 2010 lancia il progetto solista Colapesce in riferimento alla leggenda siciliana di Colapesce, il ragazzo “pesce” che amava stare nel mare a tal punto da non riemergerne più) che con l'album Un meraviglioso declino si è aggiudicato la “Targa Tenco 2012”  come "migliore opera prima" e il premio “Fuori dal Mucchio” (assegnato dal mensile Il Mucchio Selvaggio) per il "Miglior esordio". E se Colapesce suonerà dal vivo facendo riemergere quel “meraviglioso declino” che accompagna la vita comune corrosa dalla crisi ma che allo stesso tempo fa riscoprire quelle piccole cose che fanno “sognare ancora”, al poeta senese Stefano Dal Bianco è affidata la parola che “conferma l'inquietudine profonda del suo rapporto con l'esistere e la sua ansia di libertà in un mondo di anime costrette". Scandita in sette parti, come le sette note della scala musicale, la nuova opera di Dal Bianco Prove di Libertà (ed. Mondadori) esplora le contraddizioni del sentimento e del pensiero, l'antinomia tra spinta alla consapevolezza e levità di una più naturale adesione alla vita.

Dal fiume e dai “meravigliosi declini poetici” della prima serata la rassegna, Martedì 6 agosto, si sposta verso Vergato da cui si sale ad ottocento metri di altezza al panoramico Suzzano con le sue case in pietra arenaria. Qui gli abitanti addobberanno la piazzetta preparando anche un piccolo buffet di benvenuto, mossi  dall'entusiasmo e dalla stessa tenacia che ogni anno gli ha permesso di organizzare una famosa festa  popolare che radunava centinaia di persone provenienti dai paesi delle Valle del Reno. Forti di questa tradizione e volendo mantenere vivo un luogo che altrimenti rischierebbe di essere spopolato, la terza tappa della “mappa poetica” de l'importanza di essere piccoli ospita la poetessa e traduttrice Anna Maria Carpi una tra le più importanti ed interessanti autrici e intellettuali contemporanee. Formatasi all'Accademia di Brera, partecipando a esposizioni a Milano e a Colonia, ha vissuto per diversi periodi a Bonn; saggista e traduttrice di poeti tedeschi (da Gottfried Benn, Kleist, Nietzche, Grünbein a Enzensberger) si confronta con la vita quotidiana e con le grandi domande ontologiche, con quel mistero abissale che si cela nei gesti di tutti i giorni, nella vita che scorre come la prosa e che ha slanci di verticale poesia. Un linguaggio familiare che filtra nella pelle, arriva anche alle persone che non sono “abituate” ad ascoltare poesia. Una leggibilità che è tipica invece della musica proposta per quest'occasione dal musicista, produttore e songwriter Giangrande, capace di muoversi con grazia ed eleganza all’interno dei diversi linguaggi e stili musicali: dalla canzone d’autore all’elettronica fino alla colonna sonora. In questo momento in tour con Daniele Silvestri come chitarrista della band, Giangrande porta a Suzzano il suo ultimo album da solista, Directions, prodotto da Paolo Benvegnù. Un album dalle atmosfere delicatissime, cantato in tre lingue, un respiro internazionale che però bene si sposa -grazie alla delicatezza della voce di Giangrande- con l'intimità di un piccolo borgo. 

Mercoledì 7 agosto la geografia poetica della rassegna si addentra nel cuore di un bosco di castagni secolari nel Parco regionale dei laghi di Suviana e Brasimone in località Poranceto (nel comprensorio del comune di Camugnano). Nel raccoglimento del castagneto, in quel silenzio referenziale che si crea a contatto con la natura, gli ospiti potranno ascoltare la “mitologia contemporanea” di Ida Travi. Poetessa, ma anche studiosa di filosofia, Ida Travi con il saggio L'aspetto orale della poesia pubblicato dal 2000 al 2007 in tre edizioni, avvia una sua riflessione personale sul rapporto tra poesia e filosofia, in particolare tra lingua poetica e lingua materna, oralità che diventa cardine della sua scrittura e una traccia del dire. La parola detta da Ida Travi, che ripesca i toni e le voci dalla memoria in un "impasto" sensoriale, e la parola cantata, dolentemente dialettale dello straordinario cantautore siciliano Cesare Basile, permeeranno il sottobosco de Il Poranceto con toni alti e gravi. Cesare Basile suona e scrive dall'inizio degli anni ottanta e tra le sue collaborazioni vanta quella con John Bonnar (Dead Can Dance), Nada, Lorenzo Corti (Cristina Donà, Delta V, aka Musical Buzzino), Valentina Galvagna e Marta Collica (Sepiatone). Dopo aver soggiornato a Berlino e a Milano, nel 2011 Basile rientra a Catania dove sposa la causa del Teatro Coppola Occupato che lo impegnerà anche nei lavori di ristrutturazione. Dal lavoro nel cantiere del teatro sono nate le dieci tracce dell'ultimo album Cesare Basile (febbraio 2013 Urtovox) un disco blues “situato tra la tradizione popolare italiana ed il folk americano delle radici, cantato in siciliano con una voce che graffia l’anima".

Giovedì 8 agosto il paesaggio che comprenderà l'incontro con la poesia di Antonella Anedda e la musica di Pino Marino sarà quello della campagna intorno al comune di Grizzana così cara all'artista Morandi. Le curve delle colline, i profili brulli dei calanchi, sono i quadri malinconici e nostalgici che circondano l'antico borgo de La Scola. Di origine militare bizantina Scola, nel corso dei secoli, assume una fisionomia difensiva con torri che permettono la sicurezza del borgo ed è grazie a queste torri che il borgo è riconoscibile anche da lontano. Bellissima, con la sua meridiana settecentesca, l'edicola e gli affreschi, il forno quattrocentesco con mensole scolpite, finestre con formelle d'arenaria incise con simboli comacini, la Scola è una partitura di memoria, di storie e di leggende così ben custodite dall'Associazione Sculca composta da volontari che ancor oggi si prendono cura di un dono tramandando dal tempo. Non poteva esser scelto luogo migliore per raccogliersi intorno alle parole “salvifiche”di Antonella Anedda e alle sue meditazioni liriche. “Premio Rèpaci Viareggio” 2012 con la raccolta Salva con nome,  Anedda con i suoi ultimi versi aggiunge un ulteriore tassello a un percorso poetico animato da un pensiero sotterraneo. La sua poesia “naviga nel sangue fino al cuore” e lo fa con la precisione di un “agocucendo con pazienza i significati, i nomi che, come indica il titolo dell'ultima raccolta, esistono per affacciarsi al mondo. E se Antonella Anedda “cuce” i versi, il raffinato cantautore Pino Marino inanella parole come perle, componendo canzoni raffinate caratterizzate da sonorità scarne ed intimistiche. Compositore, autore, pianista e chitarrista, legato alla miglior tradizione del cantautorato italiano, Pino Marino per molti anni ha portato la sua musica nei locali capitolini. Dopo diversi progetti che lo hanno portato a ricevere prestigiosi riconoscimenti come il “Premio Recanati” premio Italiano “Musica Emergenti”  nel 2000 con la collaborazione di Mauro Pagani e David Petrosin,  pubblica il suo primo album, Dispari con il quale vince il “Premio Ciampi” nel 2001. Con il suo secondo lavoro Non bastano i fiori (2003) la critica si fa unanime e Federico Guglielmi della rivista musicale “il Mucchio selvaggio” scrive:  "...una voce evocativa che intona testi per i quali si può scomodare il termine poesia, poesia concreta e surreale, profonda e ironica, intrisa di malinconia così come illuminata di speranze (...)”

Venerdì 9 agosto termina il viaggio degli artisti e degli spettatori nelle terre dell'Appennino con il consolidato appuntamento a Capugnano (Porretta Terme), dove sul palco saliranno altri due grandi artisti: Milo De Angelis e Umberto Maria Giardini.
Milo De Angelis è una delle voci più importanti della poesia italiana contemporanea, poeta che frequenta gli abissi e i “cortili oscuri della vita” e lo fa sporgendosi nei precipizi, negli orridi della vita per ripescarne una parola scarna, non spettacolare, che batte come un corpo che duole, che indica un verso, una caduta. Dalla pietra miliare Millimetri del 1983 fortunatamente riedita dopo trent'anni dal Saggiatore, alla dolente e meravigliosa raccolta di dolori di Tema dell'addio, fino alle poesie di Quell'andarsene nel buio dei cortili dove i ricordi d'infanzia, gli amori, il calcio, gli amici,e i cortili milanesi sono sempre attraversati dal buio, un buio che è il risvolto segreto della luce, un buio che convoca a giudizio. Oltre ad essere un grande poeta De Angelis ha tradotto superbamente dal francese e dalle lingue classiche Racine, Baudelaire, Blanchot, Eschilo, Lucrezio.
Sarà, infine, l'atteso live acustico di Umberto Maria Giardini (conosciuto per molti anni con lo pseudonimo Moltheni) a chiudere la serata e la terza edizione della rassegna, e lo farà con il suo canto aperto e suggestivo che conduce in territori onirici. Un'esibizione insolita dove ai suoni più elettrici del bellissimo e ultimo disco La dieta dell'imperatrice, si darà spazio ad arrangiamenti più melodici, e in scena con la sua contraddistinta grazia, Umberto Giardini darà sicuramente il meglio di sé a ricordarci che “l’unico sollievo che l’uomo può succhiare direttamente dalla sua volgare esistenza è dato dalla natura e dal silenzio. Ovunque c’è natura, ovunque c’è silenzio, c’è speranza” considerazione che sembra essere in dialogo con uno dei versi più belli di Milo De Angelis contenuti nella storica raccolta Millimetri : “In noi giungerà l’universo, | quel silenzio frontale dove eravamo | già stati”.
Come ogni anno a dare il benvenuto agli artisti e al pubblico ci sarà la calorosa ospitalità dell'Associazione Beata Vergine della Neve e della Proloco che come tutti gli anni per l'occasione cucineranno crescentine, tigelle e polenta.

Ad arricchire la rassegna saranno presenti i due bookshop della libreria “L' Arcobaleno” di Porretta e de “LO SPAZIO di via dell'ospizio” di Pistoia, oltre che la presenza di una vetrina aperta all'innovativa e ricercata piccola casa editrice “Sartoria Utopia” con i suoi colorati ed eleganti libri cuciti a mano. Verranno inoltre messi in vendita a sostegno delle attività del festival alcuni esemplari di poster d'arte numerati, pezzi unici realizzati  appositamente per il festival secondo le antiche modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d'arte bolognese Anonima Impressori. Inoltre nei giorni del festival e in quelli precedenti alcune realtà locali realizzeranno piccoli gadget a sostegno del festival, come per esempio i segnalibri con su riportato un verso di Umberto Saba sul pane e dati in omaggio dall'Antica Forneria Corsini di Porretta Terme, nella convinzione che la cultura sia altrettanto importante nutrimento.

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – III edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino bolognese
dal 4 al 9 agosto 2013
con il contributo di
Arci Bologna, Regione Emilia Romagna Fondazione del Monte,Provincia di Bologna Distretti Culturali
e il sostegno dei comuni di
Castel di Casio, Gragnaglione, Grizzana Morandi, Porretta Terme, Vergato
e del Parco Regionale dei Laghi di Suviana e Brasimone
e di Coop Reno, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Banca di Imola Filiale di Porretta Terme, Proloco di Capugnano, Associazione Parrocchiale Beata Vergine delle Nevi, Proloco di Molino del Pallone, Proloco di Cereglio
con la collaborazione e il sostegno di
Associazione Parrocchiale “Beata Vergine della Neve”; Pro Loco di Capugnano; Pro Loco di Cereglio; Pro Loco di Molino del Pallone; “Antica Forneria Corsini” di Porretta Terme; “The Califfo” Pub di Porretta Terme; Libreria “L'Arcobaleno” di Porretta terme; Libreria “Lo Spazio di via dell' ospizio” di Pistoia; Gelateria “La Baracchina” di Porretta terme; Centro Turistico “La Prossima” di Castel di Casio; Associazione culturale  “Sculca”.

4 agosto- Massovrana (Castel di Casio) h 21 in caso di pioggia: sala interna del B&B Borgo Massovrana
MANUELA DAGO, FRANCA MANCINELLI, FRANCESCA MATTEONI, MARCO SIMONELLI
(letture poetiche) BART LA FALAISE & “SOCIO”(live acustico); FEDERICO FRASCARELLI (live acustico)

5 agosto- Molino del Pallone (Granaglione) h 21 in caso di pioggia: Molino del Pallone, sala proloco
STEFANO DAL BIANCO  (lettura/incontro) COLAPESCE (live acustico)

6 agosto – Suzzano (Vergato) h 21 in caso di pioggia: Suzzano, sala proloco
ANNA MARIA CARPI (lettura/incontro) GIANGRANDE (concerto)

7 agosto-Poranceto (Camugnano) h 21
in caso di pioggia: Sala  Parco dei Laghi, p.zza  Kennedy 10, Camugnano
IDA TRAVI (lettura/incontro) CESARE BASILE (live acustico)

8 agosto – La Scola (Grizzana Morandi) h 21 in caso di pioggia: La Scola, sala Associazione La Sculca
ANTONELLA ANEDDA (lettura/incontro) PINO MARINO (live acustico)

9 agosto – Capugnano, Porretta Terme h 21
in caso di pioggia:  Capugnano, Oratorio della chiesa di San Michele Arcangelo
MILO DE ANGELIS (lettura/incontro) UMBERTO MARIA GIARDINI (live acustico)

Tutti gli eventi sono a ingresso libero

INFO
fb: L'importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 5311807 | 349 3690407

UFFICIO STAMPA
ufficio stampa arci bologna: Rossella Vigneri (+39 349 8354451) ufficiostampa@arcibologna.it

ufficio stampa SassiScritti:
Azzurra D'Agostino: 349 5311807 | azzurradagostino@gmail.com
Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

Le foto degli artisti e dei luoghi in cui si svolgerà la rassegna sono disponibili all’indirizzo: www.arcibologna.it/area_stampa

Come raggiungere i borghi: http://sassiscritti.wordpress.com/come-arrivare/

mercoledì 24 aprile 2013

Stefano Dal Bianco fa e ha le "Prove di libertà"

Esiste una parola più facile e, al contempo, più erta di "libertà"? Se guardo alla mia vita, ho sempre provato un certo ritegno nel pronunciarla o scriverla, assieme agli aggettivi che presuppone o dai quali è presupposta. Poi ci si è messa anche la politica degli ultimi decenni, coi suoi plurali di libertà (per fortuna la parola non muta, al plurale!), e allora le sue quotazioni dentro la mia borsa sono crollate. Tuttavia ho sempre pensato che fosse un problema soltanto mio (o al massimo anche della politica), e che con questa parola siamo tutti prima o poi tenuti a fare i conti, attraverso percorsi unici. E la resa dei conti con questa parola ingombrante, ma che sta tutta nelle nostre mani, può essere innescata senza tanti preavvisi. Pensavo anche a questo leggendo Prove di libertà (Mondadori, Lo Specchio, euro 18), ultimo - anche se non recentissimo - libro di Stefano Dal Bianco. Raduno qui oggi le impressioni trascritte a singhiozzo negli ultimi tre mesi e parto dicendo che a diversi anni da Ritorno a Planaval avevo banalmente voglia di rileggerlo, così come i tanti che amarono quel libro del 2001. La nota conclusiva del libro recita laconicamente: “Questo libro è stato scritto fra il 2001 e il 2011”. Un punto da cui partire, almeno sul fronte della ricezione, sta proprio qui. Pochi libri hanno avuto un impatto significativo sui lettori come Ritorno a Planaval e credo di poter affermare con serenità che pochi libri di poesia fossero così attesi come questo nuovo che giunge con tutte le difficoltà del caso: un buon successo di pubblico e critica del primo, un periodo insolitamente lungo a separare i due libri (ma Dal Bianco è poeta "paziente" e tornerò su questo). I pareri che ho già riscontrato in giro sono assai mutevoli e, almeno per quel che ho sentito, generalmente abbastanza tiepidi. Non è mia intenzione (e capacità) riscaldare l'accoglienza di questo libro, ne scrivo appositamente a distanza di mesi dall'uscita, ma proverò a dire perché questo sia un libro bello e altrettanto – se non più – convincente del precedente. Dal Bianco ha avuto coraggio (si può dare una poesia senza coraggio?) e dopo undici anni non ha fatto come quei gruppi rock che trovano la formula del disco che piace e la ripetono per almeno un paio di album. Dentro l'accumulo da cui la poesia nasce e si trasforma - e che a sua volta trasforma in vera esperienza - si colloca pienamente anche questo libro, che appare lontano da Planaval (non potrebbe essere diversamente) e che per questo motivo farà forse fatica a bissarne il successo di pubblico e di critica.

Il lettore che avvicina per la prima volta la poesia di Dal Bianco e che magari si interessi della sua attività di critico (non meno interessante, anche quando, come in Tradire per amore, si perde e si ritrova nelle analisi metriche del primo Zanzotto), può rimanere quasi sbigottito dal rapportare questi passi semplici della sua scrittura con la poesia all'apparenza ostile di Andrea Zanzotto. Sarebbe stupido leggere un poeta come Dal Bianco pensando solo al critico di Zanzotto, autore così sideralmente lontano dalla poesia che affiora in Prove di libertà o Ritorno a Planaval eppure vero faro, stella polare, pure del Dal Bianco poeta di questi anni. (E comunque, sia detto per inciso, non c'è critico migliore, o semplicemente più utile, per avvicinare la poesia di Zanzotto, anche in vista di future generazioni di lettori di Zanzotto e affermo questo a partire dal lungo saggio introduttivo che Dal Bianco ha scritto per il recente Oscar Mondadori con tutte le poesie del poeta trevigiano.) Questi ragionamenti non servono tanto a ripararsi da possibili fraintendimenti, e di Zanzotto e di Dal Bianco, ma  a mostrare al lettore che lo vorrà capire come si possa oggi attraversare gli spazi semplici, elementari, della poesia di Zanzotto, per approdare a poesie proprie, che dicano della vita e della libertà, provata e dimostrata, esperimento-impegno da un lato e testimonianza-dimostrazione di verità dall'altro, sfaccettature di libertà tenute assieme da “prove”, prima parola del titolo del libro. Ecco perché sostengo che Dal Bianco in questo libro fa e ha, simultaneamente, le prove di libertà, in quello sforzo che sottende il passare in mezzo, dalle "anime costrette" della nostra vita alla "somma libertà del tutto".

Parlavo di mani, e allora proseguo in scia “digitale”, cercando l'indice del libro. Balza all'occhio e al nervo acustico la strutturazione di questo in sette sezioni, come le note musicali chiamate a cappello di ogni regione di questo libro. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, quasi come in un celebre mottetto di Montale. “Do” e “fa”, verbi, “re” (sezione dedicata al figlio) e “sol”, sostantivi, “mi” e “si” come particelle pronominali (anche se l'intera sezione Si, con l'aggiunta di un accento, potrebbe esser ascoltata come un'affermazione secca, senza possibilità di ricorso in appello) e poi l'articolazione (avverbio di luogo?) della sezione La. Queste le note, poste in scala ascendente, senza diesis o bemolle, pronte a collocarsi nel pentagramma del lettore, a scombinarsi e ricombinarsi in melodie e dissonanze, in componimenti dove sembra albeggiare una nuova forma di “classicismo” o di componimenti brevi dove la vita si scorda e si riaccorda nel giro di un istante, come in Via Garibaldi confuso, dove, non so ancora bene perché, ho colto quella postura e una topologia del poeta che poi ha intonato buona parte della lettura del libro:

“A metà di via Garibaldi una ragazza straniera mi ha chiesto dov'è via Milano e io mi sono concentrato e le ho detto sorridendo non lo so. E lei si è allontanata verso piazza Statuto, completamente fuori strada. Lo so, perché la via Milano so benissimo dov'è, ma in quel momento no, lo giuro, mi dispiace.”

Sintomatiche di una presa di distanza dal presente delle mode poetiche e del nuovo poetichese sono anche le epigrafi, che spesso ricorrono alla letteratura religiosa o mistica, araba e indiana, a Daumal e Gurdjieff, alla Bibbia e al Corano, dal “Come in cielo, così in terra” del Padre Nostro a Pistis Sophia, a Esiodo oppure, qui assai zanzottianamente, all'incarto della merendina Ciock. Dal Bianco, in un punto, gioca ungarettianamente con il proprio cognome e su questa rosa di venti colloca la ricerca, l'interrogazione (sull'interrogare cercate di fare subito vostra la sezione-poesia finale Essere umani) sul nominare e sull'essere. Questo accade nella poesia Come ti chiami:

A volte sembra che il tuo nome
e tutto ciò che credi d'essere scolori,
e lì nel centro della nullità paurosa
si distingua qualcosa
che tu sai essere te
ma non sai come chiamare
non sai mai come fermare
prima che torni ad essere dal bianco.

Scriveva Mengaldo nel risvolto di Planaval: "Questo poeta così notevole non assomiglia a nessun suo confratello d’oggi, anzitutto perché non ha alcuna fretta. La parsimonia e la concentrazione non sono in lui che la faccia operativa della serietà della sua introspezione." Sono parole da ripetere oggi, anche perché la mancanza di fretta è sempre più una dimensione utile alla poesia e alla critica, a quel che rimane della critica e a quella critica che prova persino a convivere con i goffi tentativi, più o meno riusciti, di promozione editoriale della poesia. Un poeta non può non essere paziente e questo va detto chiaro e alto, sopra tutti i toni e i livori che anche i blog letterari spesso contribuiscono a creare e ad accumulare. La poesia non può vivere in quelle stanze di sfogo, visto che lì non respira e lì non attira sguardi. Lo dico perché credo serva pazienza con questo nuovo libro di Dal Bianco, dove permangono poche di quelle prose che caratterizzavano l'andamento diaristico del fortunato esordio ne Lo Specchio Mondadori del 2001. Il lavoro fatto dall'autore su sé e sulla propria poesia è ampio e ragguardevole per una serie di ragioni: la riuscita di una lunga concentrazione che ha riguardato la voce, la capacità di dire in una lingua che ambisce a essere libera, che esca dalla gabbia della tradizione di cui è innamorata e che sappia tradurla e tradirla al contempo (Dalla gabbia, ricordiamo, il sottotitolo della sezione Do) e infine, dal punto di vista dei contenuti di questi testi (spesso strategicamente attardati su disagi, gioie, dolori), la svolta che è contenuta nell'ambivalenza del titolo stesso dell'opera: prove di libertà come tentativi di libertà ma anche, simultaneamente, come testimonianze, tracce, segni di una libertà che esiste, nonostante le puttanate in cui noi la cacciamo a nascondersi o attraverso le quali la sbanderiamo senza capire niente. “Chi non ha capito tutto non ha capito niente”, è una delle epigrafi da Gurdjieff. Se non capiamo quell'isola di libertà che portiamo, a maggior ragione non abbiamo capito niente. Nei testi che si susseguono, in questo libro rarefatto di suoni e così denso di vita, Stefano Dal Bianco, come il Zanzotto a lungo amato e studiato, ha tradito per amore ancora una volta, anche questa volta. Credo sia andata più o meno così, per questo il suo nuovo libro avrà lasciato molti perplessi (penso alle posizioni che non condivido di Matteo Marchesini, allargate in questo articolo anche ad altri autori come Mario Benedetti). Ora sta a noi scegliere cosa fare di questo suo nuovo sasso gettato sull'acqua, nell'acqua, ricordando – tornando ancora a Planaval – che “Noi dobbiamo stare con i sassi. / Sono una cosa del mondo. / E dobbiamo cercare di capirli. / È per questo che ho scritto una poesia che ha bisogno di un gesto e di un pensiero. / Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi.” Di tutte le epigrafi, che funzionano qui come vento di accompagnamento alla lettura, ho trovato particolarmente efficace quella della sezione Si, che costituisce poi una delle epigrafi più recenti citate da Dal Bianco, visto che appartiene a Jerzy Grotowski, il regista polacco del teatro povero. Qui ci viene offerta un'immagine, forse enigmatica, che ci può accompagnare nella rinnovata poesia di Stefano Dal Bianco: “Non è per il gusto di parlare che lavoro, ma per allargare l'isola di libertà che porto”. Ecco il lavoro, la libertà, l'isola di questo poeta, lo stesso che potete incontrare confuso in Via Garibaldi. Che cosa incontrerà l'allargarsi dell'isola? Non lo sappiamo, ma abbiamo pazienza.

Autolavaggio


Forse dovremmo bere molto.
Forse dovremmo respirare meglio.
Io morirò per qualche cosa di circolatorio.
Tu morirai per qualche cosa di cardiaco.
Tutto normale. Le tubature e la pompa.

Allora cibarsi con cognizione, 

respirare consapevolmente,
ogni giorno lavare la macchina
con quello che ci viene offerto, la materia,
la materia che raffina i Pneumatici.

Spazzare via ciò che non serve,

lasciarsi impressionare da vivande più sottili,
coltivare una pazienza attiva,
pregare: chiedere e aspettare.

Tutti i giorni lavare la macchina

senza pensare di sapere-già,
senza pensare di sapere-tutto.

Separare le cose dai significati, andare contro

a ciò che di meglio si è pensato,
perché qualcosa va perduto in noi
perché una nuova nota suoni.

venerdì 21 ottobre 2011

Andrea Zanzotto, nessun consuntivo


Nessun consuntivo (200 pagine di cui buona parte occupate da foto in bianco e nero, Antiga Edizioni, euro 25) è il titolo di un libro uscito per i novant'anni di Andrea Zanzotto per la cura di Carlo Ossola. La componente occasionale del volume ha cambiato segno nel giro di pochissimo tempo. Ma oggi, a pochi giorni dalla morte del poeta, è un titolo che suona più che mai corretto e accorto. La notizia della morte del poeta ctonio (la definizione è di Gianfranco Contini, in chiusura della prefazione al suo libro forse più riuscito, Il Galateo in bosco del 1978) ha fatto un po' tremare la terra. Lui, poeta del megatempo della geologia, l'uomo che invitava a non scordare i paleosismi registrati nella zona del Quartier del Piave, lui che aveva intitolato splendidamente un suo libro di interventi critici Fantasie di avvicinamento era distantissimo da un'idea di consuntivo, così come la sua poesia, espressione migliore di quelle fantasie di avvicinamento.

E quindi men che mai ha senso che provi io, qui, a tracciare una specie di consuntivo, sullo spunto offertomi da questo volume arricchito dalle foto di Nicola Giuseppe Smerilli, dai testi di Carlo Ossola, dal ricordo di Giuseppe Zaccaria, rettore dell'università di Padova, e dalla bella lettera inviata a Zanzotto da Giorgio Napolitano in data 5 ottobre 2011 e riportata nella parte introduttiva. Non ha davvero senso tentare consuntivi sulla scia delle notizie di segno opposto che si sono rincorse in pochi giorni: sarebbe il modo peggiore per ricordare la tensione amorosa della sua poesia. Una tensione positiva, poesia che sgorga da un "tradire per amore", come titola un fondamentale contributo che Stefano Dal Bianco dedicò all'aspetto metrico della poesia dei suoi esordi. Eppure non mancano nei suoi versi la catastrofe, le catastrofi e le cose intollerabili della Storia e dell'uomo o altre terribilità introiettate dalla sua anima-psiche (fu Montale a parlare in questi termini, di anima e psiche). Di Zanzotto è la migliore poesia del secondo Novecento, un secondo Novecento che alla fine aveva contribuito ad inaugurare con Dietro il paesaggio che data eloquentemente 1951. Un'impressione: forse negli ultimi tempi si è registrato un deficit di attenzione verso la sua poesia. Azzardo un'ipotesi magari balorda, che probabilmente non ha senso dato che la vita è finita nel senso letterale dell'aggettivo "finita": negli ultimi anni è come se il poeta si stesse ricaricando, quasi una nuova infanzia. Chissà cosa avrebbe scritto Zanzotto tra venti e trent'anni. Certo, chiunque può obiettare che simili discorsi dell'impossibilità, simili adynata, lasciano il tempo che trovano, che si potrebbero applicare a qualsiasi poeta, per giunta ai poeti che non hanno avuto la sorte di arrivare a novant'anni. Ma l'ingenuità di questo paradosso vorrebbe servire a riportare l'attenzione necessaria sul suo lavoro, proprio oggi quando viene talvolta "liquidato" come troppo complesso e arduo (è una preoccupazione alla quale dà seguito lo stesso Stefano Dal Bianco in un suo contributo recente, giustamente rivolgendosi alle future generazioni di lettori). Zanzotto stesso aveva risposto ad una domanda di un'intervista che "non basterebbero novecento anni per capire qualcosa della vita". Aveva semplicemente aggiunto uno zero a una domanda che riguardava i suoi novant'anni. Nessun consuntivo, nessun traguardo. Aveva anche dichiarato che è molto più importante quanto sta accadendo attorno al neutrino rispetto al compleanno, con quella consueta apertura nei confronti dell'attualità scientifica.

Sono fiducioso che il deficit di attenzione, se deficit è stato, non rientrerà "banalmente" per effetto della notizia della scomparsa. Ci vorranno degli anni, decenni forse. La sua poesia non si imbriglia, lui stesso non è mai stato imbrigliato in gruppi o correnti, e proprio per questo ha costruito negli anni delle relazioni fondamentali, non soltanto con i grandi della letteratura, in Italia o all'estero. Il deficit di attenzione rientrerà perché la sua poesia si pone in un dialogo incessante con la terribile complessità degli accadimenti della Storia, del "Mondo" della sua poesia più antologizzata. Gian Mario Villalta, nel suo ricordo apparso su Il Corriere del Veneto del 19 ottobre, ha fatto benissimo a scrivere del suo dolore quando sente definire Zanzotto come "poeta che canta i Palù e schifa i capannoni". Villalta, che è stato tra gli studiosi più assidui della sua opera, giustamente scrive che sarebbe all'incirca come "sentir dire che Dante canta le virtù cristiane e ripudia i peccati". E il nome di Dante non è speso a caso, tra i molti riferimenti possibili ai grandi poeti. Evitiamo, oggi più che mai, semplificazioni, banalizzazioni o prese per la giacchetta. Fanno davvero del male a noi e al suo ricordo, al futuro della sua poesia. Anche sfogliando e leggendo questo volume curato da Carlo Ossola rimbalza un pensiero: la sua poesia ha un futuro, è un motivo per essere contenti nonostante il vuoto lasciato dalla sua scomparsa.

Nautica celeste

Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom'io, sai splendere
unicamente dell'altrui speranza.


da IX Ecloghe, 1962