Esiste una parola più
facile e, al contempo, più erta di "libertà"? Se
guardo alla mia vita, ho sempre provato un certo ritegno nel
pronunciarla o scriverla, assieme agli aggettivi che presuppone o dai
quali è presupposta. Poi ci si è messa anche la politica degli
ultimi decenni, coi suoi plurali di libertà (per fortuna la parola
non muta, al plurale!), e allora le sue quotazioni dentro la mia
borsa sono crollate. Tuttavia ho sempre pensato che fosse un problema soltanto mio (o al massimo anche della politica), e che con questa parola siamo tutti prima o poi tenuti a fare i
conti, attraverso percorsi unici. E la resa dei conti con questa
parola ingombrante, ma che sta tutta nelle nostre mani, può
essere innescata senza tanti preavvisi. Pensavo anche a questo
leggendo Prove di libertà
(Mondadori, Lo Specchio, euro 18), ultimo - anche se non recentissimo - libro di Stefano Dal
Bianco. Raduno qui oggi le impressioni trascritte a singhiozzo negli ultimi tre mesi e parto dicendo che a diversi anni da Ritorno
a Planaval avevo banalmente voglia di rileggerlo, così
come i tanti che amarono quel libro del 2001. La nota conclusiva del
libro recita laconicamente: “Questo libro è stato scritto fra il
2001 e il 2011”. Un punto da cui partire, almeno sul fronte della
ricezione, sta proprio qui. Pochi libri hanno avuto un impatto
significativo sui lettori come Ritorno a
Planaval e credo di poter affermare con
serenità che pochi libri di poesia fossero così attesi come questo
nuovo che giunge con tutte le difficoltà del caso: un buon successo di pubblico e critica del primo, un periodo insolitamente lungo a separare
i due libri (ma Dal Bianco è poeta "paziente" e tornerò su questo). I pareri che ho già riscontrato in giro sono assai
mutevoli e, almeno per quel che ho sentito, generalmente abbastanza
tiepidi. Non è mia intenzione (e capacità) riscaldare l'accoglienza di questo
libro, ne scrivo appositamente a distanza di mesi dall'uscita, ma proverò a dire perché questo sia un libro bello e
altrettanto – se non più – convincente del precedente. Dal
Bianco ha avuto coraggio (si può dare una poesia senza coraggio?) e
dopo undici anni non ha fatto come quei gruppi rock che trovano la
formula del disco che piace e la ripetono per almeno un paio di
album. Dentro l'accumulo da cui la poesia nasce e si trasforma - e
che a sua volta trasforma in vera esperienza - si colloca pienamente
anche questo libro, che appare lontano da Planaval
(non potrebbe essere diversamente) e che per questo motivo farà forse
fatica a bissarne il successo di pubblico e di critica.
Il lettore che avvicina per la prima volta la poesia di Dal Bianco e che magari si interessi della sua attività di critico (non meno interessante, anche quando, come in Tradire per amore, si perde e si ritrova nelle analisi metriche del primo Zanzotto), può rimanere quasi sbigottito dal rapportare questi passi semplici della sua scrittura con la poesia all'apparenza ostile di Andrea Zanzotto. Sarebbe stupido leggere un poeta come Dal Bianco pensando solo al critico di Zanzotto, autore così sideralmente lontano dalla poesia che affiora in Prove di libertà o Ritorno a Planaval eppure vero faro, stella polare, pure del Dal Bianco poeta di questi anni. (E comunque, sia detto per inciso, non c'è critico migliore, o semplicemente più utile, per avvicinare la poesia di Zanzotto, anche in vista di future generazioni di lettori di Zanzotto e affermo questo a partire dal lungo saggio introduttivo che Dal Bianco ha scritto per il recente Oscar Mondadori con tutte le poesie del poeta trevigiano.) Questi ragionamenti non servono tanto a ripararsi da possibili fraintendimenti, e di Zanzotto e di Dal Bianco, ma a mostrare al lettore che lo vorrà capire come si possa oggi attraversare gli spazi semplici, elementari, della poesia di Zanzotto, per approdare a poesie proprie, che dicano della vita e della libertà, provata e dimostrata, esperimento-impegno da un lato e testimonianza-dimostrazione di verità dall'altro, sfaccettature di libertà tenute assieme da “prove”, prima parola del titolo del libro. Ecco perché sostengo che Dal Bianco in questo libro fa e ha, simultaneamente, le prove di libertà, in quello sforzo che sottende il passare in mezzo, dalle "anime costrette" della nostra vita alla "somma libertà del tutto".
Parlavo di mani, e allora
proseguo in scia “digitale”, cercando l'indice del libro. Balza all'occhio e al nervo acustico la strutturazione di questo in sette sezioni, come le
note musicali chiamate a cappello di ogni regione di questo libro.
Do, Re, Mi, Fa, Sol, La,
Si, quasi come in un celebre mottetto di Montale. “Do” e
“fa”, verbi, “re” (sezione dedicata al figlio) e “sol”,
sostantivi, “mi” e “si” come particelle pronominali (anche se
l'intera sezione Si, con l'aggiunta di un accento, potrebbe
esser ascoltata come un'affermazione secca, senza possibilità di ricorso in appello) e poi l'articolazione (avverbio
di luogo?) della sezione La. Queste le note, poste in scala
ascendente, senza diesis o bemolle, pronte a collocarsi nel
pentagramma del lettore, a scombinarsi e ricombinarsi in melodie e
dissonanze, in componimenti dove sembra albeggiare una nuova forma di
“classicismo” o di componimenti brevi dove la vita si scorda e si
riaccorda nel giro di un istante, come in Via
Garibaldi confuso, dove, non so ancora bene perché, ho colto
quella postura e una topologia del poeta che poi ha intonato buona
parte della lettura del libro:
“A metà di via
Garibaldi una ragazza straniera mi ha chiesto dov'è via Milano e io
mi sono concentrato e le ho detto sorridendo non lo so. E lei si è
allontanata verso piazza Statuto, completamente fuori strada. Lo so,
perché la via Milano so benissimo dov'è, ma in quel momento no, lo
giuro, mi dispiace.”
Sintomatiche di una presa
di distanza dal presente delle mode poetiche e del nuovo poetichese
sono anche le epigrafi, che spesso ricorrono alla letteratura
religiosa o mistica, araba e indiana, a Daumal e Gurdjieff, alla
Bibbia e al Corano, dal “Come in cielo, così in terra” del Padre
Nostro a Pistis Sophia, a Esiodo oppure, qui assai zanzottianamente,
all'incarto della merendina Ciock. Dal Bianco, in un punto, gioca ungarettianamente con il proprio cognome e su questa rosa
di venti colloca la ricerca, l'interrogazione (sull'interrogare
cercate di fare subito vostra la sezione-poesia finale Essere
umani) sul nominare e sull'essere. Questo accade nella poesia
Come ti chiami:
A volte sembra che il tuo
nome
e tutto ciò che credi
d'essere scolori,
e lì nel centro della
nullità paurosa
si distingua qualcosa
che tu sai essere te
ma non sai come chiamare
non sai mai come fermare
prima che torni ad essere
dal bianco.
Autolavaggio
Forse dovremmo respirare meglio.
Io morirò per qualche cosa di circolatorio.
Tu morirai per qualche cosa di cardiaco.
Tutto normale. Le tubature e la pompa.
Allora cibarsi con cognizione,
respirare consapevolmente,
ogni giorno lavare la macchina
con quello che ci viene offerto, la materia,
la materia che raffina i Pneumatici.
Spazzare via ciò che non serve,
lasciarsi impressionare da vivande più sottili,
coltivare una pazienza attiva,
pregare: chiedere e aspettare.
Tutti i giorni lavare la macchina
senza pensare di sapere-già,
senza pensare di sapere-tutto.
Separare le cose dai significati, andare contro
a ciò che di meglio si è pensato,
perché qualcosa va perduto in noi
perché una nuova nota suoni.
Lo prenderei, anzi, lo prenderò questo libro, fosse solo per le poesie riportate...... buonasera
RispondiEliminaA me è piaciuto e stop. Ciao federico
RispondiElimina...ultimamente finisco spesso su questo blog quando cerco recensioni di alcuni libri che mi interessano... vedo anche cose che mi nteressano nei passati interventi... gianluca
RispondiEliminalibro non letto ancora ma quel che dici su certi blog e' vero... sono ridicoli ormai, pieni di astio poi...
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