mercoledì 24 aprile 2013

Stefano Dal Bianco fa e ha le "Prove di libertà"

Esiste una parola più facile e, al contempo, più erta di "libertà"? Se guardo alla mia vita, ho sempre provato un certo ritegno nel pronunciarla o scriverla, assieme agli aggettivi che presuppone o dai quali è presupposta. Poi ci si è messa anche la politica degli ultimi decenni, coi suoi plurali di libertà (per fortuna la parola non muta, al plurale!), e allora le sue quotazioni dentro la mia borsa sono crollate. Tuttavia ho sempre pensato che fosse un problema soltanto mio (o al massimo anche della politica), e che con questa parola siamo tutti prima o poi tenuti a fare i conti, attraverso percorsi unici. E la resa dei conti con questa parola ingombrante, ma che sta tutta nelle nostre mani, può essere innescata senza tanti preavvisi. Pensavo anche a questo leggendo Prove di libertà (Mondadori, Lo Specchio, euro 18), ultimo - anche se non recentissimo - libro di Stefano Dal Bianco. Raduno qui oggi le impressioni trascritte a singhiozzo negli ultimi tre mesi e parto dicendo che a diversi anni da Ritorno a Planaval avevo banalmente voglia di rileggerlo, così come i tanti che amarono quel libro del 2001. La nota conclusiva del libro recita laconicamente: “Questo libro è stato scritto fra il 2001 e il 2011”. Un punto da cui partire, almeno sul fronte della ricezione, sta proprio qui. Pochi libri hanno avuto un impatto significativo sui lettori come Ritorno a Planaval e credo di poter affermare con serenità che pochi libri di poesia fossero così attesi come questo nuovo che giunge con tutte le difficoltà del caso: un buon successo di pubblico e critica del primo, un periodo insolitamente lungo a separare i due libri (ma Dal Bianco è poeta "paziente" e tornerò su questo). I pareri che ho già riscontrato in giro sono assai mutevoli e, almeno per quel che ho sentito, generalmente abbastanza tiepidi. Non è mia intenzione (e capacità) riscaldare l'accoglienza di questo libro, ne scrivo appositamente a distanza di mesi dall'uscita, ma proverò a dire perché questo sia un libro bello e altrettanto – se non più – convincente del precedente. Dal Bianco ha avuto coraggio (si può dare una poesia senza coraggio?) e dopo undici anni non ha fatto come quei gruppi rock che trovano la formula del disco che piace e la ripetono per almeno un paio di album. Dentro l'accumulo da cui la poesia nasce e si trasforma - e che a sua volta trasforma in vera esperienza - si colloca pienamente anche questo libro, che appare lontano da Planaval (non potrebbe essere diversamente) e che per questo motivo farà forse fatica a bissarne il successo di pubblico e di critica.

Il lettore che avvicina per la prima volta la poesia di Dal Bianco e che magari si interessi della sua attività di critico (non meno interessante, anche quando, come in Tradire per amore, si perde e si ritrova nelle analisi metriche del primo Zanzotto), può rimanere quasi sbigottito dal rapportare questi passi semplici della sua scrittura con la poesia all'apparenza ostile di Andrea Zanzotto. Sarebbe stupido leggere un poeta come Dal Bianco pensando solo al critico di Zanzotto, autore così sideralmente lontano dalla poesia che affiora in Prove di libertà o Ritorno a Planaval eppure vero faro, stella polare, pure del Dal Bianco poeta di questi anni. (E comunque, sia detto per inciso, non c'è critico migliore, o semplicemente più utile, per avvicinare la poesia di Zanzotto, anche in vista di future generazioni di lettori di Zanzotto e affermo questo a partire dal lungo saggio introduttivo che Dal Bianco ha scritto per il recente Oscar Mondadori con tutte le poesie del poeta trevigiano.) Questi ragionamenti non servono tanto a ripararsi da possibili fraintendimenti, e di Zanzotto e di Dal Bianco, ma  a mostrare al lettore che lo vorrà capire come si possa oggi attraversare gli spazi semplici, elementari, della poesia di Zanzotto, per approdare a poesie proprie, che dicano della vita e della libertà, provata e dimostrata, esperimento-impegno da un lato e testimonianza-dimostrazione di verità dall'altro, sfaccettature di libertà tenute assieme da “prove”, prima parola del titolo del libro. Ecco perché sostengo che Dal Bianco in questo libro fa e ha, simultaneamente, le prove di libertà, in quello sforzo che sottende il passare in mezzo, dalle "anime costrette" della nostra vita alla "somma libertà del tutto".

Parlavo di mani, e allora proseguo in scia “digitale”, cercando l'indice del libro. Balza all'occhio e al nervo acustico la strutturazione di questo in sette sezioni, come le note musicali chiamate a cappello di ogni regione di questo libro. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, quasi come in un celebre mottetto di Montale. “Do” e “fa”, verbi, “re” (sezione dedicata al figlio) e “sol”, sostantivi, “mi” e “si” come particelle pronominali (anche se l'intera sezione Si, con l'aggiunta di un accento, potrebbe esser ascoltata come un'affermazione secca, senza possibilità di ricorso in appello) e poi l'articolazione (avverbio di luogo?) della sezione La. Queste le note, poste in scala ascendente, senza diesis o bemolle, pronte a collocarsi nel pentagramma del lettore, a scombinarsi e ricombinarsi in melodie e dissonanze, in componimenti dove sembra albeggiare una nuova forma di “classicismo” o di componimenti brevi dove la vita si scorda e si riaccorda nel giro di un istante, come in Via Garibaldi confuso, dove, non so ancora bene perché, ho colto quella postura e una topologia del poeta che poi ha intonato buona parte della lettura del libro:

“A metà di via Garibaldi una ragazza straniera mi ha chiesto dov'è via Milano e io mi sono concentrato e le ho detto sorridendo non lo so. E lei si è allontanata verso piazza Statuto, completamente fuori strada. Lo so, perché la via Milano so benissimo dov'è, ma in quel momento no, lo giuro, mi dispiace.”

Sintomatiche di una presa di distanza dal presente delle mode poetiche e del nuovo poetichese sono anche le epigrafi, che spesso ricorrono alla letteratura religiosa o mistica, araba e indiana, a Daumal e Gurdjieff, alla Bibbia e al Corano, dal “Come in cielo, così in terra” del Padre Nostro a Pistis Sophia, a Esiodo oppure, qui assai zanzottianamente, all'incarto della merendina Ciock. Dal Bianco, in un punto, gioca ungarettianamente con il proprio cognome e su questa rosa di venti colloca la ricerca, l'interrogazione (sull'interrogare cercate di fare subito vostra la sezione-poesia finale Essere umani) sul nominare e sull'essere. Questo accade nella poesia Come ti chiami:

A volte sembra che il tuo nome
e tutto ciò che credi d'essere scolori,
e lì nel centro della nullità paurosa
si distingua qualcosa
che tu sai essere te
ma non sai come chiamare
non sai mai come fermare
prima che torni ad essere dal bianco.

Scriveva Mengaldo nel risvolto di Planaval: "Questo poeta così notevole non assomiglia a nessun suo confratello d’oggi, anzitutto perché non ha alcuna fretta. La parsimonia e la concentrazione non sono in lui che la faccia operativa della serietà della sua introspezione." Sono parole da ripetere oggi, anche perché la mancanza di fretta è sempre più una dimensione utile alla poesia e alla critica, a quel che rimane della critica e a quella critica che prova persino a convivere con i goffi tentativi, più o meno riusciti, di promozione editoriale della poesia. Un poeta non può non essere paziente e questo va detto chiaro e alto, sopra tutti i toni e i livori che anche i blog letterari spesso contribuiscono a creare e ad accumulare. La poesia non può vivere in quelle stanze di sfogo, visto che lì non respira e lì non attira sguardi. Lo dico perché credo serva pazienza con questo nuovo libro di Dal Bianco, dove permangono poche di quelle prose che caratterizzavano l'andamento diaristico del fortunato esordio ne Lo Specchio Mondadori del 2001. Il lavoro fatto dall'autore su sé e sulla propria poesia è ampio e ragguardevole per una serie di ragioni: la riuscita di una lunga concentrazione che ha riguardato la voce, la capacità di dire in una lingua che ambisce a essere libera, che esca dalla gabbia della tradizione di cui è innamorata e che sappia tradurla e tradirla al contempo (Dalla gabbia, ricordiamo, il sottotitolo della sezione Do) e infine, dal punto di vista dei contenuti di questi testi (spesso strategicamente attardati su disagi, gioie, dolori), la svolta che è contenuta nell'ambivalenza del titolo stesso dell'opera: prove di libertà come tentativi di libertà ma anche, simultaneamente, come testimonianze, tracce, segni di una libertà che esiste, nonostante le puttanate in cui noi la cacciamo a nascondersi o attraverso le quali la sbanderiamo senza capire niente. “Chi non ha capito tutto non ha capito niente”, è una delle epigrafi da Gurdjieff. Se non capiamo quell'isola di libertà che portiamo, a maggior ragione non abbiamo capito niente. Nei testi che si susseguono, in questo libro rarefatto di suoni e così denso di vita, Stefano Dal Bianco, come il Zanzotto a lungo amato e studiato, ha tradito per amore ancora una volta, anche questa volta. Credo sia andata più o meno così, per questo il suo nuovo libro avrà lasciato molti perplessi (penso alle posizioni che non condivido di Matteo Marchesini, allargate in questo articolo anche ad altri autori come Mario Benedetti). Ora sta a noi scegliere cosa fare di questo suo nuovo sasso gettato sull'acqua, nell'acqua, ricordando – tornando ancora a Planaval – che “Noi dobbiamo stare con i sassi. / Sono una cosa del mondo. / E dobbiamo cercare di capirli. / È per questo che ho scritto una poesia che ha bisogno di un gesto e di un pensiero. / Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi.” Di tutte le epigrafi, che funzionano qui come vento di accompagnamento alla lettura, ho trovato particolarmente efficace quella della sezione Si, che costituisce poi una delle epigrafi più recenti citate da Dal Bianco, visto che appartiene a Jerzy Grotowski, il regista polacco del teatro povero. Qui ci viene offerta un'immagine, forse enigmatica, che ci può accompagnare nella rinnovata poesia di Stefano Dal Bianco: “Non è per il gusto di parlare che lavoro, ma per allargare l'isola di libertà che porto”. Ecco il lavoro, la libertà, l'isola di questo poeta, lo stesso che potete incontrare confuso in Via Garibaldi. Che cosa incontrerà l'allargarsi dell'isola? Non lo sappiamo, ma abbiamo pazienza.

Autolavaggio


Forse dovremmo bere molto.
Forse dovremmo respirare meglio.
Io morirò per qualche cosa di circolatorio.
Tu morirai per qualche cosa di cardiaco.
Tutto normale. Le tubature e la pompa.

Allora cibarsi con cognizione, 

respirare consapevolmente,
ogni giorno lavare la macchina
con quello che ci viene offerto, la materia,
la materia che raffina i Pneumatici.

Spazzare via ciò che non serve,

lasciarsi impressionare da vivande più sottili,
coltivare una pazienza attiva,
pregare: chiedere e aspettare.

Tutti i giorni lavare la macchina

senza pensare di sapere-già,
senza pensare di sapere-tutto.

Separare le cose dai significati, andare contro

a ciò che di meglio si è pensato,
perché qualcosa va perduto in noi
perché una nuova nota suoni.

4 commenti:

  1. Lo prenderei, anzi, lo prenderò questo libro, fosse solo per le poesie riportate...... buonasera

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  2. A me è piaciuto e stop. Ciao federico

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  3. ...ultimamente finisco spesso su questo blog quando cerco recensioni di alcuni libri che mi interessano... vedo anche cose che mi nteressano nei passati interventi... gianluca

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  4. libro non letto ancora ma quel che dici su certi blog e' vero... sono ridicoli ormai, pieni di astio poi...

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