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giovedì 26 aprile 2018

"L'inconscio e la dialettica" di Enzo Melandri e la fondamentale critica a Freud

Presso la casa editrice Quodlibet prosegue la pubblicazione e sistemazione doverosa di tutte le opere del filosofo Enzo Melandri (Genova 1926 - Faenza 1993). Anni fa, su queste pagine, già abbiamo dato notizia di un libro tanto piccolo quanto fondamentale intitolato I generi letterari e la loro origine. Con riferimento a quel contributo, più passa il tempo e più ci accorgiamo del valore di quel breve scritto. Succede spesso così: una manciata di pagine può dare una scossa più forte di un tomo di cinquecento e in filosofia e nella scienza è spesso accaduto proprio questo (altre situazioni come la prosa e ultimamente anche la poesia hanno inspiegabilmente bisogno di allargarsi ed espandersi). Ora nella stessa collana compare L'inconscio e la dialettica (pp. 112, euro 12, con una postfazione di Felice Cimatti), un testo che uscì per l'editore Cappelli di Bologna nel 1983 e nel quale l'economia politica di Marx e l'inconscio di Freud arrivano a toccarsi e fertilizzarsi. Per arrivare a dire quello che preme, Melandri adotta un progressivo confronto con l'opera dello psicanalista argentino Ignacio Matte Blanco, il cui progetto consente al filosofo di mostrare come la contraddizione e gli oggetti contraddittori, che avrebbero la propria locazione proprio nell'inconscio, siano una "metafora dinamica". 

In una trattazione che abbraccia ipnosi, sogni, inconscio (sostantivo nell'accezione forte, aggettivale nella versione debole), la matematica di Cantor e Dedekind, Melandri prende avvio dal problema fondamentale della dialettica, ovvero prende le mosse chiedendosi se l'oggetto del discorso possa essere contraddittorio o meno. Sullo sfondo c'è l'urgenza di capire se di un dato oggetto del discorso si può parlare in modo sensato (ad esempio un oggetto che sia contemporaneamente A e non-A risulta contraddittorio e risulta arduo parlarne in modo sensato). La questione si fa interessante se applicata alla psicanalisi e all'inconscio in particolar modo. Cimatti nella postfazione sintetizza il problema chiedendo come è possibile occuparsi dell'inconscio alla maniera di Freud, se "il modo scientifico di conoscere qualunque oggetto si basa su operazioni logico-linguistiche affatto incompatibili con le (presunte) caratteristiche di quello stesso oggetto?" Sullo sfondo, centrale, il problema di come sia possibile parlare dell'inconscio, cioè di qualcosa che sfugge al nostro apparato cognitivo. Nel corso di queste pagine Melandri cerca sostanzialmente di capire (e contestare) l'attributo di illogicità dato da Freud all'inconscio.

La temperatura del ragionamento di Melandri sale allorquando definisce la psicanalisi come interpretazione di manifestazioni neurotiche mediante logoterapia e osserva, se le cose stanno così, come questa diventi una pratica poco convincente che può andare presto a noia. Come può essere che lo psicanalista interpreti o spieghi il sogno o l'atto mancato? E se l'inconscio fosse davvero illogico, come provare a fare su questo un ragionamento scientifico o addirittura, come tenta Melandri, come provare a perseguire l'epistemologia della psicanalisi? Qui s'innesta l'idea regolativa dell'inconscio che secondo Melandri la psicanalisi deve postulare al fine di rincorrere un discorso più efficace e teoreticamente elegante e qui si innesta anche il capovolgimento e contraddittorio rispetto a Freud: non illogico bensì irrazionale è il nostro inconscio, quindi, per definizione, oggetto non catturabile dai nostri strumenti della logica, ovvero dagli stessi strumenti dai quali il discorso era partito. Ma non è possibile rinunciare alla logica per Melandri, mai e poi mai, perché rinunciare alla logica significa precludersi qualsiasi possibilità di conoscenza. Spesso diciamo di un sogno che è assurdo perché vogliamo inquadrarlo in una data logica che non è la sua. In tale cornice ogni evento psichico mantiene una straordinaria autonomia e l'inconscio diventa "obiettivo di un certo sistema di incongruenze".

Come si può dunque conoscere l'inconscio? Innanzitutto serve scalpellare una radicale critica di Freud, laddove riduce l'inconscio a fatto segnatamente linguistico. Per Melandri è venuto il momento di slegare il fatto psichico dall'accento dominante che su di questo esercita il linguaggio. Viva allora la psicanalisi che resta ben salda nel mondo della parola, ma stiamo attenti che la sfera della psiche non si sovrappone a quella del linguaggio, ma è a questa antecedente. E se con Lacan si può arrivare a dire che l'inconscio è strutturato come linguaggio, questo non significa che si possa dire che l'inconscio è linguaggio. Le possibilità conoscitive attorno all'inconscio per Melandri non si possono pertanto fondare su un sapere ancora saldamente logico o saldamente linguistico. Serve un sapere che si apra all'ignoranza, a ciò che sfugge e proprio qui, così, il circolo si salda con la dialettica del titolo di questo saggio. La psicanalisi, nel lacaniano Melandri, si smarca dalla sua centratura linguistica e lo psicanalista diventa colui che propone buone analogie affinché il paziente possa arrivare a pensarsi in modo inedito, scongelato. Come chiude Cimatti la sua postfazione, la psicanalisi così facendo "non dà la parola all'inconscio, al contrario, produce nuovo inconscio, e così facendo inevitabilmente lo rivoluziona."

lunedì 28 marzo 2016

"No memory, desire, understanding"? Per una riabilitazione dell'oblio

Nella copertina blu, in corpo aumentato, campeggia la parola-titolo da sola: oblio. Qualcuno direbbe una parola "poetica". Altri una parola "poco usata". Abbiamo tutti una vaga idea di che cosa sia, di cosa fosse il Lete: si beveva e si dimenticava (per Dante questo fiume si trovava in Paradiso). Se n'è occupato bene e trasversalmente il filologo romanzo tedesco Harald Weinrich in quel libro edito da Il Mulino intitolato Lete. Arte e critica dell'oblio, dove tra le altre cose si puntava il dito su un fatto semplice, paradossale, cortocircuitante: ci siamo dimenticati dell'oblio o magari questa dimenticanza è diventata altro. Del resto, di fronte a certi orrori del Ventesimo secolo si è voluto innestare una sospensione dell'oblio e se ne capiscono chiaramente le ragioni. Ma ancora, andando a ruota libera: "Passa la mia nave colma d'oblio" recita il verso celebre di Petrarca. Oppure Funes el memorioso era invece quell'uomo che ricordava tutto nel racconto di Borges (e che strazio essere "memorioso", forse). Ma esiste davvero l'oblio al di fuori di situazioni cliniche e medicalizzate, come ad esempio l'Alzheimer? In che rapporti stanno oblio e rimozione? Si tratta del contrario e della negazione della memoria e del ricordo? Sappiamo del potere creativo dell'oblio, dell'utilità dell'attività onirica in tal senso. Iniziamo anche a sentir parlare di "diritto all'oblio", al di fuori della normale valenza giuridica di questa dicitura e alla faccia del voler esser ricordati (e la rete gioca la sua parte in questo nuovo dibattito, viste le molte tracce che lascia, sicuramente evanescenti ma pur sempre tracce). Sappiamo insomma che se parliamo di oblio stiamo parlando di qualcosa che, se non ne è l'esatto contrario, va quantomeno nella direzione opposta al tema insistente e da decenni portante della "memoria". La parola "oblio" non è quindi di facile e univoca definizione. Il suo etimo sembrerebbe semplificare drasticamente la questione, riportandoci all'oblivium dei latini, eppure stavolta l'etimologia non ci soccorre del tutto, tanto meno per introdurre al libro-quaderno di oggi. Oblio non è dimenticanza, non è soltanto quella almeno e non perché "dimenticanza" ha assunto le disidratate valenze di una "svista". Sta in questo nucleo di pensieri, volutamente semplificati, un trampolino per tuffarsi nel tentativo di riabilitazione completa dell'oblio contenuto in questo volume della serie "quaderni dell'espressione" pubblicato da Cronopio (pp. 176, euro 15), il quale ci devia verso una forte componente di trascolorazione, di calma e di serenità insite nella possibilità di obliare. Evidenti per il lettore saranno i rimandi alla psicanalisi (dai più normali Freud e Lacan, ai meno scontati Wilfred Ruprecht Bion, Ignacio Matte Blanco e Armando Ferrari).

Scrive nell'introduzione Walter Procaccio, curatore dell'opera, che il quaderno è un'antologia di capitoli in sé chiusi che tentano l'operazione ardua e coraggiosa della riabilitazione dell'oblio. Prosegue scrivendo che "una sterminata letteratura conferisce alla memoria, all'archiviazione diligente, alla testimonianza il rango di dovere etico e all'oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere". Alla fine di tutto, l'intento di chi contribuisce a questo volume è mostrare come l'oblio possa considerarsi "risorsa prosperosa". Insomma, come riporta Paolo Carignani nel suo scritto, l'antitesi che mette di fronte memoria e oblio è ingiustificata in quanto questi sono due atti un unico processo. Per Maurice Blanchot chi vuole ricordare deve affidarsi all'oblio, "a quel rischio che è l'oblio assoluto e a quel caso fortunato che allora diventa il ricordo". Le continue cicatrici con cui si graffia il corpo e l'intelletto, le relative tracce mnestiche e tutto un filone di studi sul trauma possono avere molto più a che fare con l'oblio che con il ricordo. E per molti versi, l'atto di ricordare non ha nulla a che vedere col passato. Di qui, e anche dalla profonda inalienabile necessità dell'uomo di calmarsi, passa questo interessante tentativo di riabilitazione dell'oblio, espresso in questo fascicolo a più voci color carta da zucchero.

L'operazione editoriale di questo quaderno è evidentemente in contrappunto con le tante pubblicazioni che ingolfano il versante apparentemente opposto e contrario della "memoria", soprattutto nei primi mesi di ogni nuovo anno (e questo quaderno è uscito nei primi mesi dell'anno 2016, quando è la calendarizzazione della memoria a tenere banco). La composizione del "quaderno" è volutamente eterogenea e rimanda a spunti di origine filosofica, letteraria e psicanalitica. Gli autori sono, in ordine di apparizione, Felice Cimatti, Silvia Vizzardelli, Walter Procaccio, Paolo Carignani, Alessandra Ginzburg, Daniela Angelucci e Antonio Ciocca. Il tema intreccia i tanti assi dell'espressione filosofica e letteraria. Ad esempio il rapporto tra scrittura e oblio andrebbe indagato tanto quanto quello tra scrittura e memoria/testimonianza. Ma ci si sposta continuamente nei terreni dell'analisi, del desiderio, del giudizio, dell'osservazione e non si tralasciano infine le "scorribande" mistiche della riflessione sull'oblio, particolarmente evidenti nel caso di Wilfred Ruprecht Bion, lo psicanalista anglo-indiano da cui è tratto quella sorta di slogan del titolo ("No memory, deside, understanding"). Proprio nel contributo più incentrato sull'opera di Bion e sulla sua ricezione, Antonio Ciocca conclude scrivendo che "l'oblio, la pratica assidua e rigorosa dell'oblio, è il fiume Lete dove lavar via il noto, il saputo per rischiare di incontrare un'idea, un pensiero nuovo che fluttua ma che nessuno reclama." O come oblio.