domenica 29 maggio 2016

"Estrosità rigorose di un consulente editoriale" di Giorgio Manganelli

Mi sbaglierò, ma credo che libri come questo di Giorgio Manganelli appena pubblicato da Adelphi funzioneranno come serbatoio di idee e innesti per le articolazioni future dell’albero del catalogo di Adelphi. Estrosità rigorose di un consulente editoriale (pp. 340, euro 15, a cura di Salvatore Silvano Nigro) raduna infatti un considerevole numero di risvolti, lettere editoriali, proposte ma soprattutto sintetici, precisi e tagliatissimi pareri e schede di lettura su opere esaminate con perizia e acume e quindi vagliate per conto di Garzanti e Einaudi, in ottica di eventuali traduzioni. La maggior parte dei materiali è inedita e si concentra nel decennio dei Sessanta (Hilarotragoedia esce nel 1964 e anche le date, comprese quelle che hanno battezzato gruppi, vanno quantomeno pensate, per avere il polso del momento di vita in cui Manganelli fa anche questo lavoro). Tuttavia, i materiali del volume, per la maggior parte messi a disposizione dagli archivi delle case editrici, arrivano a ridosso della morte dell’autore con alcune lettere del 1990.

Il libro è diviso in sei parti. Nella prima il centro dell’attenzione è sul costrutto di collana, sulla sua progettazione, vestizione e sulla rilevanza di quarte di copertina, risvolti e note critiche. Nella seconda potrete leggere alcune lettere, mentre nella terza vi addentrerete nella parte più interessante del libro: le schede contenenti i pareri di lettura. Sono testi di lunghezza simile, che tratteggiano il libro letto, lo contestualizzano e si chiudono con un pensiero sulla fattibilità editoriale. Non di rado le chiuse, laddove Manganelli deve propendere per un sì o per un no, sono la parte più memorabile fra tutte (“Lettura ferroviaria, da treni accelerati, novembrini. No.”, così decide di By the Waters of Whitechapel di Bernard Kops). Il registro si mantiene tra il colloquiale e il tecnico, dando forma a dei pareri che si manifestano a noi con quella brillantezza e coraggio del giudizio precoce, in cui una lettura individuale e isolata è consapevole di poter essere l’impulso per un acquisto di diritti di un libro da tradurre e collocare dentro un catalogo (parlando di un libro di racconti di Donald Windham, The Warm Country, Manganelli  chiude con un dubbio che si potrebbe rivolgere pari pari a molte case editrici oggi: “Mi pare da tradurre (ignoro, tuttavia, quale sia l’opinione editoriale sui libri di racconti.”) C’è un aspetto da sottolineare ed è importante: le schede editoriali che stroncano non sono meno interessanti di quelle che caldeggiano la traduzione di un libro, perché motivano il no in un modo per noi del tutto istruttivo. Anche la quarta parte contiene una ricca serie di pareri di lettura, oltre a dei pensieri sul tradurre. Il Commento invece suggella i materiali dispiegati in sequenza contestualizzando fatti, luoghi e persone in quello che diventa, alla fine, un efficace compendio di storia dell’editoria italiana.

Nella sesta parte del volume Salvatore Silvano Nigro, sotto un’epigrafe manganelliana presa da un verbale di riunione Einaudi del 1966 (“Ho un buon tonnellaggio di carta”), unisce in una nota i momenti principali del percorso consulenziale che ha coinvolto l'autore sin dal periodo dei primi anni Sessanta, quand'era docente di inglese in un istituto tecnico femminile popolato da “quelle donne ansiose di farsi segretarie d’azienda”, e ricorda anche i suoi principali contatti presso le case editrici (leggendo questa nota ho pensato che sarebbe giunto il momento di valutare con maggiore attenzione e consapevolezza l’azione canonizzante di Pietro Citati nella letteratura e editoria italiana del Ventesimo secolo). Ma al di là di questo inciso, per definizione secondario, il materiale qui raccolto, unito alla nota di Salvatore Silvano Nigro e persino all’utile e indispensabile indice dei nomi e delle opere predisposto dai curatori, fanno di Estrosità rigorose di un consulente editoriale un’opera che non mancherà di attrarre i lettori di Manga, i curiosi di quel che accadeva nell’editoria di allora e magari anche chi cerca qualche opera sfuggita a una traduzione italiana. Ce ne sono parecchie e alcune le troviamo qui caldeggiate da Manganelli. Le poche righe di una sua scheda basterebbero a favorire una ricerca o una lettura dell’opera di cui egli consiglia l’acquisto dei diritti di traduzione. Per questo motivo il mio intervento inizia con quel pensiero sulla possibilità, non tanto remota, che un libro simile si trasformi nell’anticamera di alcuni sviluppi del catalogo della casa editrice che sta via via pubblicando tutte le opere di Manganelli, consulente editoriale estroso e rigoroso che agisce ancora dal suo ufficio d’oltretomba.

giovedì 26 maggio 2016

Alcune poesie di Matthew Sweeney su "Testo a fronte n. 53"

Riviste #7

Il numero 53 della rivista semestrale dedicata alla traduzione letteraria "Testo a fronte" (Marcos y Marcos, euro 25) è uscito un po' di tempo fa. Questo fascicolo contiene una manciata di testi del poeta irlandese Matthew Sweeney che ho scelto e tradotto. Riporto di seguito la nota introduttiva che accompagna la piccola antologia e una delle poesie.

 Nota

Matthew Sweeney  è nato a Lifford, nella contea di Donegal, nel 1952. Ha studiato al Polytechnic of North London e all’università di Friburgo e ha trascorso diversi anni tra Berlino e Timisoara, prima di fare ritorno in Irlanda, a Cork, dove vive. Rappresenta oggi una delle voci più significative della poesia irlandese contemporanea. Il poeta serbo-americano Charles Simic ha detto che le sue poesie «sono riflessive, divertenti, estremamente fantasiose e scritte in modo impeccabile; insomma, sono poesia contemporanea ai più alti livelli».

La poesia di Sweeney, di cui qui è dato uno tra i primissimi saggi di traduzione in italiano, è attraversata dai modi della narrazione immaginifica e giunge a una forma di realismo che l’autore stesso ha definito, in un’intervista rilasciata a Lidia Vianu, «alternative realism». Questo realismo alternativo, che non è certo di matrice surrealista, trova dei precursori nella letteratura tedesca, a lungo studiata da Sweeney, e nell’amato Kafka, e giunge ad assottigliare fin quasi alla trasparenza il confine tra ordinario e favoloso. Nei suoi componimenti, quasi sempre scevri di elementi decorativi, il banale e l’usuale di ogni giorno, ma anche quegli accadimenti che semplicemente bolleremmo come strani e sospesi, sembrano impennarsi verso un monotono sublime, non esente dalle pennellate del grottesco, dell’umorismo nero, del ridicolo e a tratti persino da quelle del mistero. Non di rado al lettore sembra di assistere alla rivisitazione della celebre suspension of disbelief applicata a contesti di apparente normalità. I suoi testi poetici abitano entrambi i territori della poesia, quello visivo della lettura e quello orale dell’ascolto, senza essere mai soltanto da una parte o soltanto dall’altra. Del secondo regno, quello dell’oralità, Sweeney sembra preservare, più che altri caratteri, una cornice enigmatica di parabola e di inedito e moderno exemplum senza auctoritas, sia che la sua macchina da presa operi in scene d’interno sia che il ciak avvenga all’esterno.

Tra i libri di Matthew Sweeney ricordiamo, in ordine di pubblicazione, A Dream of Maps (1981), A Round House (1983), The Lame Waltzer (1985), Blue Shoes (1989) e Cacti (1992) usciti per l’editore Secker & Warburg, The Bridal Suite (1997), A Smell of Fish (2000), Selected Poems (2002), Black Moon (2007) pubblicati da Jonathan Cape, The Night Post: A New Selection (2010) uscito per Salt e il più recente Horse Music (2013) nel catalogo di Bloodaxe Books. Tra quelli di poesia per bambini si ricordano The Flying Spring Onion (1992), Fatso in the Red Suit (1995) e Up on the Roof: New and Selected Poems (2001). Ha scritto anche racconti per bambini inclusi in The Snow Volture (1992) e Fox (2002). Per l’editore Faber ha curato The New Faber Book of Children’s Poems e Walter De la Mare: Poems (2006). Assieme a Jo Shapcott è stato il curatore di Emergency Kit: Poems for Strange Times (2006) uscito sempre per Faber ed è uno degli autori di Writing Poetry (Teach Yourself series, 1997) e del racconto Death Comes for the Poets pubblicato da Muswell Press nel 2012, assieme a John Hartley Williams.
Nel 1997 è stato incluso nel dodicesimo volume della serie antologica Penguin Modern Poets assieme a Helen Dunmore e Jo Shapcott. Il libro di poesie del 2007, Black Moon, è entrato nella short-list del T.S. Eliot Prize. 


Cactus


Dopo che se n’era andata comprò un altro cactus
identico a quello che lei gli aveva preso
all’aeroporto a Marrakech. Dovette cercare
un bel po’ per Londra e poi a Camden Town
tra orde di bambini che si tenevano per mano
e ostruivano il mercato, lo trovò,
lo prese e lo portò a casa accanto al suo.
La settimana dopo tornò a prenderne un altro,
poi un altro ancora. S’era fissato a provare
tipi differenti, intensi di un rosso vivido
come il sorriso della commessa 
che non aveva notato. Comprò pure un tappetino
tinta sabbia per il soggiorno e trascorse
un fine settimana a ridipingere 
le pareti in beige, il soffitto in azzurro.
Il logoro appartamento era ora rifoderato
col colore della tintarella. Si distese sul divano
indossando una djellaba marrone, coi cactus tutti attorno
e musica araba in sottofondo. Dovesse tornare,
pensò, potrebbe sentirsi a casa.


Cacti (da Cacti, Secker and Warburg, London, 1992)


After she left he bought another cactus
just like the one she’d bought him
in the airport in Marrakesh. He had to hunt
through London, and then, in Camden,
among hordes of hand-holding kids
who clog the market, he found it,
bought it, and brought it home to hers.
Next week he was back for another,
then another. He was coaxed into trying
different breeds, bright ones flashing red –
like the smile of the shop-girl
he hadn’t noticed. He bought a rug, too,
sand-coloured, for the living room,
and spent a weekend repainting
the walls beige, the ceiling pale blue.
He had the worn, black suite re-upholstered
in tan, and took to lying on the sofa
in a brown djellaba, with the cacti all around,
and Arab music on. If she should come back,
he thought, she might feel at home.



mercoledì 25 maggio 2016

Piovono occhi morti.
Una lettura dei poeti della Prima guerra mondiale a Treviso

Segnalo un appuntamento appartenente a un cartellone articolato di eventi sulla Grande guerra proposto dal Comune di Treviso tra l'1 e l'11 giugno 2016. Estrapolo questo appuntamento, organizzato in collaborazione con TRA Treviso Ricerca Arte, perché mi vede coinvolto nella cura assieme a Matteo Giancotti e a Marco Scarpa. Ringraziamo ancora le persone che renderanno possibile questa serata di letture da poeti italiani e stranieri (in originale e traduzione). Il titolo è da un verso di Apollinaire. L'appuntamento è per giovedì 9 giugno alle ore 20:45 al chiostro di Santa Caterina (in caso di maltempo nel palazzo di Ca' dei Ricchi).


Il pieghevole in formato *.pdf con tutto il programma degli eventi della rassegna organizzata dal Comune di Treviso è scaricabile a questo link. L’ingresso è gratuito per tutti gli appuntamenti.

(Nei prossimi giorni mi auguro di poter ospitare uno stralcio dell'intervento critico che Matteo Giancotti proporrà prima delle letture dai poeti italiani da lui selezionate.)

Info
cultura@comune.treviso.it
tel. 0422 658318
www.comune.treviso.it
Twitter: @ComuneTreviso

domenica 22 maggio 2016

"Edipo non deve nascere. Lettura delle Poésies di Mallarmé" di Massimo Blanco: "hymne" come anagramma di "hymen"

Nel campo poetico, per usare un po' impropriamente un termine passepartout introdotto da Pierre Bourdieu, è inevitabile che un'indagine informata e fonda nonché qualsiasi ricognizione critica passi e ripassi continuamente nell'Ottocento poetico francese. Lo dimostra chiaramente anche Massimo Blanco, docente di Letteratura francese presso “La Sapienza”, in un volume tanto ricco quanto essenziale nell'economia dell'impostazione. A Baudelaire e a Mallarmé Blanco ha dedicato una parte cospicua della propria ricerca, che poi spazia e approda oltre, al secolo Ventesimo, a Paul Valéry, al Surrealismo e alla poesia francese della seconda metà del secolo scorso. In Edipo non deve nascere. Lettura delle Poésies di Mallarmé (Leo S. Olschki Editore, pp. xii -248 pp. con 4 tavv. f.t., euro 32) si cimenta però con il mito solare in Mallarmé, raduna nel percorso le distorsioni di alba e tramonto, le continue alterazioni di scene cosmiche-atmosferiche che in Mallarmé spesso assurgono a sgorbie mediante le quali modellare e procedere con un'operazione di rimozione del dolore e di ciò che lo ha originato, sia questo la perdita di una persona, l'assenza e la mancanza d'amore (ricordiamo soltanto, sul versante della biografia, la perdita a 37 anni del secondogenito Anatole di 8 anni).

«L'explication orphique de la Terre, qui est le seul devoir du poète", così si esprimeva il poeta in una lettera a Paul Verlaine del 1885. Il centro dei suoi pensieri era costituito dall'opera, il Livre, e dalla sua messa in scena, aspetti sui quali a lungo lavorò e di cui non molto sappiamo anche a causa della volontà di distruzione delle note trasmessa ai familiari al momento della morte. Nelle pagine iniziali Massimo Blanco sgombra il piano del discorso da qualsiasi dubbio che "orfico" possa rimandare a qualche forma di esoterismo, che fra l'altro cozzerebbe con l'adozione della parola "explication" da parte di Mallarmé stesso. Insomma, l'interrogativo che muove questo studio è anche l'interpolazione tra l'architettura dell'opera che Mallarmé aveva in mente e il suo confrontarsi con una "dottrina orfica". "Dottrina orfica" che rimanda agli inni orfici e alla circolarità e ciclicità perpetua tra eroe-inno (il "canto-tessuto") e madre-figlio. Da queste riflessioni si avvicina pure la chiave per comprendere il titolo scelto per questo studio di Massimo Blanco. Il Livre di Mallarmé si manifesta pertanto come un ciclo genealogico con ruoli intercambiabili - dove "hymne" è anagramma di "hymen" - e alla luce di queste considerazioni il lettore potrà approfondire l'analisi  dei singoli testi presi in esame. Il Livre quindi nega un senso lineare, non comincia e non finisce, ma è circolare e solo nella circolarità vi è una porta d'accesso alla poesia.

L'interesse sviluppato da Mallarmé per la mitologia comparata (il poeta tradusse il manuale di mitologia del reverendo George William Cox a uso scolastico) emerge tutto nella struttura di questo studio che consta della compenetrazione di due analisi: da un lato la ricostruzione dell'ideologia e della struttura del Livre e dall'altro la ricomposizione della linea narrativa del Fauno. Lo studio in questione si sofferma quindi su due opere accomunate dall'essere incompiute e Massimo Blanco si cimenta con quanto si palesa davvero come "officina tematica e strutturale" di tutto ciò che andrà a comporre il corpus delle Poésies di Mallarmé. Il "dramma solare", categoria critica fondamentale nella vicenda mallarmeana, è un dramma di assenza e di memoria:
Dentro le Poésies si aggirano gli dèi antici, delle presenze riconoscibili. Sfruttandone il tramite, Mallarmé tenta di mettersi in relazione con gli assenti: la madre, la sorella, Anatole. Tenta, ma esita anche, rinunciando spesso alle opportunità che gli si presentano in cui può raccontarsi e descrivere i propri dolori.
   E fa questo intervenendo su ciò che avverrà sul piano del mito. Il locutore delle Poésies non è di certo un io lirico baudelairiano. È piuttosto uno stratega della reticenza che non manca di stupirsi degli effetti del proprio operato, affiancando la curiosità e le perplessità del lettore. Ebbene, egli cerca di impedire o di ritardare ciò che si è consapevoli dovrà accadere. Il mito, infatti, presenta delle vicende note nella loro sequenza completa.
   Mallarmé avverte il bisogno di arrestare gli snodi del destino, come se volesse così esorcizzare il ricordo di quanto è avvenuto bloccando il filo dei canovacci mitologici. Basti tra tutte la storia di Edipo e Giocasta: il poeta tenta di agire sul loro destino evitando che si realizzi. [...]
Un pensiero conclusivo va alla traduzione di Mallarmé in italiano. In questo importante contributo di Massimo Blanco la traduzione italiana di Mallarmé non è centrale e non poteva esserlo e vi troverete analizzate le poesie e non certo le versioni di queste. In questo studio potrete seguire l'analisi approfondita e tutti i vari "rendiconti critici" che toccano, per quel dato componimento in esame, i punti salienti di una vicenda critica mai conclusa, fino agli aggiornamenti più recenti della bibliografia mallarmeana, ma il problema della traduzione davvero non poteva qui essere centrale. Tuttavia, così come non è mai chiusa la vicenda critica, non lo può essere la vicenda traduttiva di un poeta che pone, nella ricreazione in un'altra lingua, pressoché insormontabili impasse, non solo semantiche e di senso, bensì, ancor più radicalmente, difficoltà sintattiche. Che si prenda la traduzione di Luciana Frezza, quella di Patrizia Valduga o quella proposta da Adriano Guerrini e Valeria Ramacciotti, il punto d'approdo del ragionamento è sempre quello: si tratta di traduzioni tanto necessarie quanto provvisorie, ontologicamente provvisorie e necessarie come ogni traduzione in una data lingua. Uno studio come Edipo non deve nascere, inesistente fino a pochi mesi fa, diventa un sostegno imprescindibile per qualsiasi futuro traduttore di Mallarmé. Se nella bibliografia troverete solo parzialmente il problema della traduzione italiana, e riscontrerete piuttosto la presenza dei noti studi su Mallarmé licenziati via via da Stefano Agosti, Carlo Bo, Mario Luzi, o quello recente di Federica Spinella (fra altri italiani e soprattutto tra altri titoli di una bibliografia dal respiro davvero ampio), questo non significa che sia anche verso il problema traduttorio che questo beau livre dirige con grande efficacia la propria traiettoria. Non è esagerato pensare che la traduzione sia una peculiare forma di critica letteraria.

giovedì 19 maggio 2016

REALITY: letture e visioni. Dialogo sulle forme del dominio contemporaneo a Treviso

Ricevo e segnalo questa comunicazione relativa a una serie di appuntamenti legati a dei libri e a dei film precisi, elencati qui sotto. Gli incontri avranno luogo alle 20:45 presso Dirtmor/Prc di via Pisa 13 a Treviso per tre mercoledì consecutivi, a partire dal prossimo 25 maggio. Si inizia con Igor De Marchi, poi Walter Dal Cin e infine Sergio Venturino.


mercoledì 18 maggio 2016

Enrico Emanuelli: "Una lettera dal deserto" e le altre riproposte di Endemunde

La casa editrice Endemunde ha riproposto all'interno della collana 60/70, dedicata alla riscoperta dei titoli pressoché dimenticati di quei decenni, un libro di Enrico Emanuelli uscito inizialmente nel 1955 col titolo Le lettere del Capitano e poi, in edizione ampliata, con l'attuale titolo Una lettera dal deserto, cinque anni più tardi. Non è l'unico titolo disponibile tra quelli dello scrittore e giornalista che condivise per qualche anno con Eugenio Montale l'ufficio di direzione della pagina culturale del "Corriere della Sera", fino alla morte per arresto cardiaco la notte del primo luglio 1967, all'età di 58 anni. Sempre Endemunde ha infatti proposto qualche anno fa, nella stessa collana, Un gran bel viaggio, volume inizialmente comparso ne "I narratori di Feltrinelli" proprio nel 1967. Scrittore precoce (esordirà nemmeno ventenne nel 1928 con Memolo, ovvero vita, morte e miracoli di un uomo, ripescato da Manni non molti anni fa), autore di una biografia del Pindemonte, reporter e viaggiatore (scrive dalla Russia, dall'India e dalla Cina), traduttore dal francese (Constant, Stendhal, Gide, Voltaire), Emanuelli è uno dei tanti autori dimenticati dal sistema editoriale e quindi ripresi o ripescati che dir si voglia. (Sia detto per inciso che l'antiquariato librario o comunque il "fuori commercio" assume sempre più curiosamente i tratti di un universo parallelo, di una piscina senza corsie, così diversa dalla piscina irregimentata del "disponibile".) La casa editrice Endemunde ha inaugurato un ciclo di riproposizione delle sue opere che proseguirà con la pubblicazione del libro postumo Curriculum mortis.

Una lettera dal deserto (pp. 64, euro 8) uscì quindi nella forma in cui lo leggiamo oggi nel 1960 per Il Saggiatore. La vicenda è ambientata circa a metà del secolo scorso, in Perù. Qui vive un ex tenente e medico del nostro esercito, assieme a una moltitudine di indios e di capi di bestiame. La solitudine è rotta dall'arrivo di un giornalista che nella narrazione ha un ruolo di primo piano e parla in prima persona (anche se il vero "narratore" è l'ex tenente). La lettera del titolo è una lettera mai spedita dall'ufficiale, soltanto annunciata, sulla quale si concentra il mistero che sorregge l'impianto della storia. Via via che la breve storia si dipana ci avviciniamo all'esperienza di guerra in Libia, alla prigionia del tenente e infine all'amaro del ritorno a casa del reduce. Anche questo breve libro di Emanuelli affronta uno dei temi giganti della narrativa del Novecento, vale a dire quello del ritorno, per meglio dire del ritorno a casa dopo la guerra. I dialoghi che Emanuelli ha saputo contenere in queste poche pagine lasciano addosso stupore, se paragonati ai tanti dialoghi legnosi della prosa di oggi. La conversazione in Perù tra il tenente e il giornalista sa colpire per "eleganza e snellezza", doti già ricordate da Giacomo Debenedetti nelle sue note editoriali per la "Biblioteca delle Silerchie" de Il Saggiatore. Poco da fare: Emanuelli, giornalista dei grandi quotidiani, partito col desiderio di "diventare un letterato" e finito per "diventare uno scrittore", ci interessa e ci auguriamo di leggerlo ancora. Anche la differenza tra letterato e scrittore è gigante, e nella sua piena comprensione spesso ci giochiamo o freghiamo tutto. Qui sotto, a chiudere, il passo finale del libro e del dialogo tra l'ex tenente e il giornalista:
[...] «Ma loro» dissi «erano alla vigilia della morte.»
«Oh, se è per questo anche noi lo siamo e non vogliamo mai pensarci. Guardi i quattro indios che fingono di dormire sul primo gradino del bungalow: vivo con loro e con altri duecento che sono adesso sparsi ai margini della foresta. La mia fortuna nasce dal fatto che mi trovo in una posizione eccezionale, in un luogo eccezionale, in mezzo a uomini e donne eccezionali. Me ne rendo conto. Ma tutto ciò serve a non mettere nessuna riserva o compromesso tra i miei pensieri e le mie parole, tra le mie parole e i miei gesti. Mi sembra di toccare a ogni istante la verità, come proprio fecero Petriccione, Ognibene e Salvini nel deserto della Marmarcica.»
Il narratore, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «Oh, la prego ancora una volta: non mi consideri un presuntuoso e neanche un vigliacco. E adesso rientriamo, fa freddo.»

lunedì 16 maggio 2016

"The Book Cover in the Weimar Republic / Buchumschläge in der Weimarer Republik" di Jürgen Holstein

Covertures #10

In quanto a copertine in Italia non siamo messi così male. D'accordo, dopo La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e il suo strepitoso successo è stata un'invasione di volti in primo piano, occhi su quella tonalità, sguardo circa come quello, inclinazione del collo circa come quella, sfondo verdino circa come quello, foglie e boschetti ecc. Non è difficile capire il motivo: annaspando si cercano appigli e la copertina è uno dei principali appigli per adescare lo sguardo in libreria. Di qui l'imitazione dei casi di successo e il benchmark. Nei 20-30 secondi che prevedono il richiamo dell'attenzione di una persona in libreria, l'interesse di afferrare un libro, sfogliarlo e leggerne risvolti e altri paratesti, il desiderio di leggerlo per intero e l'azione di acquistarlo, un editore si gioca spesso il destino di una copia venduta. Naturalmente c'è chi arriva in libreria con le idee già formate su cosa acquistare e allora la copertina non avrà questa rilevanza. Quel che però spesso non si ricorda è che la copertina può e dovrebbe far parte sostanziale di un progetto di libro (e parlo di libro e non di collane coi loro "format"). Non è difficile ravvisare una certa uniformazione e banalizzazione delle copertine da quando anche le case editrici hanno iniziato ad utilizzare scriteriatamente le stesse banche date di immagini delle agenzie di pubblicità e comunicazione (Getty Images, iStockphoto ecc). Il volume di Taschen The Book Cover in the Weimar Republic / Buchumschläge in der Weimarer Republik curato dal librario Jürgen Holstein (pp. 452, euro 49,99, in inglese e tedesco) ricolloca la copertina del libro sul suo terreno d'appartenenza, cioè quello della cultura del progetto, dove tuttavia oggi sembra abitare sempre più malvolentiere e lo fa isolando un certo modo di progettare copertine emerso nella fucina della Germania weimariana, disponendo nell'impaginato un migliaio di esempi. Sotto alcuni scatti dall'interno del bel volume.






sabato 14 maggio 2016

sarebbe cominciato ancora tutto senza bisogno di parole: "Nella notte cosmica" di Roberta Durante

Ripescaggi #41

Questo scritto è già uscito nel sito "La Balena Bianca" giorni fa.

Un particolare del dipinto "Ascesa all'Empireo" di Hieronymus Bosch, che per un momento potrebbe far pensare a certe condizioni atmosferiche di Mara Cerri, fa da porta d'entrata a Nella notte cosmica (Luca Sossella Editore, pp. 88, euro 10, con CD audio di circa 30'), quinto libro di poesia di Roberta Durante da quattro anni a questa parte. Arriva dopo Girini (Edizioni d'if, 2012), Club dei visionari (Di Felice, 2014), Balena (Prufrock spa, 2014) e Susina (Edizioni d'if, 2015). Giustamente scivolante sulle paranoie che talvolta emergono circa la frequenza delle pubblicazioni di poesia - come se poi si potessero introdurre anche in quest'ambito le "quote latte" e come se la stitichezza di scrittura e una bassa frequenza di pubblicazione fossero necessariamente garanzie di qualità e ponderatezza - l'autrice sguscia fuori da questo nucleo di testi, accolti nella collana Vivavox, risospinta da una scommessa espressiva rara, in un gesto fonico e di immaginazione difficilmente riscontrabile in autori nati nella stessa decade (attenzione: parlo di decade e non di generazione, perché il termine mi sembra più asettico e meno compromesso nel "poetichese critico-editoriale" che piace tanto agli utilizzatori della formuletta “il più [aggettivo X Y o Z] della sua generazione”). Tra l’altro, c’è da dire che i diversi (brevi) libri citati si possono iniziare a leggere ormai in sequenza. La scrittura è traboccante di fantasia e moto perpetuo, è festa della parola in una singolare, straniante (a tratti persino paradossale) nostalgia di un mondo senza parole. Perché forse c'è da dire anche questo, in apertura: chi scrive questi versi usa la parola e lo sa fare meglio di molti altri, ma allo stesso tempo potrebbe prima o poi farne a meno, improvvisamente, senza alcun rimpianto e con pari consapevolezza di rinuncia e di resa davanti a una “una parola inesistente e fatta soltanto di luce”.

"sarebbe cominciato ancora tutto senza bisogno di parole" è il verso conclusivo di questo racconto (sogno?) di un viaggio spaziale tra terra, cielo e luna ovvero tra il pianeta, lo spazio di movimento dello sguardo e del corpo e il nostro satellite consigliere (e "Terra", "Cielo" e "Luna" sono i titoli delle sezioni del libro). E che fa la luna? “la luna con quella compassione d’astromadre / fece come per darmi la sua spalla / (non so come spiegare io la protezione / ma si capiva tutta l’intenzione) / e mi guardò con occhi dolci inesistenti: / quelli di chi mi avrebbe portata veramente sulla luna / senza alcuna fatica ma non per amore”. Questo triangolo di terra-cielo-luna, a suo modo comunque "amoroso", in cui insiste il congegno di lode del movimento e l'astronave-letto della scrittura conferisce un senso di circolarità al tutto, ratificato proprio dall'ultimo verso già ricordato. L'inizio è assenza di gravità. E forse sarà capitato anche a voi di sognare di volare, dentro una stanza o all'aperto, di provare stupore per la facilità con cui si svolgeva l'azione. E così si apre il libro e la sezione "Terra": “era la prima volta / che mi sentivo proprio nello spazio / aprivo e richiudevo le mie braccia / le gambe lisce come tazze / si aprivano nell’aria senza traccia di cammino: / facevo la Vitruvio distante anni luce / dalla mia gravità”.  Movimento archetipico il volo, certo, così come archetipici sono trama e ordito dell'opera, cuciti sul velo di Maya di un viaggio spaziale che si svolge in una "notte cosmica". Tuttavia, a dispetto del concetto di "ordine" cui rimanda qualsiasi "cosmo" o "cosmetica", è questo un viaggio in una notte “cosmica” di disordine, che spariglia continuamente lingua e pensiero, corpo e percezione, visione e movimento (“(la notte che era stata la mia vita)”, si legge in un verso). Ne nasce un’inedita sensazione di insufficienza e incompletezza del pensiero, di resa, come già ricordato poco sopra (oltre all'insufficienza e sostituibilità della lingua, di cui s’è detto). Ravviso in quest'esplorazione dell'incompletezza uno dei motivi di maggiore interesse di questa favola in versi: “non era mica male quest’apocalisse qua veloce / che dai miei nuovi cieli mostrava la sua ricreazione / ed io pronta com’ero già in partenza per la mia metanoia / mettevo insieme tutti i risultati: / divini di tempi diversi e quelli lunari e terrestri / raccogliendo in un unico cesto / tutto l’illogico possibile tutto lo scibile della demenza / (assenza di vita e di morte)”

H. Bosch, Quattro visioni dell'aldilà, 1500-1503 ca. (Palazzo Grimani, Venezia)
In quest'ascesa verso l'insufficienza e quindi in questa perlustrazione del limite del dire e del pensare, che a tutti gli effetti rappresenta una metànoia, nel senso del pensiero ma anche nel senso della retorica, cioè di continue affermazioni che si susseguono correggendo, rafforzando e indebolendo le precedenti, si flette e riflette la vocalità di chi ha scritto questo libro. E in questa visione che sembrerebbe tutta in perdita, così come avviene nei precedenti libri ricordati in apertura (e soprattutto negli ultimi due), anche il recente Nella notte cosmica punta il dito su un assetto in realtà meno rinunciatario della scrittura poetica, un'estensione di pensiero e pronuncia che prova a spingersi oltre il noto, dentro appunto una disarmata incompletezza di pensiero e sensibilità. Per fortuna siamo davvero lontani dalle tristi veline di poesia che talvolta si palesano a noi come un'emanazione seriale e reiterata di un novello MinCulPop poetico nazionale diretto da triumvirati o quadrumvirati a geometria variabile ma i cui vertici son meno variabili (talvolta, soprattutto fra i più giovani, è ravvisabile un'inspiegabile stanchezza del verso e dell'inventiva, una totale mancanza di coraggio che si riesce persino a far passare nei casi più spinti di malafede per "asciuttezza/freschezza" e allora soltanto adesso, per i fan del dato anagrafico, ricordo che l'autrice è nata nel 1989). Si incontra infatti tra queste pagine di poesie brevi, collegate tra loro in tante scene o pezzi, un gioco aperto con le aporie del pensiero e dell'immaginazione, con la lotta ingaggiata all'ubriacatura di pensarsi vivi nello spazio, fluttuanti, capaci di vedere e esser visti. Se questo libro è il racconto di un sogno (ma non lo è, anche se forse lo è… questa è un po’ la metànoia) allora il sogno è stato tutto ricordato e trascritto. Qui e lì affiora una paradossale nostalgia di un mondo senza parole, che tuttavia nella parola e nella sua irrinunciabilità trova il modo di inverarsi e ripetersi, e quindi il modo di far patire un inconsueto valore pedagogico di questa nostalgia. Sussiste il pensiero della problematica identitaria (“[…] in una lotta più lunga della vita / contro l’identità già fatta e già finita” oppure “sul finire continuo dell’infinito mio / al limite della mia luce / riflesso simile di mille me nell’atmosfera”) e altresì le continue risurrezioni da shapeshifter di celluloide, assieme alle insurrezioni ologrammatiche di un panorama cosmico sorvolato con un incosciente ritmo ragtime (“poco più di kebab / colava la mia essenza sulla terra”).

Il libro, unito al CD audio contenente la registrazione della lettura integrale del testo che fa l’autrice, può rappresentare un richiamo per chi desidera provare a disancorarsi dalla gravità e riprendersi il deliquio del buio, della paura totale (“paura” è parola fondamentale di tutto il testo), della sacralità di uno spazio cosmico (si avverte, secondo me, un tentativo di rielaborazione dell’ultimo Zanzotto, quello ancora tutto da percorrere nei Conglomerati). Appare quindi come danza circolare, com'è tutto circolare questo componimento, nel quale la luna ancora una volta fa la parte dello scrigno di pulsioni (“ma io sapevo che capiva / capiva da satellite;”) e, in fondo (ma quale fondo?), continua a giocare un ruolo così innestato nella tradizione, così saldo in questa, tanto da arrivare a tradirla. Significativo in tal senso il pezzo a pag. 63, da citare per intero: “mi feci forza sola che senza gravità / di fatto era più facile / e fu nuotando a rana sempre verso la luna / che cominciai a sentirmi uscire un gracidio / leggero come un filo da cucire; / andavo velocissima / ma mi ero fatta così piccola / che forse sulla strada sarei finita male / ma qui la cosa più vicina eran le stelle / e quando la distanza non ferisce / sparisce ogni pericolo”. Il verso nasce dalla paura di uno spazio sfidato e sfondato con le immagini, nel ritmo creato con reticoli fonici disseminati in un testo privo di virgole (ma non di due punti o punti e virgola), una fune tesa di paronomasie e onomatopee, in compagnia di vivi, morti e... mirto (sic!).

mercoledì 11 maggio 2016

"Le due tensioni" di Elio Vittorini ritorna per Hacca edizioni. Un'intervista con la curatrice Virna Brigatti

Librobreve intervista #68

Chi nei prossimi giorni transiterà per il Lingotto al "XXIX Salone Internazionale del Libro. Torino" (hashtag #SalTo16, mi raccomando), magari venerdì 13, magari alle 19:00, magari all'"Indipendents' corner", potrebbe fermarsi ad ascoltare Giuseppe Lupo e Salvatore Silvano Nigro dialogare su Le due tensioni e "Il menabò" di Elio Vittorini. Il libro Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura di Elio Vittorini, dopo la comparsa nel catalogo de Il Saggiatore nel 1967, è stato riproposto quest'anno da Hacca edizioni. Il volume prevede la prefazione di Cesare De Michelis e un’appendice di materiali inediti. La cura e la postfazione sono invece di Virna Brigatti (foto a lato) dell'Università degli Studi di Milano, che ha gentilmente accettato di rispondere alle domande che seguono. Oltre alla curatrice intervistata ringrazio anche Francesca Chiappa di Hacca edizioni per la cortese collaborazione.

LB: Ci può brevemente parlare del ritorno di questo titolo da poco pubblicato da Hacca?
R: Le due tensioni di Elio Vittorini furono pubblicate per la prima volta nel 1967 per volontà e cura di Dante Isella, professore di storia della letteratura e di filologia italiana dell’Università di Pavia. Fu sua infatti la decisione di dare vita pubblica alle carte manoscritte su cui negli ultimi anni della propria vita Vittorini – che morì il 12 febbraio 1966 – aveva tracciato numerosi appunti di riflessioni di tipo teorico, volte innanzitutto allo scopo di trovare un nuovo modo di scrivere testi letterari, un modo adeguato alle profonde mutazioni della società del suo tempo.
Hacca ha deciso di riproporre quel volume, rispettano le scelte compiute da Isella, sia per rendere omaggio al loro autore, in occasione dei 50 anni dalla sua morte, sia per rendere ancora disponibile un testo che ormai era diventato introvabile.


LB: Se le chiedessi molto semplicemente perché leggere questo libro di Vittorini, in poche battute su quali aspetti si concentrerebbe?
R: Partirei da questa premessa: Le due tensioni non è un libro di narrativa, ma di saggistica e di una saggistica non divulgativa, dunque non può essere semplicemente letto, quanto piuttosto studiato, o almeno “meditato”, nel senso che richiede attenzione e sforzo da parte del lettore.
Queste le ragioni: da un lato la sua intrinseca natura testuale, che è di pagine di appunti che Vittorini aveva redatto per se stesso e non ancora per altri e dunque risentono della frammentarietà della scrittura e dell’imprevedibilità dei rimandi; dall’altro la complessità e la quantità delle questioni implicate, dalla letteratura alla linguistica, dalla politica all’attenzione alle radicali trasformazioni delle abitudini e delle condizioni della vita quotidiana investita in quegli anni dal boom economico e dall’affermarsi della società di massa.
Le due tensioni sono però un testo di grande fascino, che generano un fortissimo piacere della lettura, ma quel piacere che possono provare i ricercatori di pietre preziose, un piacere cioè che sappia accettare la fatica.
Infine, perché leggerlo? Perché è una delle più complete sintesi delle trasformazioni culturali che il Novecento italiano ha lasciato ai posteri.


LB: In questa edizione di Hacca riproponete anche lo scritto che accompagnava l'edizione de Il Saggiatore del 1967. Che cosa marca Dante Isella e che cosa ha senso ricordare come contributo essenziale di quel suo testo?
R: La Nota di Isella non è un commento sui contenuti del testo, ma definisce i criteri secondo i quali gli appunti autografi di Vittorini sono stati trascritti e inseriti nella struttura di un libro a stampa: il testo dell’autore, che ricordiamo non è stato da lui mai approvato per la pubblicazione e che era ancora a uno stato provvisorio e informe, è stato infatti sottoposto ad una rigorosa operazione filologica di cui Isella dà conto. Il metodo di lavoro di Isella è un punto di riferimento fondamentale quando si intende pubblicare delle carte d’autore inedite.



LB: Il volume da lei curato presenta anche un'appendice di inediti. Che cosa trova il lettore in questi e qual è stato il criterio compositivo di questa parte del volume?
R: A quegli stessi criteri messi in atto da Dante Isella mi sono attenuta a mia volta nel trascrivere, nell’appendice, alcune carte manoscritte che Isella stesso aveva a suo tempo stabilito di non pubblicare.Tali carte, a distanza di quasi cinquant’anni dalla prima edizione delle Due tensioni, assumono ora un nuovo valore, poiché dialogano direttamente con tutto il resto del testo permettendo di approfondire e chiarire i richiami ad alcuni volumi letti allora da Vittorini: l’appendice di inediti riporta infatti gli appunti di lettura relativi ad alcuni saggi di cui ho dato conto nella nota al testo; nella seconda parte della mia nota al testo poi sono date indicazioni ancora più puntuali in merito all’appendice di inediti.



LB: Se dovesse indicare con una parola la più grande eredità di Vittorini e con un'altra parola la sua più grande "ingenuità" quali parole (o brevi espressioni) impiegherebbe?
R: La più grande eredità di Vittorini: la determinazione nel rinnovare continuamente, in rapporto all’evolversi della società e della dimensione storico-politica, la propria progettualità intellettuale e letteraria. 
La sua più grande "ingenuità": difficile parlare di ingenuità per Vittorini, le sue ingenuità sono spesso legate al tempo in cui è vissuto e le possiamo percepire noi, con il “senno di poi”, ma non direi che sia stato un uomo ingenuo, piuttosto ostinato nel proprio lavoro per la costruzione di un mondo migliore – quello che lui ha più volte definito, in senso rigorosamente laico e dunque metaforico, «un regno dei cieli sulla terra» – i cui presupposti sono sempre stati da lui posti nella possibilità di raggiungere collettivamente una consapevolezza culturale e politica.

LB: C'è un brano de Le due tensioni, magari breve, che potrebbe riassumerne qui, in chiusura di questa intervista, lo spirito o l'intenzione?
R: È interessante far notare come l’intensa riflessione di Vittorini sulla letteratura a lui contemporanea, sulle nuove discipline che aprono in quegli anni a nuovi campi della conoscenza (si pensi alla semiotica, allo strutturalismo e alle scienze del linguaggio) e sulle trasformazioni della società a lui contemporanea, non esclude l’autocritica verso le proprie opere e il proprio modo di scrivere. Un brano che riassume bene la ricerca della “nuova letteratura” di cui è detto con un giudizio sulla propria scrittura è dato a p. 94: «nei 2 rom.[anzi] inediti» – Vittorini si riferisce a quello che sarà poi edito postumo Le città del mondo (1969) e un altro progetto noto poi come Romanzo di Populonia (inserito tra i racconti) – egli registra «un arretramento verso l’ordine classico, verso la sistemazione preesistente, verso tutto ciò che pur da decenni è continuamente rimesso in questione – specificamente verso forme alla Cervantes che se la letteratura posteriore ha annullate e superate però sono in sé inefficienti ad affrontare comunque la realtà attuale» e prosegue poi a p. 169: «discorso autobiografico: i due libri non pubblicati ‒ scritti a tutto tondo ‒ da un punto di vista di Dio ‒ mi si rimprovera di non pubblicarli ‒ mi si esorta a pubblicarli ‒ mi si dice che non sono buon giudice ‒ io posso spiegarmi l’involuzione per cui sono stato portato a scriverli, l’aberrazione che è nell’essere scrittore e nel tendere a dare il piacere supremo, il piacere mistico, e nel tender ad esser Dio, ‒ ma sono anche abbastanza lucido per capire che cosa ho fatto appena sono fuori dal trasporto che me lo ha fatto fare».

lunedì 9 maggio 2016

"IUS" di Erika Crosara. Una nota di Giusi Montali

Propongo di seguito una nota critica sul libro di poesie IUS di Erika Crosara (Anterem Edizioni, 2010) scritta per Librobreve da Giusi Montali, che ringrazio. Purtroppo il volume è ormai irreperibile, tuttavia esiste da qualche parte e quindi l'invito è quello di cercarlo o farselo prestare e, nel migliore dei casi, ristamparlo.

Con Ius Erika Crosara tenta una quadratura del cerchio: dati quattro angoli si generano i lati del quadrato (o sezioni) all'interno dei quali si inscrive la poesia con il suo fluire reiterato e circolare. Ogni angolo ha il suo nome e il suo nume tutelare e da lì si parte tracciando una linea retta che porterà al prossimo angolo. Il movimento è avviato all'insegna della separazione, della dispersione, della negazione (DIS) e subito stabilisce la centralità che un'autrice come Amelia Rosselli ha avuto su Erika Crosara - e su molti altri del resto. In questo primo lato del quadrato  è sancita la necessità di avviare un movimento, liberandosi dalla stasi. Movimento che è fuga dalla tradizione, dalla letteratura, o meglio emancipazione dagli autori dopo averli introiettati e assimilati («l'intero compendio degli scaffali, lo sconforto | verticale delle mattine, non al proto né | all'aspirata cortina dei sensi: via di qui»). Così, ci si allontana dalla voce degli altri e si avvia un movimento irrequieto, teso a individuare una dimensione personale, la profondità dalla quale diffondere la propria voce («ma io | in quale, rubicondo anfratto o pozzo»). Fuga che è un atto di violenza necessario, una ribellione rispetto ai legami e al peso della tradizione: per divenire autori o, ancor prima, per individuarsi, occorre praticare un taglio, una recisione, creando un vuoto, uno spazio da riempire («nessun grave che cada allora ma polsi di carta, arnesi di | carta pieni del giudizio. si ferma nelle orecchie un suono | di piccoli animali, quello che taglia apre due sponde, un vuoto»). Occorre quindi distruggere ciò che intrappola ed ergersi in piedi tra i frammenti («e il resto del resto | in piedi su vetri svuoti»), ma nemmeno questo è sufficiente per trasformare la caduta in movimento («solo molli cadute sui vetri e niente | che affacci, che provi a fermare il corredo | sfinito dei lacci»). E allora la liberazione sarà la rottura definitiva dei lacci: il primo più semplice da tagliare, il secondo più arduo ma destinato ad avviare il movimento e a far conoscere la gioia al Sé («uno è tolto, emetico dentro il suo giaciglio, | […] l'altro, il continente della gioia, si avvia, quindi | si rompe»). Il movimento diviene quindi terapia, per quanto assurda, e determina un fluire dell'io che si scioglie in un sentimento di felicità e vede generarsi fiori e, in alcuni casi, frutti («andava mettendosi in testa l'intera serie dei nascondini | felicissimi. non era l'opposto bislacco, ma | un'assurda terapia: un fiore, di tanto in tanto un frutto»). Un movimento che si preannuncia  ritornante, circolare, reiterato e rituale («pensava in ogni occasione al marchio dell'inizio, al | marchio della fine. pensava anche alla forma del piatto. | se la capacità della sua custodia fosse sufficiente, al | gioco delle ruota: immondo, lindo... sbalordivano le | distanze, oltre i palmi, il modo di volgersi in processioni»), e che viene individuato, assieme alla propria voce, attraverso la negazione e la scelta di liberarsi da tutto ciò che non occorre e cela la propria essenza. E in effetti l'intera raccolta di Erika Crosara è disseminata di parole contrassegnate dalla particella fonica dis-, in alcuni casi con l'esplicita volontà di negare, in altri per innescare un gioco sonoro (dismessi; distanziamenti; distanza; discrete; di soggetti; disperata; distese; disdicevano; dissapore; distesa; disponeva; disappeso). 

Il secondo angolo, IUS, si apre con una citazione da Antonio Porta che rileva come l'ordine stabilito, il diritto e le leggi siano controversi e celino un pericolo, un abuso di potere («Ambigua è la sciagura, | le sentinelle, i poliziotti») e difatti la prima parola della sezione è «paura». Il canto, la parola e la scrittura qui diventano atti pericolosi che rendono vulnerabile il soggetto e lo sottopongono a numerose difficoltà. Il movimento è perseguito ma si deve confrontare con il limite e il confine, superando il timore di oltrepassarlo («vai per il limite urbano»; «prendeva intere | serie di confini, e numeri da incartamenti vani»). Ma ecco che proprio in questa sezione appare una figura maschile, Salvatore che, nomen omen, è in grado di superare ogni limite, di scagliarsi oltre le barriere e i lacci («ma egli teneva in serbo il dono dell'epistassi. correva | giù con salti non si fermava nemmeno dove finiscono | i denti, il giorno è tanto corto, il compito tanto....»). Questa sua volontà dirompente lo condanna però alla solitudine e a una situazione di eccezionalità che lo pone altrove («si metteva fuori ad attendere […] | stava da un'altra parte»). La sezione si conclude con una macchina teatrale che permette in maniera definitiva di attuare il movimento, di percorrere ciclicamente lo spazio. Movimento che si dà come confluenza di soggetti e visioni diverse trascritte da un amanuense, come dire che la scrittura è la trascrizione delle varie voci e dei moti che percorrono – dall'interno – il soggetto («una machina di legno e gesso | capace di passare da parte a parte il ciclico, | lo statico. divisioni discrete di soggetti confluivano | e un amanuense»).

La terza sezione, PAÎS, sembra sancire il raggiungimento di una propria dimensione interiore che accomuna il soggetto ai piccoli animali, già incontrati precedentemente in DIS. La sensibilità e l'istinto del soggetto sono infatti equiparabili, e sono parole di Cristina Annino, agli uccelli e ai bambini («Provo una pena | concepibile solo dagli uccelli, dai bambini e dalla | sifilide»). In questa sezione il soggetto ha infine raggiunto il coraggio necessario per affermare se stesso, prendere il proprio spazio e riempirlo con la propria personalità: il movimento è stato attuato, ora occorre perpetrarlo e condurlo al termine, già si vede la sua fine e gli effetti che esso ha avuto su chi è partito e torna cambiato («tornava dalle freddissime terre indietro, dai | fondamenti di altre distese fino alle case imbiancate, | poi ai paesi vicini»). Movimento che occorre reiterare e poi trasmettere alla collettività, superando la dimensione del singolo: solo così sarà possibile la guarigione o perlomeno il mantenimento della propria salute. Occorre cioè passare da una dimensione passiva a una attiva («e tu dovresti cadere, se continui a guardare | ti verrà il malanno»).

La quarta e ultima sezione, SUS, SUIS, si apre con un verso di François Villon che sancisce la necessità di accettare il proprio compito anche se esso è fatica, ed equipara l'individuo a un animale da soma («- Tu as trente ans! - C'est l'aage d'ung mulet») . È il tempo della responsabilità, ma anche quello in cui l'individuo, giunto al termine del movimento liberatorio, è tenuto ad agire, a dare il suo contributo. Così, una signorina Vincenza si libera dai suoi ultimi lacci e si allontana dalla propria «noia corporale», assumendosi il rischio di fallire («però decise di | provare ugualmente sperando il guadagno»). E la vediamo allontanarsi mentre compie lo sforzo ultimo: superare i confini rassicuranti della propria città, ora che non può più ignorare il richiamo al viaggio, alla libertà («verso sera udiva con una vocazione sopraffina, con | conati di ribellione ultima, ecco diceva il quadrato | dello zelo in fondo al corso, prima della porta urbica | mi lascia senza forze»).  Movimento che però non è solo degli uomini: pertiene infatti anche all'universo e coinvolge i pianeti, le stelle e le loro interrelazioni («infatti cascavano | alcuni pianeti e l'intero complesso migrava da storto»). Ma quando il viaggio è terminato e si deve fare ritorno al proprio guscio (coquilles - inevitabilmente ho pensato alle conchiglie di San Giacomo che dovevano attestare l'avvenuto pellegrinaggio una volta ritornati a casa), nasce anche l'esigenza di testimoniare il proprio percorso, la propria metamorfosi e trasformare gli appunti in una più ampia trascrizione («prendeva tutti gli appunti li sistemava al netto dei vivi | in scatole di media grandezza»; «da solo il poemetto della stura di carta»). Il viaggio origina quindi la scrittura e avvia il meccanismo che conduce da un coacervo di idee a un oggetto poetico in sé conchiuso («il tropo delle meraviglie. la perfetta materia del finire»). E infatti IUS si conclude con un testo in corsivo che potrebbe essere considerato sia inizio che fine del poemetto, del quale noi conosciamo quindi solo il prologo o l'epilogo e il percorso che ha portato alla scrittura («in un solo tempo, dove si attaccano le frange illuminate: | l'intera landa d'erba, le bande esilarate dell'erba anche, | dritte con punte e calmamente deposte»). IUS quindi come narrazione del moto della scrittura, come riflessione intorno all'esigenza intrinseca all'uomo di pensare il reale, trarne delle considerazioni e trascenderle, e allo stesso tempo trascendersi per lasciare delle tracce dietro di sé, coquilles, che un giorno un peregrino lettore forse raccoglierà.


Giusi Montali

*

Giusi Montali è nata a Carpi nel 1986. Nel 2011 si è laureata in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi su Amelia Rosselli. Nel 2013 ha pubblicato la raccolta Fotometria per le edizioni Prufrock spa ed è entrata nella giuria del "Premio letterario Anna Osti". Dal 2014 cura assieme a Luca Rizzatello la rassegna "Precipitati e Composti" che intende promuovere l’iterazione tra composizione poetica e musicale. Ha collaborato con "Lo spazio esposto", archivio online di video-interviste a poeti contemporanei e con la casa editrice Prufrock spa. Ha vinto il Premio Coop For Words 2015 sezione Poesia ed è stata segnalata al Premio Alinari 2015. Per le edizioni Dot.com Press è appena uscito faria, opera di poesia scritta a quattro mani con Luca Rizzatello.