mercoledì 29 aprile 2015

"Il tram" di Claude Simon per Nonostante Edizioni

La casa editrice Nonostante Edizioni ha inaugurato il 2015 con due pubblicazioni importanti, proseguendo nella costruzione di un catalogo davvero "ragionato". Questa la notizia, o quantomeno una notizia per chi cerca curiosamente fra le novità librarie. E non è poco. Assieme a Testi segreti di Marguerite Duras è apparsa nelle librerie anche la traduzione di Le tramway di Claude Simon, ultimo libro pubblicato nel 2001, quattro anni prima della morte. Il tram (pp. 137, euro 17, traduzione di Stefania Ricciardi e postfazione di Patrick Longuet) segue nel catalogo della casa editrice triestina la traduzione di Bruno Fonzi de L'Herbe, altro testo simoniano. Oggi, sebbene proprio il revival dei francesi abbia dato qualche goccia di ossigeno alle librerie, non si trova granché di Simon e a ben pensare è strano imbattersi nel caso di un (tutto sommato) recente premio Nobel (1985) così poco presente nelle librerie italiane. I suoi titoli più famosi sono pressoché scomparsi. La sue curve sintattiche, la scrittura sovraccaricata, eccedente, la predilezione per l'accumulo, l'assenza di pause o ellissi di respirazione non hanno forse facilitato l'incontro e la frequentazione duratura di alcuni autori francesi da parte del pubblico dei lettori. (Il caso di Carrère invece pare aver riacceso l'amore transalpino e i recenti e assai ravvicinati Nobel a Le Clézio e a Modiano forse non sono nemmeno del tutto casuali.) Del resto, si sa, il romanzo in Francia è una cosa seria, forse anche più seriale che altrove, cementata commercialmente, anche qui più che altrove e non certo da oggi e si sa anche che lì più che altrove scrivere non è stato disgiunto da una riflessione estesa e profonda sul come raccontare, costi quel che costi.

Il récit lungo di queste pagine sfugge a una definizione di "romanzo", così come la potremmo dare col senso comune. Qui Simon fa scivolare dettagli di realtà e immaginazione, gli uni sopra gli altri e viceversa, in continuazione, saccheggiando a piene mani nella propria infanzia, in quel tram che da bambino prendeva alla scuola di Perpignan: siamo vicini al mare o in una casa di campagna o in una città che sta mutando velocemente il suo volto o in un campo da tennis. Siamo anche in ospedale. Troppo facile forse rinvenire nel tram una metafora di un viaggio breve e terminale e di un'esistenza che Simon ripercorre quasi in extremis, in uno smontaggio e rimontaggio della vita secondo un principio di separazioni, accostamenti, sovrimpressioni. Piuttosto è quest'infanzia a cui si rifà chiaramente Simon la grande protagonista, signora corteggiata da tutta una grande stagione della narrativa, segnatamente francese ma non solo; di qui riusciamo anche a collocare meglio l'esodo simoniano in quest'opera tarda. Certe manifestazioni del soggetto - insomma, quel che a livello narrativo poteva insistere su un solco ancora confessionale agostiniano-rousseauiano e che aveva iniziato a vacillare già sotto i colpi del Nouveau Roman - cadono, precipitano. In Francia, e proprio con riferimento all'infanzia, questo significò molte e diverse strade e ai lati di queste strade si incontrano alcune fra le opere più note di Nathalie Sarraute, Annie Ernaux o della Duras che la stessa casa editrice Nonostante sta riproponendo. E naturalmente s'incontra Simon e quest'ultima opera in particolar modo.

Scrivere in Francia non è come scrivere in altri paesi, questo ormai è chiaro. La riflessione teorica sulla fiction lì ha sfondato la pancia della scrittura più che altrove e certe opere oggi non esisterebbero nemmeno senza la presenza di sociologi influenti, a tutto campo, come Pierre Bourdieu. Il fatto è che ancora una volta non possiamo fare a meno del pensiero francese sul romanzo per ritracciarne un significato in queste ore e ci serve quel pensiero più di certa filosofia espressa oltralpe nello scorso secolo. Ci serve per provare a rispondere a domande semplici e disarmanti sul come possiamo continuare a raccontare la vita, su come possiamo tenere separati e riunire i frammenti e i cocci di cui è fatta e con i quali ci tagliamo e soprattutto su come qualsiasi processo di mimesi sia governato, direi anche telecomandato, da una postura dinanzi al morire. Ed è così anche il tram stordente di Simon mentre lui trasogna dal suo letto d'ospedale, in un deliquio di percezioni che si sfanno e si radunano nel pensiero, per diventare scorie del ricordo, attrito fra personaggi depotenziati che però, quasi platonicamente, portano a compimento un'idea di sé. E il paradosso neanche tanto paradosso è che quell'idea di personaggio cacciato dalla scena nella narrativa francese del dopoguerra, a favore di un certo sguardo sulle cose, rientri sorprendentemente dalla porta sul retro o da un finestrino, ritorni insomma indietro, come un boomerang. Del resto non è mistero che i paradossi siano istruttivi.

martedì 28 aprile 2015

Giornate mondiali, libri, lettura, oscuramenti (e giramenti). Note sulla spettacolarizzazione di una pratica intima

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #6

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Giornate mondiali spuntano come funghi, di questo e quello. Mi pare stiano aumentando. Spesso nascono da un flebile tentativo promozionale e non di rado rischiano di fallire l'obiettivo per il quale erano sorte. Tutto rischia di ridursi e tradursi in qualche "viralità" internettiana e ben che vada in qualche nuovo #hashtag. Il mondo legato all'editoria libraria, ad esempio, mi pare affronti con imbarazzo e scelte annaspanti (o quantomeno discutibili) tutto questo sconquasso che ha investito il mondo della carta. Nessuno sta insinuando che sia facile far navigare le barche delle case editrici nelle acque del presente, si sta solo insinuando il dubbio che certe mode e tendenze siano davvero efficaci ad un livello promozionale. Alcuni di voi avranno notato l'oscuramento del sito Treccani durante la recente giornata mondiale del libro, con un invito chiaro: "Andate a leggere". Questa mossa, sicuramente forte e sicuramente pubblicitaria, mi pare però viva chiaramente su un fraintendimento vecchio come il cucco, ovvero sul continuare a intendere Internet e libro come mondi separati, quando non addirittura conflittuali. Ad un livello tecnico è l'interruzione volontaria di un servizio solitamente erogato da Treccani 24/7; ad un livello pratico il rischio della mossa di quella giornata è stato un cortocircuito, ossia l'eventualità di creare utenti indispettiti soprattutto fra coloro che i libri continuano ad alimentarli (leggendoli, scrivendoli, traducendoli e soprattutto comprandoli!). Io non credo che Internet abbia ucciso il libro (posizione degli apocalittici?) o che Internet sia un formidabile alleato per la rinascita del libro (posizione degli integrati?). Bisogna poi capirsi bene, visto che non c'è alcun bisogno di "rinascita del libro", semmai si persegue la "ripresa del mercato librario" che è una cosa diversa e si indagano le cause della disaffezione ad un certo tipo di lettura (per altri aspetti viviamo in un'epoca che legge molto più di altre, non ce ne rendiamo conto?). Quello che so è che di calendari me ne basta e avanza uno, che in un certo modo già subisco. Quello che vedo come un futuro non distante è che oltre al calendario normale potremo avere un calendario parallelo che ci ricorderà che il giorno tal dei tali è la "Giornata mondiale di questa cosa", mentre il successivo la "Giornata mondiale di quest'altra cosa". Non sto dicendo che qualsiasi ricorrenza sia inutile, ma c'è questo rischio di vanificarne il senso. E anche questa nuova "calendarizzazione" in realtà obbedirà a criteri promozionali (criteri nemmeno della più nobile specie). Probabilmente, quando scopriremo di aver tirato troppo la corda, torneremo indietro e ci inventeremo qualcosa di diverso. E così via. Il ripensamento comunque non può essere attorno all'oggetto libro, oggetto e tecnologia già formidabile (davvero una killer application, con buona pace dei libri Flipback®, simpatica idea in tempi di smartphone). Il ripensamento passerà allora per forza altrove, anche nel dirsi chiaramente che nessuna iniziativa promozionale o giornata mondiale decisa a tavolino potrà aumentare la lettura come pratica di intimità: direi dunque che #ioleggoperché sono affari miei (semmai #ioparlodiunlibroperché). Insomma, si prova a rilanciare la lettura fraintendendone clamorosamente la natura. Del resto tutto ciò si cala in un processo più generale e trasversale che non riguarda solo i libri e la lettura, ma che travolge, nella chiassosa e ridanciana tregenda che stiamo attraversando, anche altre sfere come quelle della cucina e del cibo, del lavoro, dei viaggi, delle relazioni sociali e non ultima quella della sessualità.

domenica 26 aprile 2015

"Voci della vittoria. La memoria sonora della Grande guerra" di Piero Cavallari e Antonella Fischetti

Leggere una grande guerra #14

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Quando parliamo di memoria, tutti i sensi possono essere chiamati in causa, anche se la vista ha una posizione ingombrante e forse dominante. Se parliamo di memoria della Prima guerra mondiale poi, un altro senso che talvolta emerge è l'olfatto (il tanfo delle trincee e della decomposizione, ma anche i gas che sapevano di mandorla, l'odore dei cappotti fatti bollire o l'odore del cuoio). Piero Cavallari e Antonella Fischetti, entrambi studiosi dell'Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi, hanno invece pensato bene di costruire per Donzelli un interessantissimo volume intitolato Voci della vittoria. La memoria sonora della Grande guerra (pp. XIV-196, con un cd-audio contenente le registrazioni originali, prefazione di Massimo Pistacchi, euro 34). Nel cd troverete le voci di alcuni protagonisti italiani di quegli anni: Luigi Cadorna, Enrico Caviglia, Pietro Badoglio, Armando Diaz, Guglielmo Pecori-Giraldi, Paolo Thaon di Revel, Gaetano Giardino, Emanuele Filiberto duca d’Aosta, Vittorio Emanuele Orlando, Tommaso Tittoni, Carlo Delcroix, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Pirandello (con uno stralcio della celebre premessa ai Sei personaggi in cerca d'autore sul conflitto immanente tra la vita e la formaripreso qui per parlare di guerra) e Trilussa. Il volume trova la sua ragion d'essere nella Discoteca di Stato fondata da Rodolfo De Angelis, il quale nel biennio 1924-25 incise la serie di interventi delle personalità succitate intitolata "La parola dei Grandi". Parliamo quindi di una memoria sonora ricostruita a guerra finita e architettata dalla regia di una persona precisa, eppure, quest'essere memoria sonora di "seconda mano" e non in presa diretta ne aumenta l'interesse soprattutto ai nostri occhi di persone che arrivano cent'anni dopo. Nel volume troverete inoltre contributi dedicati a questi "monumenti sonori" che erano in linea con la regia monumentale del regime, ma anche sul rapporto tra dischi, guerra, politica e poesia, con un approfondimento sulla nascita di quella che è oggi una vera e propria "discoteca italiana" che altri storici potranno sfruttare nelle loro ricerche. Una parte del libro è dedicata alla trascrizione dei brani che potete sentire recitati nel cd-audio.

Soffermandoci sull'aspetto "sonoro", vien da aggiungere che fu effettivamente una guerra sonora, non v'è dubbio, come tutte le guerre, e non solo per le nuove armi che percossero i timpani dei soldati (anche quello degli audiolesi fu un dramma nel dramma, con apposite strutture ospedaliere dedicate e nuovi disturbi sconosciuti precedentemente alla scienza medica) ma fu la guerra in cui il canto ebbe un ruolo importantissimo. Non occorre qui ricordare quanti e quali canti uscirono dalle trincee o quali alle trincee arrivarono (come nel caso celeberrimo di E.A. Mario e "La leggenda del Piave" che qualcuno additò come fattore importantissimo di coesione, addirittura determinante in vista di quella che poi fu chiamata "vittoria"). Questo volume, concentrandosi su un tema storico di portata massiccia, in realtà riesce a porci anche davanti al tema più ampio della "memoria sonora" largamente intesa e dei meccanismi che regolano il suo pulsare nel grande scolo tubolare del presente, all'interno di altri meccanismi ben più galoppanti di digitalizzazione spiccia e spinta. (Per esempio, in questo spazio si parla spesso di poesia e chi scrive qui prova a riservare un certo posto alla poesia, così come altri, ma non mi vien difficile ammettere che forse, ad un livello generale, anche fra i poeti veri, non v'è paragone tra lo spazio che le canzoni e la musica si prendono nei cervelli, se paragonato allo spazio non vastissimo che riesce a prendersi la poesia; probabilmente si tratta soltanto di spazi di natura diversa, di chimica o magnetismo. Non lo so.)

giovedì 23 aprile 2015

"Tre parole sulla Resistenza" di Giacomo Noventa

Il primo scritto di Giacomo Noventa ripreso in Tre parole sulla Resistenza (Castelvecchi, pp. 72, euro 9) si potrebbe leggere a ripetizione in giornate come queste. Dopo aver concluso le poche pagine di Discorso sulla Resistenza e sulla morale politica (del 1947) ho pensato a quanto raramente ci poniamo il problema di come raccontiamo la storia, e qui intendo il racconto degli storici, siano questi storici di professione, statisti, giornalisti improvvisati, letterati, scienziati sociali o altro ancora. La prosa di chi scrive sulla storia non è quasi mai in cima alle nostre preoccupazioni e per questo a volte è interessante ascoltare anche chi, spostandosi dalla prosa, parla di poesia come storiografia. E non si tratta di capire soltanto perché Gioacchino Volpe fosse un grandissimo scrittore o perché altri storici attuali dovrebbero prestare molta più attenzione alla loro prosa sciatta e cascante, pena l'inanità dell'intero loro operato; si tratta anche di capire, piuttosto, perché ogni ragionamento attorno alla storia sia primariamente un trattato di retorica. Ma come?, si chiederà qualcuno. Dopo tutto lo sforzo che proviamo a fare per liberarci della "retorica fascista", della "retorica comunista"? Io credo invece - e leggendo Giacomo Noventa ho delle conferme - che il grosso equivoco di fondo sia aver dato e continuare a dare a "retorica" una connotazione negativa. Retorica è tutto, ovunque ci sia testo e quel conflitto che qualsiasi testo ineludibilmente imprime su una pagina. Mi rendo conto di dire una cosa ovvia per molti, ma forse meno ovvia di quanto si possa credere. E a volte può star bene ripetere anche le cose ovvie, tanto più quando si è vicini a ricorrenze.

E allora il punto più importante e decisivo di questo libretto confezionato con alcuni scritti a tema resistenziale è la distinzione netta tra Resistenza e antifascismo. La prosa storica di cui necessitiamo ha un tremendo bisogno di distinzioni e di pochissime sfumature impressionistiche. I due termini su cui si sofferma Noventa, Resistenza e antifascismo, non sgorgano dalla stessa polla, vanno proprio divelti. Una certa "retorica" (virgolette d'obbligo qui, allora) ha voluto darcele a bere assieme, mescolate come goccette in un bicchier d'acqua e un'altra "retorica", oggi, usa la parola "resistenza" o il verbo "resistere" con un tic fastidioso. Gli uomini della Resistenza, prima ancora di combattere contro il Fascismo, combatterono contro sé stessi. Quest'aspetto della battaglia contro sé stessi è uno dei temi centrali di Noventa ma anche di tanta parte del secolo scorso, basti pensare a un autore come Brecht oppure a Fortini, per tornare in Italia. L'appurare l'esistenza di tale battaglia ci offre la spinta per saltar giù dagli angusti parapetti dai quali si affaccia qualsiasi discorso resistenziale e sulla resistenza, con o senza maiuscola. E di qui, ritornando a Noventa, anche a costo di dover passare dapprima per le sue riflessioni resistenziali, tralasciando momentaneamente il resto della sua opera, è giunto il momento di ridare a Ca' Zorzi un posto di grande pregnanza fra coloro che esercitarono un vero magistero d'azione nel Novecento, nonostante (o forse proprio a causa di) quello scontro irrequieto contro sé stessi che trovò il suo campo di battaglia proprio nel testo e nella retorica (senza virgolette) che ha tentato un racconto tra tanti possibili. Lì sta uno dei motivi che ci riporta continuamente a Noventa, lì - se vogliamo usare un termine che non amo - sta la sua attualità. E per far ciò, va bene ripartire da questi scritti, sia pure nel clima spesso annacquato dalle ricorrenze e soprattutto senza dimenticare che Noventa fu grande poeta. Per chi volesse cimentarsi con altri scritti, con altri suoi testi, resta imprescindibile l'opera monumentale di sistemazione che fece l'editore Marsilio a cura di Franco Manfriani, anche se non guasterebbe una più agile frammentazione e proposta editoriale più continuativa, dal momento che le opere monumentali di sistemazione, pur meritorie, sono spesso la tomba luccicante di uno scrittore.

martedì 21 aprile 2015

Tiziano Scarpa a Ca' dei Ricchi a Treviso per TRAversi












Venerdì 24 aprile 2015 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi" - a cura di Marco Scarpa
con Tiziano Scarpa


Per dare notizia, come di consueto, degli appuntamenti di poesia organizzati da Marco Scarpa a Treviso (stavolta un'inedita serata Scarpa+Scarpa), incollo la mail che lui invia. Aggiungo solo che se volete essere informati sulle iniziative che Marco Scarpa organizza potete scrivergli una mail qui:

Ciao a tutti,
vi scrivo per comunicarvi il prossimo incontro del nuovo ciclo di incontri che continua quel viaggio dentro la poesia che portiamo avanti da qualche anno. Il nuovo ciclo è denominato L’Attesa e il secondo incontro sarà venerdì prossimo, 24 aprile, e avrà come ospite Tiziano Scarpa. In allegato, per chi volesse, troverà foto e note bibliografiche dell’autore. 

A seguire avremo come ospiti Massimo Gezzi (8 maggio) e Giulio Mozzi (22 maggio).
Gli incontri si tengono  a Ca’ dei Ricchi, in vicolo Barberia, 25,  in pieno centro a Treviso, a due passi da piazza dei Signori. L’inizio dell’incontro è fissato per le 21.00. La formula degli incontri prevede una prima parte con presentazione e reading del poeta invitato. Un’altra novità sarà poi la collaborazione con una scuola che porterà alcuni studenti a rapportarsi con il poeta per stimolare ulteriormente il confronto. Il tutto in un ambiente informale, familiare, rilassato per facilitare l’ascolto, per avvicinare colui che ascolta a colui che legge. Altre informazioni su quanto avviene a Ca’ dei Ricchi le potete trovare sul sito: www.trevisoricercaarte.org
Se  avrete voglia e tempo vi aspetto e, come sempre, se vorrete condividere con altri vostri contatti questa iniziativa, grazie in anticipo,
buone giornate,
Marco

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Tiziano Scarpa (Venezia, 1963) ha scritto romanzi, poesie, commedie, saggi. Fa letture sceniche. È sperimentale e pop. Fra i suoi libri: Come ho preso lo scolo, Effigie, 2014; Stabat Mater, Einaudi, 2008 (Premio Strega 2009 e Premio SuperMondello, 2009); Groppi d’amore nella scuraglia, Einaudi, 2005; Corpo, Einaudi,2004; Venezia è un pesce, Feltrinelli, 2000; Occhi sulla graticola, Einaudi, 1996. In poesia si ricorda Nelle galassie oggi come oggi. Covers, (con Aldo Nove e Raul Montanari, Torino, Einaudi, 2001), Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto, (Venezia Mestre, Amos, 2008). Collabora alla rivista on line "Il primo amore" (pubblicata anche su carta dalle edizioni Effigie) di cui è uno dei fondatori, dopo esserlo stato del blog collettivo "Nazione Indiana".

sabato 18 aprile 2015

Poesie inedite di Mirella Galloni



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Poesie inedite di Mirella Galloni (Atene, 1980)


I vivi si tengono a bada


Vago per antiquate bancarelle
in un giorno feriale. Le guarda
un timido garzone dalla porta
della rivendita di luminarie.
Oppure il sorvegliante comunale
davanti agli scalini del collegio.
Indagano l'ingorgo autovetture.
Da sempre io di vivere presento
nell'incavo destino senza mondo
né riposo, in preda a una malia.
Confabulano i morti presso me
per questi bassi tendaggi che sono
l'aldilà. Riparato da un carretto
impudente m'osserva un venditore.


Svegliarsi in altro luogo


Molto pioveva nel dedalo nuovo
per strade di querce sostavo giocosa.
Largo tra i banchi invernali alle sette
a sbuffi incedeva un malcerto convoglio
dal borgo limitrofo per il luogo
inquieto di molto operosa presenza.
Su panche di legno dal vero sognai
di rivi e creature e di grandi vetrate
sognate rovine di terre passate
e non mi destai quando venne l'annuncio,
dal vero montò la marea sulle sponde
e vidi il leone che s'inabissò.


mercoledì 15 aprile 2015

La poesia di Srečko Kosovel: "Tra Carso e caos. Pre/sentimenti"

Mentre in Italia si dibatte e ci si sbatte - e un po', mi pare, si perde tempo e energia - attorno al Diario postumo di Montale, divisi come siamo tra chi vuole sminuire, demolire o scanonizzare il poeta diabolico che s'ingegnava a depistare i "cani da tartufo" della filologia, chi magari è spiazzato o irritato dalle manipolazioni made in Cima o chi più semplicemente chiede di sapere come effettivamente andò con le ultime poesie, per consegnare ai lettori materiali credibili dell'ultimo periodo (tifo per quest'ultimi, ma senza particolari affanni), altrove la vita continua. E sarebbe continuata comunque, per fortuna. Continua la vita della poesia successiva, va da sé e ed ovvio, e continua la vita della poesia antecedente o contemporanea a quella di Montale. Lo sapeva anche Montale - voglio credere - per quanto a volte abbia l'impressione che desiderasse una poesia in qualche modo terminante con lui, almeno per un bel pezzo. I meccanismi dell'oblio gli erano probabilmente ben noti.

Ci spostiamo allora sul confine orientale a prendere una boccata d'aria carsica e parliamo un po' di Srečko Kosovel, un poeta che è stato talvolta avvicinato a Sergio Corazzini. La brevissima vita li ha fatti accostare e questo dato ci è sufficiente per diffidare, una volta di più, del peso delle biografie nelle interpretazioni, un vero e proprio male dei secoli e non solo del secolo. Kosovel è nato a Sežana, località facilmente raggiungibile dal valico triestino di Fernetti, nel 1904 ed è morto a soli 22 anni di meningite, a Tomaj. Lo scorso anno ricorrevano i 110 anni dalla nascita e Comunicarte Edizioni gli ha dedicato Tra Carso e caos. Pre/sentimenti, un volume 11x11cm stampato in 110 copie numerate (la numerologia non è casuale) curato da Darja Betocchi e Poljanka Dolhar (pp. 136, euro 15, con composizioni costruttiviste di Eduard Stepančič). Ne scrivo volentieri a 111 anni dalla nascita. Qualche anno fa Boris Pahor gli dedicò una monografia pubblicata da Edizioni Studio Tesi, tuttavia oggi questo volume quadrato proposto da Comunicarte Edizioni risulta essere, per il lettore di lingua italiana, una delle poche porte d'accesso alla sua lirica. La breve parabola esistenziale di Kosovel interseca molti dei temi che sono cari a Pahor, vale a dire tutta quella membrana di avvenimenti che accadono in quei luoghi, Carso compreso, dopo il Trattato di Rapallo del 1920.

Una parabola di vita così breve è stata incamiciata dentro più correnti. Si parla e si scrive di fase impressionista, espressionista e costruttivista (e per questo trovate in questo volume le interessanti composizioni di Eduard Stepančič). Ma non mancano nemmeno contatti con le avanguardie e allora ecco spuntare Dadaismo, Futurismo e Surrealismo. Dicevamo del Carso, e non si può non nominare questa regione nel caso di Kosovel. Certi poeti si possono benissimo leggere al di fuori delle correnti con le quali siamo stati più o meno abituati a incorniciarli, ma non troppo lontani dalla geografia dalla quale provengono e che hanno camminato. Si badi che nessuno sta dicendo che la geografia sia sempre determinante o che, ancor peggio, sia necessario parlare di "radici geografiche" o di qualche altra sciocchezza che poi, giù giù per la scala delle aberrazioni intellettuali, può arrivare persino ai vani e pericolosi discorsi su una sorta di costume locale. Ci sono poeti dialettali che sono davvero universali (Marin è uno, Giotti un altro tanto per stare in quella zona) e possiamo trovare poeti nemmeno sfiorati dal dialetto che accusano il colpo della piaga del localismo geografico e soprattutto mentale.  Quando dico "universali" intendo anche "classici", ma con "classici" non intendo "immutabili" o altre fesserie. Io credo che un classico rappresenti invece il massimo di alterità e distanza da come siamo noi e il massimo di mutazione nel tempo e nello spazio. Solo così, a mio avviso, può essere davvero universale. La scelta della lingua è solamente uno degli elementi che concorrono a formare il metodo con cui esploriamo la vita in letteratura, per quanto resti un fattore di straordinaria rilevanza. E se è davvero centrata l'affermazione che vuole nei luoghi i nostri ultimi dèi (Bonnefoy), tornando alla poesia di Kosovel scopriamo che è nulla forse senza la geografia dei suoi pini:

VIDI DEI PINI CRESCERE

Vidi dei pini crescere
al cielo. Imperturbabili
nel fuoco dei soli.
Vidi già il rogo
che li arderà.


Su bianchi cuscini
i monti-vegliardi posarono
il capo silente. —
Bisbigliano i pini.
(Chi mai li sente?)


Erano lì —
colonne di fuoco
svettanti nel cielo...


Il mio corpo s’incenerì.



VIDEL SEM BORE RASTI

Videl sem bore rasti
v nebo. Stoike mirne
skozi ognje sonc.
Videl sem že požar,
ki jih bo požgal.


Na belo blazino so
naslonili starci-hribi glavé
in obmolknili. —
Bori šumijo.
(S kom govore?)


Videl sem jih,
kako so romali
goreči stebri — v nebo ...


V pepel se mi je sesulo telo.


Insomma, è molto più semplice ignorare tutte le categorie nelle quali la lirica di questo poeta sloveno è stata fatta ricadere che ignorare l'immagine di una dolina, così come possiamo essercela fatta al di fuori di un dizionario, per poi leggere una poesia come la seguente:

SE SOLO SAPESSI

Se solo sapessi, canterei
il pioppo che fruscia con voce argentina,
il sole del Carso
in un fresco settembre,
il grano saraceno nella bianca dolina.

Se solo sapessi, canterei
una sola, un’unica fanciulla;
le voglio un tale bene
che non la cambierei
per nulla al mondo, nulla.


PA DA BI ZNAL

Pa da bi znal, bi vam zapel
o svetlo šumečih topolih,
o kraškem soncu
v hladnem septembru,
o belih ajdovih dolih.

Pa da bi znal, bi vam zapel
o enem, o enem dekletu;
tako rad ga imam
in ga ne dam
za vse, za vse na tem svetu.


Nella poesia di Kosovel affiorano innovazioni che balzano all'occhio di chi non conosce la sua lingua (stili, colori, simboli, collages, librazioni immaginifiche degli oggetti). A più riprese si fa largo un pensiero che "crepuscolare" non sia tanto una parte della poesia che abbiamo conosciuto, soprattutto nella prima metà del secolo scorso (con evidenti succedanei nell'oggi), ma tutta la poesia, compresa quella aurorale di Saffo. Ciò è proprio dei momenti di massima trascolorazione e acutizzazione dei sensi. Il punto è semmai come quest'essere crepuscolare e corpuscolare della poesia, onda e particella, si riverberi e produca energia cinetica, movimento insomma, in chi la legge, anche in traduzione.

TUTTE QUESTE PAROLE

Tutte queste parole dovrebbero essere
come un fragrante mare di pini,
astri che si spengono sui monti
ai primi raggi mattutini...

Ma è mezzanotte appena, mezzanotte,
e io devo farle splendere ancora,
così potremo restare sul Carso
in questa nostra grigia dimora.

Avvolto nel mio scuro cappotto
le invoco nel vento dai refoli fieri —
vibrano i vetri; mia madre si desta,
e sprofonda in sognanti pensieri...

Ma io smanio come la bora —
l’insonnia fuori mi conduce.
Percorro nel silenzio carsici sentieri.
La notte li ammanta di luce.


VSE TE BESEDE

Vse te besede bi morale biti
dehteče ko borova morja,
jutranje zvezde, ki ugašajo
ob zarji iznad pogorja ...

Pa je pólnoč še, pa je pólnoč še
in jih moram prižgati,
da v tej sivi kraški hiši
nam je ostati.

V temen plašč zavit jih v burjo
govorim, ko se zaganja
v okna; pa se mati vzdrami
in pomisli in zasanja ...

Jaz pa divji sem kot burja —
proč, o proč je moje spanje.
Tiho stopam preko poti kraških.
Noč mi sije nanje.


sabato 11 aprile 2015

"Il dio del mare" di Pierluigi Cappello

Quote #7

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Quote, il titoletto stavolta ci sta per un poeta che sognava di fare il pilota e che ha scritto un libro intitolato Assetto di volo. Da pochissimo è uscito nella collana BUR Contemporanea il libro di Pierluigi Cappello di cui a lato vedete ritratta la copertina, già pubblicato con lo stesso titolo nel 2008 dall'editore biellese Lineadaria. Il dio del mare. Prose e interventi (1998-2006) (pp. 108, euro 9, con una prefazione di Antonio Prete) raccoglie scritture di diversa natura e misura, tutte incentrate sulla poesia e su come questa possa entrare nelle nostre vite (e in particolar modo apprendiamo di come è entrata nella vita di questo grande poeta italiano, sin dai banchi di scuola). Preponderante è la ricostruzione dell'urto con l'epica classica e il rilievo topografico attento del suo lavorio nell'immaginario dell'autore stesso. Alcuni cunei di questi ragionamenti sporgono ad esempio anche in questo video relativo al conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Udine. "Il dio del mare" del titolo viene da una famosa fotografia di José Enrique Azevedo che ritrae una violenta tempesta alle Azzorre e un fumo d'acqua che s'innalza altissimo e sembra dipingere il profilo di Nettuno (lo scatto è ripreso in calce). Riporto di seguito un passo che è, nella sua interezza, il primo brevissimo intervento del volume.



Neptuno na Horta, José Enrique Azevedo

mercoledì 8 aprile 2015

"Favole del morire" di Giulio Mozzi, narrazione e danza macabra

Mi pare che Favole del morire di Giulio Mozzi, libro composito da poco pubblicato dall'editore Laurana nella collana Rimmel (pp. 156, euro 14, postfazione di Lorenzo Marchese), intersechi da vari punti i temi che sono più cari all'autore, non limitandosi a quelli letterari. Se volessimo compiere una sommaria indagine sui titoli di Mozzi potremmo scoprire che una riflessione sul morire riaffiora già ne Il culto dei morti nell'Italia contemporanea (Einaudi, 2000) ma pure in uno scritto intermedio, instant-book a suo modo, pubblicato da Transeuropa nel 2009 con il titolo Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi. Se vogliamo tenere per buona l'idea che queste favole siano "pezzi", come scrive l'autore, mi pare siano anche forme disparate che convergono e si incastrano in un quadro di cui restano ben calcati e visibili i profili differenti, come avviene se in un puzzle osserviamo anche le forme e i bordi dei singoli pezzi. In tutto ciò riusciamo comunque a cogliere l'unitarietà di un'immagine una volta conclusa la lettura. 

Partiamo dai temi letterari. Due sono già enunciati nel titolo: da un lato abbiamo le favole, ovvero componimenti che solitamente prevedono la presenza di animali. Si prenda e si parta proprio da "La stanza degli animali", racconto che apre il volume (già uscito in solitaria per un'interessante collana di :duepunti edizioni denominata Zoo) e dall'altro troviamo circonvoluzioni di pensieri (barocchi, macabri, ossessivi?) sul morire, e non sulla morte. Leggendo qualcuno di questi pezzi ho quasi ravvisato il tentativo di verificare la tenuta di un solco "morale" delle nostre lettere e la forma dialogica in cui spesso Mozzi si cala conferma - o quantomeno lascia aperta - questa ipotesi. Se così fosse, sarebbe interessante indagare sulla vena secca del moralismo italiano, il quale non ha trovato interpreti duraturi dopo Parini e Leopardi. Scrivo questo come puro spunto.

Non meno densi, a mio avviso, sono i temi extraletterari (o metaletterari) che Mozzi affronta in altri contesti e che pure quest'ultimo libro investe, riflessioni probabilmente sedimentate anche nella sua professione nell'ambito editoriale: la caducità dell'opera e di ogni opera ad esempio, il carattere di servitù esistente tra autore e opera e persino la volontà di curiosare e gettare uno sguardo sulla scarsa fortuna della forma breve e del racconto in Italia, una distanza di scrittura che Mozzi ha praticato sin dall'esordio. Partendo da quest'ultimo ci chiediamo: perché il racconto non gode di molta fortuna da noi? Semplicemente perché non abbiamo avuto gli Hemingway e i Carver? Mica ci sono solo loro e si dica chiaramente che questa prosa di Mozzi è felicemente lontana da una grande piega-piaga americana che ha rattrappito troppa nostra narrativa, in maniera più forte da quando minimum fax è diventata anche una moda, oltre ad essere una sigla editoriale che pure ha pubblicato libri interessanti. Nella nota introduttiva Mozzi afferma di non essere più in grado di scrivere in modo "normale" e quest'interessantissimo inciso, più che convincerci che esista un modo "normale" di scrivere e che sia giusto in qualche modo perseguirlo e coltivarlo, ci muove a interrogarci se può invece continuare ad esistere oggi un modo ritenuto normale di scrivere un romanzo o un racconto e, in fin dei conti, un libro. Si tratta di un discorso che si apre giustamente alle forme e per questa via tale discorso si salda con la caducità dell'opera cui accennavo: se tutto è caduco e tutto passa in fretta, il ragionamento che ne consegue è che l'immortalità o la tenuta dell'opera (il canone?) non ci riguarda poi tanto e che la narrazione, assieme a tutto quello che scriviamo e quello che chiamiamo letteratura, non ci può che interessare oggi.
(La professione di Mozzi - sia detto per inciso - non può che metterlo quotidianamente davanti all'obsolescenza programmata di ogni opera, alle famose sei settimane che di media vengono concesse a un libro per raggiungere il pareggio e il "pezzo" di questo libro con protagonista un Emilio Salgari pronto al suicidio è ulteriore riprova della costanza di questa riflessione metaletteraria e metaeditoriale.)

Favole del morire è dunque un libro mosso e smosso. Non può che essere così, visto che del morire nulla sappiamo, anche se possiamo pensarlo, parlarne, scriverne. Anche quando affronta un tema eterno e onnipresente come quello della (mancata) sepoltura, in "Novella con fantasma", questo libro non cerca scorciatoie nell'atto del pensiero. La forma dialogica è pertanto congeniale, sia dove è manifesta già a livello tipografico sia dove è più velata, proprio perché non consente alcuna scorciatoia e mantiene la tensione. Noi viviamo dimenticando spesso il morire. Non dico che non ci pensiamo. Possiamo pensarci tanto o poco, non ha importanza quando o dove ci pensiamo. Quando però ci avvolge quel pensiero di non essere più, quel memento mori che può prendere in istanti assai diversi fra loro, tutti forse avvertiamo un tenue mancamento, un morso all'incontrario, una svista sul vivere, e allora credo ci percorra tutti quel desiderio elettrico di interrogarsi sul finire e sulla finitudine. C'è inoltre una forte componente iconografica e iconologica, direi quasi ripiana, e non solo nei paratesti del libro, e tale serbatoio di immagini giunge all'opera di Mozzi come appiglio di pensiero. In "Ottobre 1986", un bellissimo racconto di Gian Mario Villalta contenuto in Un dolore riconoscente, un testo che è in sostanza una lettera indirizzata una donna solo intravista su un terrazzo, ad un certo punto si legge: "Se non siamo più in grado di pensare niente della morte, allora quello che pensiamo della vita è niente, allora anche la vita è niente". Forse, provvedendo a sostituire "morte" e "vita" con le parole "morire" e "vivere", riusciamo a intravedere le molteplici spinte dei sette pezzi che compongono questo libro, i loro diversi ma convergenti moventi e movimenti di odierna danse macabre.

sabato 4 aprile 2015

"La ragazza dal fiore pervinca" del poeta sloveno Miroslav Košuta

Il 27 dicembre 2014 è morto Tomaž Šalamun, tra i maggiori poeti della Slovenia. Notizia non pervenuta o quasi. Ad una marcia in ricordo del poeta, dopo i funerali, c'erano circa 300 persone, 80 poeti di tutte le generazioni, ricorda Gregor Podlogar qui. Ora non è mia intenzione dilungarmi in un pistolotto sul provincialismo, però mi pare evidente che a scriverci addosso da giornali o lit-blog mainstream o social che sia, a perdersi in polemiche livorose (il livore se non è accompagnato da coraggio non porta da nessuna parte, mi pare), ad affossare o riesumare, a cercare di creare il vuoto intorno a noi oppure un pieno adorante, a essere così sicuri di come stanno le cose o come dovrebbero essere, a preoccuparci di fantomatica editoria come fosse una categoria dello spirito (e non come di un più credibile genere letterario fra gli altri, nei casi migliori, e sempre collocato in un mercato) e o di presunta morte della poesia (ma quanto è stato travisato lo stesso Adorno dopo Auschwitz, a dirla tutta?), ecco a star dietro a tutte queste appassionanti cose ci perdiamo parte di quello che accade, anche solo un po' di qua del confine giuliano, oltre quel Carso che così tanto ha dato alla poesia europea. Figuriamoci oltre quella longitudine! Ci perdiamo un particolare non insignificante: vivere e magari anche, se capita, lavorare. Se parte della polemica fosse ad esempio canalizzata in sforzi di traduzione e ascolto, sarebbe un grandissimo risultato. Meglio provare a rimediare. Come? Leggendo altro, ad esempio, promuovendo traduzioni, spostamenti, viaggi, confronti e incontri nell'epoca della strizza bestiale da confronto, in cui è più facile accontentarci di quello che già sappiamo, anche in poesia. 

Scrive Miroslav Košuta, altro poeta della vicina Slovenia: "Sono nato in un paese dell’altipiano, alle porte di Trieste, in un tempo lontano, molto lontano, in cui gli unici italiani del luogo erano i carabinieri (mandati per controllarci) e le maestre (per italianizzarci). Forse ci sarà stata pure qualche famiglia che parlava un dialetto diverso dal nostro, ma evidentemente erano dei poveri diavoli come noi e non stavano sull’altra sponda. Sono nato nell’Anno xiv dell’Era Fascista. Questo ha condizionato tutta la mia vita: nel resto del mondo correva l’anno 1936. Sono nato in un paese dove la mia famiglia aveva le sue radici da secoli, un paese con una splendida vista sul golfo e sulla città di Trieste, purtroppo, però, in un’epoca in cui gli sloveni venivano dichiarati razza inferiore e quindi da estirpare, la loro lingua era proibita e i loro libri bruciati, i cognomi italianizzati, i nomi imposti. Sono nato in una famiglia che amava i libri e li nascondeva in ogni dove come il bene più prezioso." Ci sono gli echi di discorsi che abbiamo sentito molte volte pronunciare anche da Boris Pahor. Incomincia con queste parole Della poesia: io, un poeta sloveno di Trieste, lo scritto anteposto da Miroslav Košuta al libro che traghetta in italiano un percorso ragionato della sua produzione poetica. Košuta, autore fra l'altro di Scritture parallele. Dialoghi di frontiera tra letteratura slovena e italiana (Trieste, Ed. Lint, 1997), mostra in questo scritto una grande senso del luogo ed è questo senso del luogo che possiamo chiedere ai poeti, a volte.

Il libro di cui diamo notizia va ad arricchire la collana di poesia di Del Vecchio Editore, una delle poche realtà editoriali che sembra essersi accorta delle voragini di attenzione lasciate aperte da una certa editoria di poesia che prova ancora a vivacchiare sulla scia di un blasone ormai quasi del tutto opacizzato. La ragazza dal fiore pervinca (pp. 200, euro 15, traduzione di Tatjana Rojc) è costruito in diverse stazioni o "cicli", corrispondenti ai capitoli: Origine, La parola, il verso, Impegno, I luoghi, La ragazza dal fiore pervinca, Le madri.

E CORRE VOCE


E corre voce che fiorisce il mare
in fiori di ghiaccio, per solo sul fondo, 
nei golfi dove le correnti non turbano le alghe
che i fiumi portano dalle montagne sul fondo, 
i campanacci delle malghe fusi in cristalli,
che il limo celi tracce delle greggi, sul fondo.

E corre voce e di questo e di tanto altro,
storie da sottocoperta delle navi affondate.
C'è chi dorme e gli si drizza il sonno, 
noi, invece, che in pace abbiam vissuto il mare
torniamo a bercelo a sorsi ancora e sempre.

Non si sa perché in Italia la poesia e la letteratura slovena siano così trascurate. Il già citato Pahor, che pure ha raccolto favori di pubblico e critica, non ha spostato di molto la tendenza, quantunque abbia fortunatamente costretto a puntare anche lì lo sguardo. Eppure - lo si è scoperto anche in questo vecchio post dedicato a poeti sloveni contemporanei - appena di qua di Trieste possiamo trovare una boccata di fresca aria e luce. Anche con Košuta, la cui geografia insiste su un triangolo che appoggia i propri lati tra Trieste, Duino e i cieli delle Valli del Natisone, usciamo per poi rientrare, con i capelli scomposti di chi è stato esposto ai picchi di vento delle falesie.

LA SCRITTA DELLA MANO SINISTRA


La sua mano sinistra ha scritto nell'aria qualcosa,
sembrava quasi il mio nome,
facendo sussultare e mormorare le betulle,
quando la mano le si è posata sul cuore.

E un sussulto e un mormorio in me,
mi son guardato attorno -
ho intravvisto il cielo
con miriadi di mani sinistre abbandonate.

La ragazza dal fiore pervinca ripercorre sostanzialmente tutta la produzione poetica di Miroslav Košuta e per un lettore italiano rappresenta l'opportunità di sorvolare un tratto non piccolo di storia e di storia della lingua, di rapporti tra queste aree vicine, sicuramente anche da un punto di vista intellettuale. Quest'anno, fra le altre cose, ricade il quarantennale della morte di Pasolini. Se ne leggeranno delle belle, suppongo. Magari a qualcuno potrebbe venire in mente che il lascito di Pasolini si può meglio avvicinare partendo dalla lettura di un poeta vicino come Košuta. C'è da augurarselo.

mercoledì 1 aprile 2015

da "dove mente il fiume" di Daniele Bellomi

Una poesia da #49


Pubblico di seguito una poesia tratta da dove mente il fiume di Daniele Bellomi (Prufrock spa, pp. 80, euro 12, copertina di Roberta Durante). L'autore, nato a Monza nel 1988, ha consegnato alle poesie e alle prose finali di questo libro una proposta risoluta di lirica. Categorie come sperimentazione forse non dicono più di tanto, in poesia come in musica o altrove. Se ci accontentiamo di pensare la musica di Edgard Varèse come "sperimentazione" ci perdiamo l'altra faccia della luna. Ogni tentativo di scrittura, poetica ma non solo, è sperimentazione e allo stesso tempo un'orazione nei solchi e nei mucchietti di foglie della tradizione. "dove mente il fiume, un fiume qualsiasi direbbe cose da dire, cose che andrebbero parlate e dette e riferite solo e soltanto dove mente un fiume, perché le cose da dire, non solo quando un fiume mente, ma anche quando è fermo, e pare quasi non si muova, andrebbero parlate e dette solo nel caso in cui il fiume stesso abbia deciso di mentire. [...]" Una delle migliori definizioni di segno che ho trattenuto dalla lettura del Trattato di semiotica generale è "tutto ciò che può essere usato per mentire". Senza essere troppo manganelliani, la menzogna ci può portare oltre quello che già sappiamo e questo potrebbe provare a fare la poesia. Vedete, a me sembra che spesso le poesie che "piacciono" o "funzionano" siano quelle che confermano qualcosa, una credenza, una percezione, uno sguardo, un taglio di luce. Più passa il tempo, più mi accorgo che questo è solo il punto di partenza, di più mi interessa se un testo, partendo anche da un terreno comune che non può che essere, per forza, un terrain vague, mi porta oltre, mi trasporta, come mi capita leggendo, ad esempio, "quando un fiume mente la luce appare quasi disboscata, frana, percorre il proprio moto, quasi come niente fosse, quasi come niente stesse per mentire." Il tentativo che mette in morsa questo volume, sia in poesia che in prosa, è comunque più sfaccettato, duale, com'è il rapporto tra fiume e alveo, nel fondo contraddistinto da una convizione (eraclitea) che la strada in salita e in discesa è una sola e la stessa, illuminata da una luce che è "passatempo o egemonia".


dispose


parte la guerra dentro un margine di fuga, per dove manca,
sarà forse il marker del sangue che non c'era prima, preso
dentro a fare sfogo di se stesso. prendono a non guardare
più nel primer dello specchio: quello che resta è solo guerra
quando se ne andranno, pregando che tutto sia finzione,
disposti al ritiro degli assalti laterali. hanno una funzione:
arrivano diretti alle sorgenti radio, al solo prezzo reso
ormai possibile. passerà, dalla capienza al taglio netto
col presente; passerà, se dai terreni di coltura provano
il rilascio dei batteri, battery, catalizzando i resti dove
niente potrà essere di nuovo; passerà: circonderanno
le pianure per emettere un segnale, conosceranno
meglio la condensa dei campi, la frequenza dei carri,
ed archi, arches, protesi a fare voti irradieranno punti
vitali e non dissimili da gabbie, gathering. passerà, come
una spiegazione a caro prezzo, verrà per liberarci
di ogni cosa. funziona, per impulso, in ogni storia.