giovedì 28 luglio 2011

Ardian-Christian Kyçyku e "I fiumi del Sahara"












Ecco una felice scoperta, una di quelle che mi chiedo se solo i piccoli grandi editori riescono ancora a fare. Non che i grandi editori non pubblichino libri importanti, di autori nuovi ecc. Ma un grande editore non avrebbe mai pubblicato un libro del genere se prima non ne avesse pre-costruito il successo a livello di ufficio stampa, di personaggio, di tour promozionale o, come si dice e si scrive spesso, di "caso editoriale in patria o in questo o quel paese". Lo so, le discussioni sulle dimensioni delle imprese editoriali non piacciono e lasciano spesso il tempo che trovano. Però ci sono dei meccanismi di scouting che vanno ancora studiati e portati alla luce.

Ardian-Christian Kyçyku è uno scrittore albanese, nato nel 1969. Ha scritto molti libri, parte in albanese, parte in romeno (da molti anni vive a Bucarest). I fiumi del Sahara (pag. 128 euro 13, traduzione di Kamela Guza e prefazione di Elvira Dones) appartiene alla produzione in lingua albanese e in Albania è ambientato, nelle vicinanze del lago di Ocrida. Il libro ha ormai dodici anni, visto che è uscito in lingua originale nel 1999.

Quello che vi possiamo trovare non è tanto una specie di "esotismo del vicino", visto che della realtà albanese conosciamo poco. Troviamo piuttosto una storia che ci fa aggrappare alle persone, ai luoghi, alle ossessioni. Curioso che il progetto di questo libro parta da molto lontano. Calvinianamente potremmo essere contrari all'importanza dei dati biografici, però credo che nel caso di Kyçyku sia bello e suggestivo pensare a chi è l'autore quando inizia a pensare e a scrivere questa storia nell'Albania di fine anni Ottanta. Si tratta di una storia che va letta e non svelata. Anche perché, se volete qualche indicazione sulla trama, vi basterà una ricerca in internet o la lettura della quarta di copertina. Ma non ne vale molto la pena, si tratta di un libro breve che divorerete con soddisfazione. Una volta tanto lasciate che mi sbilanci e che dia un consiglio senza tanti giri di parole: cercate questo libro.

mercoledì 20 luglio 2011

I sentimenti sovversivi di Roberto Ferrucci

Uscito prima in edizione bilingue per la collana francese "Meet les bilingues" diretta Patrick Deville, viene ora scorporato in un'edizione tutta italiana (Isbn Edizioni, pp. 144, euro 17) il romanzo che Roberto Ferrucci dedica al suo soggiorno nella Loira Atlantica, a Saint-Nazaire, al decimo piano del "Building", in un appartamento messo a disposizione dalla fondazione francese per gli scrittori periodicamente invitati a un soggiorno di sei settimane con borsa settimanale. Il libro rientrebbe dunque nell'insieme dei molti romanzi che parlano di scrittori e di scrittura. Nel tempo ho sviluppato un'avversione per questo crescente genere editoriale che vanta anche illustri esponenti (fate un esperimento soffermandovi a leggere una dozzina di quarte di copertina in libreria o su un sito di commercio elettronico, c'è un'alta probabilità che almeno un paio vi annuncino la storia di uno scrittore, in crisi, in amore, in trance creativa, alle prese con una storia che ha per protagonista un altro ennesimo scrittore). Per me questo genere è spesso un criterio di scarto nell'abbondante offerta, visto che tollero male l'idea di un'autereferenzialità della scrittura tipica della peggiore televisione. Ma con Ferrucci sapevo di non correre questo rischio, fortunatamente la quarta di copertina parlava d'altro e Ferrucci non è certo adagiato sull'autoreferenzialità. Nella narrazione Ferrucci compie un'operazione pirandelliana di abbattimento della quarta parete, gioca apertamente con il proprio "pubblico", lo fa entrare nella scrittura senza finzione alcuna, con lui si perde il confine tra fiction e no fiction, in vista di una prosa-documentario che non ha molti praticanti. Avevo letto un libro di Jean-Philippe Toussaint, scrittore che Ferrucci ha più volte tradotto, Mes Bureaux. Luoghi dove scrivo. Partivo preparato forse. Ferrucci ha scritto anch'egli un romanzo sui luoghi dove ha scritto, sulla sua città, Venezia, e, indirettamente, un romanzo sul paese di provenienza amato e provvisoriamente abbandonato (l'Italia volgare, rancorosa e anestetizzata degli ultimi decenni, presenza tanto più forte e centrale in absentia).

Dentro la scrittura di Ferrucci entrano tutte queste cose ed entra davvero di tutto. Uno potrebbe pensare che se esistesse una legge per il product placement anche nella narrativa Ferrucci abbia sottoscritto un contratto con la Apple, tante sono le volte in cui cita i prodotti dell'azienda di Cupertino, ma in realtà si tratta davvero di un modo nuovo (e ben venga) di recepire il nostro rapporto quotidiano con la tecnologia e consegnarlo alla scrittura. E si badi bene, tecnologia che serve anche alla scrittura. Entrano le riflessioni amare sull'Italia, la vita del soggiorno francese, né fuga né catarsi bensì necessità fisiologica di un altrove, le vicende di Venezia (quelle sulla città lagunare e sulle idiozie che la circondano, da tutte le parti politiche, sono tra le pagine più belle).

Sentimenti sovversivi è un libro che nasce altrove, che porta altrove e riprecipita continuamente nella realtà italiana degli ultimi anni. Ferrucci ama troppo l'Italia per non tornarci all'interno della bolla fragile della scrittura. Sarà interessante leggere nuovamente queste pagine tra qualche anno. L'autore porta alla ribalta una questione generazionale, che passa più rapidamente in primo piano quando si fa più scottante la ripresa di una vera "questione morale". Lo fa tuttavia da una posizione di disagio individuale. Marco Lodoli, riferendosi al precedente romanzo di Ferrucci, Cosa cambia, ha scritto: "Se la letteratura a Roma prende spesso una piega creaturale e lirica, e a Milano una sperimentale e antropologica, nel Veneto sembra affermarsi la linea soggettiva-sociale, ovverosia una predisposizione al racconto della modernità vista alla luce di un disagio individuale: e penso a Trevisan, a Mozzi, a Bugaro. E penso anche a Roberto Ferrucci [...]." Credo che Lodoli abbia colto nel segno (due nomi per Roma e Milano? Rispettivamente Maria Grazia Calandrone e Giorgio Falco). Non è affatto mia intenzione ipotizzare una "linea" veneto-friulana nella narrativa attuale, ma se non altro segnalare la reattività che molti scrittori di questi posti dimostrano, il tentativo di predisporsi a un cambiamento e a un adattamento del vivere in questa parte d'Europa e in questo frangente di secolo, all'interno di una nazione dove persino i sentimenti più normali del cittadino sono additati come sovversivi.

sabato 16 luglio 2011

Max Kozloff e la luce di Vermeer













Il titolo originale suona più semplice: Vermeer: a study. Dopotutto, per il pubblico di lingua inglese, il nome di Max Kozloff in copertina vale già molto. Per l'edizione italiana (Contrasto, pp. 144 con illustrazioni, euro 18) si è ritenuto opportuno optare per un'interpretazione aggiuntiva, che parlasse della luce dei quadri di Vermeer. Max Kozloff viene infatti tradotto per la prima volta in italiano, nonostante sia stato l'autore di saggi importanti sulla pittura americana durante la Guerra fredda, di un fortunato Cubism/Futurism, di studi importanti di fotografia (lui stesso da metà anni Settanta è fotografo molto apprezzato), contributing editor e poi direttore di Artforum e, più recentemente, artefice di una monografia importante sul ritratto fotografico nel Novecento intitolato The Theatre of Face.

Non stupisce questo attraversamento del Seicento olandese e del grande Vermeer, del quale Kozloff propone una lettura che prende lo spunto da interrogativi in parte nuovi, tutta tesa a comprendere la gara di resistenza di queste "icone", la capacità dei quadri del grande artista olandese di resistere nel tempo, di "parlare" a così tante persone lontane tra loro nei secoli, nello spazio, nella cultura.

Che cos'è un'icona? Da quante parti si è provato a definire questo concetto? E da quante parti si sono studiate le icone di Vermeer, cercando di sviscerarne sempre nuovi simbolismi? Io credo che dobbiamo riportare le motivazioni e l'interesse di questo libro sul solco della fotografia, dove la luce è (quasi) tutto, e dove Kozloff si è maggiormente impegnato negli ultimi anni. Partendo dalle vetrine di New York, egli si è messo infatti sulle tracce dei fotografi della città, molti dei quali di origini ebraica, e nell'organizzare un'importante mostra ha sostenuto che esiste una sensibilità tutta ebraica nel fare fotografia. Per queste affermazioni è stato pure criticato (qualche spunto interessante su ebraismo, fotografia e Kozloff lo trovate qui). Ecco, proviamo a immaginare un poligono che ha come vertici 1. la New York di Kozloff, 2. l'Olanda del Seicento, così come ce la descrive anche Steven Nadler, un luogo dove in quegli stessi anni operava un altro grande ebreo come i fotografi newyorkesi di Kozloff, l'ottico-filosofo Baruch Spinoza (Vermeer e Spinoza vivono quasi gli stessi anni), 3. l'ebraismo, centrale ora come allora nei due luoghi citati, 4. le vedute dipinte da Vermeer (la mente va ovviamente a Proust, anzi a Bergotte) o i suoi interni "immensi", i suoi ritratti, comuni e straordinari (che dire di un altro capolavoro, costruito con l'anticamera buia in primo piano, come la Lettera d'amore?) e, infine, la principale generatrice delle moderne icone, 5. la fotografia: la mia resta un'ipotesi, magari frutto di sciocco sincretismo, ma forse ci spieghiamo perché questa riflessione di Kozloff offre degli spunti inediti su un artista e su alcuni temi dove finora si è scritto tantissimo. In fin dei conti, Contrasto è un editore di fotografia. Tutto torna?

lunedì 11 luglio 2011

Paolo Vineis, "Lost in translation. Scienza, informazione, democrazia"

Viviamo in un mondo di linguaggi specialistici. La traduzione diventa essenziale, a maggior ragione nel delicato snodo tra sviluppi della scienza, sistema dell'informazione e democrazia. Per questo è fondamentale capire la rilevanza della traduzione tra diversi linguaggi specialistici e soprattutto rendersi conto di quanto va irrimediabilmente perso nei vari passaggi della comunicazione e, appunto, nella traduzione, intesa nel senso etimologico. Infine è opportuno cercare di conoscere il perché di queste "perdite", che non sono solo dissipazioni di informazione, tanto per usare un lessico da modello ingegneristico della comunicazione. Di qui il titolo cinematografico Lost in translation di questo brevissimo e denso libro di Paolo Vineis (pp. 96, euro 10, Codice) appartenente alla serie dei libri di "Biennale Democrazia". Si comprende subito che l'autore, professore di epidemiologia ambientale all’Imperial College of Science, Technology and Medicine di Londra, è a suo agio in riflessioni filosofiche ed etiche sul ruolo sempre più delicato (sarebbe banale e ovvio qualificare questo ruolo con un aggettivo come "rilevante") della scienza nelle società contemporanee.

In queste poche pagine Vineis riesce a mettere assieme un'interessante ipotesi su obesità (epidemia della contemporaneità) legata a junk food e sprawl urbano, un capitolo dedicato alle difficoltà metodologiche nella ricerca sul cambiamento climatico, una riflessione sul "paesaggio estetico e morale del post-moderno" che andrebbe letta assieme ai tanti contributi che in questi anni si stanno susseguendo su questo tema cruciale, sulle minacce che incombono sulla memoria collettiva e sulla salute mentale a causa del degrado galoppante particolarmente evidente nel caso italiano. Torna inoltre sui problemi di classificazione identitaria che danno il la a derive razziste sempre in agguato, compie un'incursione nel settore della pubblicità alimentare, ritorna sul problema della laicità dello stato (al caso di Eluana Englaro è dedicato il penultimo capitoletto) e trova infine lo spazio per ripercorrere il nesso tra tecnologia medica e democrazia partendo dalle tesi del filosofo americano Michael Sandel. Sono davvero tanti e notevoli i percorsi che si possono intraprendere da ciascundo di questi densi capitoli.

Per convincerci che questo è un libro che vale la pena prendere in mano e leggere, credo possa bastare questa manciata di righe dall'introduzione. "[...] ogni giorno ci viene richiesto di esprimere un parere, direttamente (per esempio tramite referendum) o indirettamente (attraverso le scelte elettorali) su questioni molto complesse e vincolate a linguaggi specialistici, come lo statuto dell’embrione o le cellule staminali. Questo volume vuole essere un contributo al cruciale ma irrisolto problema della traduzione tra linguaggi: se non abbiamo presente il problema rischiamo che la democrazia venga “persa nella traduzione”, una sorta di deriva di tutte le società contemporanee."

lunedì 4 luglio 2011

"Il re s'inchina e uccide", un libro prezioso di Herta Müller



Del premio Nobel 2009 Herta Müller stanno uscendo via via le opere più importanti, disseminate in vari cataloghi, da Marsilio che l'aveva "inconsapevolmente" scoperta nel 1992 con In viaggio con una gamba sola, a Sellerio, passando per Feltrinelli e il fortunato editore trentino Keller, il quale, al momento dell'annunciazione del premio, si trovò inaspettatamente a rappresentare la parte del principale editore italiano dei suoi scritti.

Ora, sempre Keller
 porta in libreria Il re s'inchina e uccide, un libriccino prezioso (pp. 96, euro 12, traduzione di Fabrizio Cambi). Il titolo deriva dal secondo dei due "saggi autobiografici" che costituiscono questo libretto. A dire il vero credo però che la vera "chicca" (per usare una parola che non amo) sia costituita dal primo dei due scritti, In ogni lingua dimorano altri occhi, ricco di pagine di rara bellezza che non possono non interessare tutti quelli che hanno a cuore la lingua (le lingue e i dialetti), il suo rapporto con le cose, la politica, gli affetti. Lo scritto in questione si apre con passaggi folgoranti, che non disdegnerebbero chi oggi parla di "lingua incarnata", di neuroscienze o di una scienza tutta da immaginare che potrebbe più meno chiamarsi "fisiologia del movimento applicata all'uso della parola", come in questi momenti introduttivi: "La parola non deve raddoppiare la fatica di quel che si fa. Le parole disturbano i movimenti, sono un intralcio vero e proprio per il corpo [...]", frasi che potremmo applicare con interesse anche a certe discussioni sui nostri dialetti.

Nello scritto che presta il titolo al volume, partendo dalla metafora del re nel gioco degli scacchi (anche qui tornano gli affetti, il nonno, mentre il primo brano si apre con un profondo ricordo dell'infanzia e della figura della nonna) la scrittrice ripercorre il proprio rapporto con il potere dispotico di Nicolae Ceauşescu, la migrazione dal piccolo villaggio di campagna nella Romania occidentale, nella regione del Banato, alla capitale. Questo scritto e questo volumetto hanno il pregio di interessare sia chi ha già apprezzato i capolavori tradotti della Müller (penso ad esempio al fortunato Il paese delle prugne verdi, sempre da Keller) sia chi è ancora digiuno, proprio perché funziona come porta d'ingresso (e certo non "di servizio") ai temi caldi e ricorrenti della sua prosa.

Per finire un appuntamento molto vicino: l'autrice sarà ospite il 6 e 7 luglio a Milanesiana 2011 (ben 5 i premi Nobel presenti in questa rassegna). Qui potete scaricare il ricco programma degli eventi. Credo che per chi ha l'opportunità di andare ad ascoltarla sia un'occasione irripetibile.