martedì 31 gennaio 2017

La letteratura italiana e la Bibbia. Un'intervista con Sonia Gentili sul libro "Novecento scritturale"

Librobreve intervista #74

Sonia Gentili, professoressa di Letteratura italiana all'università La Sapienza di Roma, risponde nell'intervista che segue ad alcune domande relative alla sua recente pubblicazione intitolata Novecento scritturale. La letteratura italiana e la Bibbia (Carocci, pp. 264, euro 24). Nelle risposte si affronta l'opera di più scrittori tra cui Giacomo Leopardi, Elsa Morante, Mario Pomilio (anche se escluso dalla trattazione del libro), Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori e Vitaliano Brancati. Non mancano i riferimenti a autori o pensatori stranieri e tra questi anticipiamo i nomi di Eliot, Lévinas, Auerbach, Dostojevsky, Bulgakov, Frye con il suo celebre studio The Great Code: The Bible and Literature. Lo studio di Sonia Gentili coglie sicuramente un aspetto centrale e una costante, sulla quale non si arriva quasi mai a riflettere con tenace costanza. L'auspicio è che la conversazione che potete leggere qui sotto funzioni da invito alla lettura del libro.


LB: Parto dal titolo dell'opera: si menziona inequivocabilmente il secolo Ventesimo, circoscrivendo così un orizzonte temporale, ma poi si comincia con Leopardi. Passaggio inevitabile? Sì, passaggio inevitabile vien da dire dopo aver letto. Ma potrebbe spiegare perché la partenza con Leopardi a chi non ha ancora letto il libro?
R: Il Novecento ha un suo prologo leopardiano poiché è rivolto all’antico in quanto origine del proprio linguaggio, e tuttavia sottopone questa origine ad una interrogazione radicale : condotta senza sconti e senza paura di distruggere. Questo rapporto con l’antico come ricerca di un linguaggio originario a cui si vorrebbe tornare, ma di cui si denuncia l’impossibilità per i moderni, lo dobbiamo appunto a Vico e Leopardi. In Leopardi questo spietato esame della tradizione anticipa e fonda il miglior realismo novecentesco poiché è antimetafisico: comporta la cancellazione dell’uomo in generale, cioè del soggetto astratto e universale di stampo illuministico –idealistico, e la scoperta dell’individuo particolare in carne e ossa, con la sua povera realtà di bisogno e di dolore. Tutta la tradizione culturale è passata al vaglio di questa semplice realtà: di fronte alla domanda senza risposta e senza riscatto costituita dal dolore del singolo essere vivente, tutta la tradizione classica e cristiana, i provvidenzialismi, le metafisiche e gli antropocentrismi crollano o si ridisegnano. È Leopardi a riscrivere il Genesi trasformando il mondo tohù va vohù, «informe e vuoto», che nella Bibbia è lo stato iniziale dell’universo, nella condizione permanente ed antiprovvidenziale del mondo : la «terra desolata» compare nella letteratura europea almeno un secolo prima di Eliot, su base biblica e ad opera di Leopardi. Col grande poeta e filosofo recanatese la teodicea smette di essere un esercizio intellettuale e diventa il vero e sofferto ‘processo a Dio’ – basta leggere il Bruto minore - che ritroveremo a metà Novecento, dopo gli orrori nazisti.

LB: Di tutti gli autori trattati nel suo volume (e sono molti e tra questi nomino almeno Pascoli, Bassani, Testori, Primo Levi e Pasolini), vorrei che qui riprendesse e sintetizzasse le linee principali sulle quali ha costruito le pagine dedicate a Elsa Morante.
R: La lettura morantiana della Bibbia è esemplare: ha come oggetto una Bibbia concreta – la copia personale che scrittrice ebbe con sé tutta la vita e postillò incessantemente - , la prima Bibbia “manuale” (oggi diremmo tascabile) italiana (La sacra Bibbia pubblicata a Firenze nel 1929 a opera della Libreria Editrice Fiorentina della Cardinal Ferrari S.A.I) concepita negli anni Venti per battere la concorrenza delle piccole Bibbie riformate, che in Italia circolavano già abbondantemente. La scrittrice risponde puntualmente alla sollecitazione degli editori –quella cioè di una lettura personale e continua – ma mostra un’indipendenza intellettuale che non sarebbe piaciuta a costoro.   La Morante coglie un punto essenziale della concezione paolina dell’amore e la riflette nel primo verso della poesia Alibi («Solo chi ama conosce. Povero chi non ama») praticamente coincidente con l’inizio del Pianto della scavatrice pasoliniano («Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più»). Le due poesie, pubblicate nel 1958, e nella stessa collana dell’editore Longanesi, dipendono con ogni probabilità dalla stessa fonte paolina  attraverso una comune rielaborazione : i due scrittori, legati da una forte amicizia, intrecciano riflessioni su temi biblici almeno fino alla collaborazione morantiana al Vangelo secondo Matteo
In Paolo amare significa conoscere, ma la sinonimia completa dei due termini si produce solo nell’escatologia individuale e collettiva: amare significa essere conosciuti da Dio (1 Cor 8, 1) e, di conseguenza, iniziare a conoscere oscuramente, attraverso un’immagine riflessa e in stato enigmatico, ciò che dopo la morte si vedrà «faccia a faccia» (1 Cor 13, 12). Paolo ha una concezione attiva e passiva al contempo, in quanto interpersonale e reciproca, dell’atto gnoseologico: amare/conoscere presuppone l’essere amati/conosciuti[1]; ecco perché in quel «solo chi ama conosce», parafrasi morantiana e pasoliniana di 1 Cor 8, 1 («qui diligit […] cognitus est», leggermente tradito dal «chi ama […] è riconosciuto» della Bibbia Ferrari), cognitus est/riconosciuto è reso all’attivo, come il primo verbo amat/ama.
Da questo punto di vista, la gnoseologia paolina comporta una strutturale distanza dalle teorie della conoscenza di tradizione greca, centrate sulla distinzione netta tra soggetto e oggetto: la gnoseologia paolina presuppone due soggetti-oggetti, fondati dal loro essere soggettività-oggettività in rapporto reciproco. Quest’idea dell’essere attraverso l’altro, di forte tradizione ebraica, ha circolato negli anni Trenta anche in sede etico-filosofica generale, poiché Emmanuel Lévinas l’ha opposta alla metafisica nazista del sé assoluto (Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlérisme, 1934).

LB: Naturalmente scrivere un libro del genere significa compiere delle scelte e, come già detto nella domanda precedente, sono già molti gli autori trattati. Mi ha comunque colpito l'assenza di Mario Pomilio in un libro che parte da questi presupposti. Si tratta di un autore che rientra o può rientrare nel suo "radar" di studi?
R: Il Quinto Evangelio è un’opera straordinaria, ma affrontare questo testo significa anzitutto inquadrarlo nel gigantesco tema letterario europeo del dibattito sulla natura di Cristo, che ben prima della pièce teatrale gemella al romanzo di Pomilio compare nel Maestro e Margherita del grande Bulgakov. Parlare di questo tema avrebbe significato insomma allontanarsi dalla testualità biblica e affrontare il capitolo del Cristo come mito o come realtà nella cultura filosofica novecentesca, che a partire da Ernest Rénan (Vie de Jésus, 1863) dilaga, e che presso gli scrittori diventa il simbolo di uno scientismo cieco, su cui il mistero (non necessariamente la fede: piuttosto il mistero, l’inconoscibilità) celebra puntualmente la propria vittoria. È questa la vendetta e il fine di Woland, il diavolo bulgakoviano che decide di soggiornare per un po’ sulla terra: togliere agli scienziati e ai marxisti moscoviti le loro piccole certezze scientifiche.

LB: Da lettore non mi risulta difficile riscontrare l'attività sottotraccia o anche manifesta del Vecchio Testamento nell'immaginario dal quale scaturiscono nuove opere di narrativa o poesia. Sul fronte neotestamentario invece cosa emerge dalla sua analisi?
R: Per riassumere all’estremo, si tratta soprattutto di due punti: il primo è il mistero evangelico dell’incarnazione, che costituisce una delle fonti concettuali più feconde del realismo novecentesco, via Auerbach e non solo (centrali, in questo senso, sono le elaborazioni letterarie della Morante, di Pasolini e di Testori: i capitoli 4 e 5 del libro).  Il secondo è il giganteggiare del “dossier san Paolo” nel Novecento: non solo, cioè, l’abbondanza di rielaborazioni dei testi paolini, ma anche la rappresentazione del personaggio di Paolo, l’esemplarità della sua vicenda intellettuale. Discendono da testi paolini l’opposizione tra apocalissi e carità in Pascoli, la mostruosa esaltazione della guerra come carità nei testi dei preti guerrafondai come Semeria e Gemelli durante la Grande Guerra, o la concezione dell’amore-conoscenza morantiano e pasoliniano. Il personaggio di Paolo è invece centrale in Pasolini e nella riflessione politica novecentesca: il «conflitto tra il santo e il prete», come Pasolini stesso diceva, cioè tra santità e politica, tra il Cristo dell’amore e quello della violenza necessaria alla realizzazione del cristianesimo in terra, inequivocabilmente predicato dallo stesso Cristo (Mt 10, 34-36 : «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada : sono venuto a mettere il figlio contro il padre e la figlia contro la madre e la nuora contro la suocera; saranno nemici quelli della stessa casa» ). La questione della violenza neotestamentaria e paolina è centrale per tutte le culture rivoluzionarie novecentesche.

LB: Credo che le sia capitato di fare l'esercizio di proiettare l'impianto di questo suo saggio su una qualche letteratura straniera (e nel suo libro certi rimandi a altre letterature non mancano). Quale genere di indagine le piacerebbe compiere se solo potesse imbarcarsi in una simile avventura in una letteratura straniera?
R: Le due letterature straniere capitali per il tema nel Novecento sono quella tedesca, a causa dell’enorme rilevanza del mito faustiano, e quella russa, per la centralità degli ideali sociali cristiani nella fase storica di elaborazione del pensiero socialista e comunista; qui i tre giganti sono naturalmente Tolstoj, Dostojevski e Bulgakov, ma c’è molto altro. Personalmente però sono interessata soprattutto alla riflessione sui limiti del linguaggio - quella che nel libro è affidata al capitolo 6- e sull’inesprimibilità del mistero (non necessariamente quello divino)  condotta nel Novecento su base biblica. La poesia di Eliot e la riflessione linguistico-musicale di Arnold Schoenberg sono rapidamente toccati nel mio sesto capitolo, ma su questi autori, soprattutto in relazione alla questione della poesia, vorrei tornare più distesamente.

LB: Potrebbe consigliare cinque titoli affini alla sua ricerca o comunque a essa fortemente legati (eventualmente anche provenienti dall'estero)? (Penso sia importante infatti iniziare a costruire una bibliografia sulla fondamentale componente biblica dei nostri immaginari letterari.)
R: Devo dire che la gran parte delle indagini disponibili su questo tema hanno il limite del repertorio citazionistico: studiano cioè il testo biblico non in quanto portatore di concetti e forme colti nel loro mutare storico, ma come «grande codice»: è questo il titolo di un celeberrimo studio di Northrop Frye sulla Bibbia come fonte letteraria (The Great Code, 1982). Mi limito ad indicare questo studio, importantissimo per il ruolo storico che ha svolto, ma responsabile di aver inaugurato una pratica “repertoriale” della citazione biblica che la sottrae ai suoi significati antichi e moderni, insomma al suo senso storico e assoluto. Le opere interpretative dedicate alla fonte biblica nella letteratura oggi disponibili ereditano tutte, quale più e quale meno, questo limite: registrano citazioni, ma si sforzano troppo poco di intrepretarne il senso.

LB: Il volume si conclude con un'interessante cronaca e analisi delle vicende che riguardarono il testo teatrale di Vitaliano Brancati La governante. Che genere di conclusioni trae e possiamo trarne?
R: Il contrasto tra la ricchezza poetica e intellettuale delle Scritture – che apprezzo profondamente da non credente – e la lettura spesso banalizzante e “riduzionistica” contrabbandatane dalle varie Chiese (non solo quella cattolica: anche le Chiese riformate, che pure hanno propugnato la lettura libera della Bibbia, non sono state da meno) è sempre tragicomico e sommamente interessante. Anche l’annaspare, talvolta ingenuo, degli scrittori tra libertà e bisogno di essere spiritualmente guidati nella propria lettura della Bibbia, fino a farsi involontario strumento di politiche ecclesiastiche non proprio nobilissime - come libro accadde al Pascoli del primo capitolo e al Pasolini del settimo – è di enorme interesse e meriterebbe uno studio monografico.




[1] «Cognoscam sicut et cognitus sum»; la Bibbia Ferrari amplifica il passo a scopo esplicativo interpolando due parole estranee al testo che pongo tra quadre: «conoscerò [per intiero], come [anch’io] sono stato conosciuto» (VulgClem, 1 Cor 13, 12). 

sabato 28 gennaio 2017

"Per Os" di Fabio Orecchini e il sito installativo "TerraeMotus"

L'editrice Sigismundus propone il nuovo lavoro poetico di Fabio Orecchini intitolato Per Os (pp. 72, euro 14, con una nota di Tommaso Ottonieri). Si tratta di un progetto che, come i precedenti, racchiude nell'oggetto del libro una delle parti di un tragitto creativo che coinvolge anche altro, sulla scia di un percorso che l'autore compie da più anni attraversando poesia, poesia visiva, installazioni, performance, video. Qualche tempo fa, qui, avevamo parlato di Dismissione, il suo penultimo libro uscito per l'editore Luca Sossella. La situazione del recente Per Os va contemplata simultaneamente al sito installativo "TerraeMotus" che potete trovare a questo link, un'opera che è già stata presentata in diverse varianti site specific per alcuni importanti festival italiani. Per gentile concessione dell'autore riporto la sua nota posta in coda al volume e un video realizzato da Jacopo Mario Gandolfi.


Dal testo all’installazione, il “TerraeMotus”

di Fabio Orecchini  



Immaginare l’atto poetico come il risultato di una partitura spaziale, un paesaggio di segni, il luogo come fosse un testo, una relazione di forze, la voce come corpo, un corpo attraversato che attraversa, la parola una ferita infetta, che rimargina e riapre_dal bianco e continuamente_ tracciare infinite cicatrici.


Per Os, per bocca e per la bocca, somministrate siano le parole, le poche che restano.

Quest’opera intende proseguire il lavoro di scavo linguistico iniziato con Dismissione (Luca Sossella, 2014) nella direzione, questa volta ascensionale_ qui si scava per uscire_ di una ricerca ipertestuale, sonora ed installativa che muova dall’impossibilità filosofica del dire, del dire il vero: intrappolate nella crepe di un muro una sequenza di bocche per voci mancanti, urla vecchie di giorni.

Come per Dismissione, in cui venivano analizzate linguisticamente e politicamente, con uno studio di oltre due anni, le dinamiche di incorporazione, di mutezza incarnata, dovute alle malattie asbesto-relate nel contesto di crisi dell’operaismo e dell’industria, anche questo nuovo lavoro si fonda su un lungo studio, protrattosi per oltre un anno, dello scenario post-sismico de L’Aquila, allegoria della crisi antropologica e politica del contemporaneo. Analisi che si è avvalsa di personali ricerche sul campo, della lettura di numerosi documenti ed articoli di giornale, ma soprattutto dell’ascolto di una interlocutrice particolare, Isabella Tomassi, poeta, studiosa e terremotata.

Proprio da queste narrazioni è emersa la necessità_Ananke_di riconnettere queste nevrosi, queste ossessioni fenomenologiche, penso alla funzione “rammemorante” di Bateson, attraverso un processo di ricontaminazione, riscrittura e ripensamento continuo_le parole sono la miseria della memoria (G.Mesa)_che proceda per fallimenti e riproposizioni, piccoli sommovimenti per la ricomposizione, la ritessitura, perlomeno, di un segmento di storia e di immaginario.

Ma in che modo, attraverso quali forme, oltre quella testuale, matrice-motrice di ogni mio lavoro, far emergere, per estrazione e scavo, oltre-visioni, materiali “di scarto” del perturbante? Solo un’arte d’incarcerazione, per dirla con Beckett, povera e simbolica, avrebbe potuto approcciare una simile operazione. Così nasce l’installazione TerraeMotus, opera intermediale e performativa in fieri, che continuamente si riaggrega in forme differenti, nutrendosi delle relazioni intercorse sia con i differenti spazi in cui si è insediata_dalle case di terra di Borgo Ficana al Museo d’arte contemporanea Ex G.I.L di Campobasso, dalle stalle abbandonate di Aliano in Basilicata alle stanze sospese del Rialto Sant’Ambrogio di Roma_ sia con tutte le persone che l’hanno attraversata ed esperita. Uno spazio installatativo immaginato come luogo di rimemorazione che sedimenta_si dimentica_ oltrepasso ripetuto di oscillazioni e scarti semantici, faglie di suono, alla continua ricerca di uno sguardo tattile e riverberato: un universo ctonio popolato da corpi disabitati, muti come radiografie di bocche, fossili del dire, cartografie inesatte di un abbandono annunciato_mentre una macchina sciamanica trascrive incessantemente la traccia del remoto, della terra il moto_non c’è che questo andarsene da dire: allegoria dell’odierno luogo “comune”, il nostro tempo, che non da scampo, e come un forcipe attrae_sottrae vita, verità e vita.
Da queste esperienze nasce il sito installativo, http://www.terraemotus.site, dove spero di esser riuscito a ricostruire, per quanto possibile, tutte le “stanze” dell’installazione, per una fruizione individuale (preferibile in cuffia) dal proprio pc o tablet, stando comodamente seduti alla propria scrivania, ma pur sempre in bilico, in valico, tra due mondi. 

mercoledì 25 gennaio 2017

Giovanni Boine e Dino Campana: qualche lettera dall'epistolario e la recensione 68 di "Plausi e botte" a "Canti orfici" in un contributo di Chiara Catapano

Delle poche lettere rinvenute nella corrispondenza Boine-Campana, salta subito agli occhi che un filo d’amicale condivisione leghi le due anime-corpi malati, e che proprio la condizione di sofferenza di Campana abbia in Boine aperto possibili spiragli  verso i propri simili. Spiraglio-cappio che poi stretto si richiude intorno ai loro colli, tragico e muto, perché i due poeti prostrati dal loro personale male non troveranno sfogo e respiro. È la febbre, che torna detta soprattutto in Boine, e che cucina entrambi, febbre pronunciata cantata consumata con la propria carne, dentro la propria anima. E nulla rianima e ridesta, e a scivolar via è la vita, mentre il mondo è un rumoroso nulla: “Anche la guerra è come tutto il resto. Fa un po’ più di rumore”.
Boine fu il primo vero estimatore di Campana: ne penetrò le fibre perché similmente in lui palpitava l’angoscia e l’impermeabilità alle regole dell’umano vivere. E Campana altrettanto ne intuì la fraterna sostanza, lo testimoniano le lettere a la bella dedica di Arabesco-Olimpia.
Insomma dei più o meno conosciuti epistolari, dei più ctoni e febbrili, merita qui riproporre quello breve intenso tra il Pazzo di Marradi e il poeta di Porto Maurizio.
Accosto ho voluto inserire il componimento di Campana Arabesco – Olimpia, e la recensione completa ai Canti Orfici che Boine scrisse per la rubrica Plausi e botte sulla "Riviera ligure".

Chiara Catapano 

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(Porto Maurizio, agosto 1915)

Fratello,
è una parola che mi piace, sebbene io la usi casto. Avevo un fratello, era boxer, picchiò mezzo mondo e morì di tifo l’anno passato. Altri fratelli non ho. Ma facciamo la prova con lei: può darsi che riesca. Certo parecchie pagine del suo libro mi diedero una febbre d’esaltazione che non perderò. Suo

G. Boine

P.S. Cerco un impiego in India. Il mio indirizzo è Porto Maurizio.

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(Udine, novembre 1915)

Caro Campana,
ripartirò di qui dopodomani. Ho visto il vedibile […]. Però è bizzarro come di nessuna parte si trovi lo sfocio. Non c’è liberazione. Il cervello esaurisce il mondo con troppa voracità: s’arriva al nulla da qualunque parti si tocchi. Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che s’appiatti? A forza di scrollar le catene le romperemo? Anche la guerra è come tutto il resto. Fa un po’ più di rumore. Suo

Boine

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(Firenze, dicembre 1915)

Caro Boine,
la sua cartolina mi è giunta all’ospedale di Marradi dove io sono stato un mese e mezzo inutilmente. Sono assai triste. Tornato a Firenze i facili successi mi guastarono un po’ troppo. È piaciuta qui quella Toscanità che pubblicai in Riviera. Ho conosciuto Cardarelli simpatico e geniale. Siamo stati molto insieme quest’oggi. Credo di condividere quasi tutte le sue idee e l’indipendenza di questo giovane mi ha rialzato il morale. Vengo a Firenze perché è il posto più vicino a Marradi ma mi ci trovo assai triste come dappertutto, la miseria a parte. Vorrei come lei vivere in Riviera allora forse lavorerei tanto per me che per gli altri. Ora in questa borsa di Firenze sono uno spettatore annoiato. Le invio una vecchia e pur discreta cosa per la Riviera al patto che si decidano a pagarmi questa o l’altra già pubblicata. Vorrebbe Lei interessarsi? Se non vorranno pagare la prego di tenersi questi versi come ricordo mio senza farli pubblicare sulla Riviera e se pagheranno invierò sempre qualcosa alla Riviera. Scusi dell’incomodo. Se potrò esserle utile in qualche cosa si rivolga pure a me. Ho pubblicato nella Tempra di Pistoia quel Arabesco di cui vorrei sapere il suo giudizio e preparo qualche cosa che mi sembra un tentativo abbastanza originale nello stesso genere. Se non fossi ammalato sento che qualche cosa forse d’importante si potrebbe sviluppare da me ora, ma in questa condizioni lascerei la salute sforzandomi. Assai mi piacque quello che Lei stampò insieme alla mia critica sulla Riviera. Novaro mi piacque più di prima in “Rari i grilli”; specialmente i primi versi. Auguri e felicitazioni. La prego di scusare colla mia cattiva salute la bolsaggine di questa lettera che pure le fa mille cordialissimi auguri dal suo aff.mo

Dino Campana

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(Porto Maurizio, 23 ottobre 1915)

Caro Campana,
L’India era un’ossessione tre mesi fa. Mi disse Novaro che lei non fu contento della mia risposta. Diamine! era una stretta di mano a modo mio. Ma insomma, Campana, non si sa dove sfociare, non si sa per che paese partire! Su questo mondo ci ho sputato da un pezzo. Non c’è una qualche America nuova da scoprire? qualche delitto di liberazione? Se pensa una impresa me la comunichi. Fra quindici giorni sono di ritorno. Faccio un giro per i carnai di lassù.
Con affetto, suo

Boine

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(Albergo Sanesi Lastra a Signa – Firenze, 19 aprile 1916)

Caro Boine,
avendo scritto senza risultato alcuno a Novaro, immagino sia soldato, ecco le ripeto quanto scrissi a lui. Sto abbastanza bene ora benché non possa ancora scrivere e vorrei trovare una piccola occupazione anche meccanica, per due o tre lire al giorno, laggiù dove si respira l’aria di Francia, perché oggi o domani prenderò la cittadinanza francese. Le cause, oltre a quanto le scrissi del mio stato d’animo (irremovibile) sono che venuto dalla Svizzera in Italia per arrolarmi benché riformato, e riformato una seconda volta allora in Giugno dopo dieci giorni d’ospedale militare, chiesi inutilmente il passaporto (l’unica cosa che io abbia mai chiesto all’Italia) e mi venne rifiutato e restai prigioniero delle belve clericali del mio paese che naturalmente ne approfittarono per finire di assassinarmi e avendo io la congestione cerebrale venivano a fischiare sotto le finestre dell’ospedale, e il medico per fregarsi di me diceva che avevo la nefrite. Quindi questa ignobile commedia dello spirito che si ridesta proclamata dalle varie conferenze Coppa (giornalista e conferenziere, n.d.c.) mi fa un profondo schifo. Della letteratura in generale poi in Italia mi hanno disgustato i lordi cafoni di Firenze. Ora non potendo andare in Francia vorrei avvicinarmi almeno. Mi venga in aiuto, mio padre mi dà due lire al giorno. Io una piccola occupazione la prenderei volentieri e farei il mio dovere. Salutandola e pregandola di difendermi nel suo pensiero dalle eventuali calunnie sono suo

Dino Campana

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(Porto Maurizio, 22 aprile 1916)

Caro Campana,
le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica che cosa risponderle. Sono io stesso povero che tiro innanzi alla bell’è meglio e spesso per aiuti. Quanto a salute tutte le malattie le ho addosso cominciando dalla tisi.
Così ridotto tra tormenti morali e fisiche forse appena i suoi sono più opprimenti, medito le epistole di S. Paolo le quali dicono che si risorgerà: “Poiché sappiamo che fino ad ora tutt’assieme la creazione geme ed è come in doglie di parto: e non soltanto lei, ma anche noi, anche noi stessi gemiamo in noi medesimi aspettando redenzione del nostro corpo” (Rom. VIII, 22.23).
Leggo anche il De civitate Dei, e lo traduco, poiché ormai questa città degli uomini mi è insopportabile. Creda a me, Campana, è insopportabile qui, e le sarebbe insopportabile la Francia.
Dirò a Novaro di questo suo desiderio: anche in Riviera la disoccupazione si fa sentire: trovar lavoro è difficile più che mai. Le scriverò in ogni modo.
Della dedica all’Arabesco che mi piacque così decisamente  fuor del mondo com’è sempre la sua poesia, la ringrazio ora fraternamente. Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio bene, Campana, ed ho grandissima stima di lei e delle sue cose ma sono un amico inutile. Suo

Boine

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ARABESCO-OLIMPIA

 A Giovanni Boine  

Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono fioriti. Perché si rivela un viso, c’è come un peso sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.

Se esiste la capanna di Cèzanne pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d’alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l’Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l’acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più sostare? Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna.

Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù.

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68) DINO CAMPANA. Canti Orfici. Tipografia F. Ravagli, Marradi 1914.

Copertina su carta gialla droghiere. Sul retro fra parentesi proprio in mezzo è stampato Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (ci hanno da ultimo incollata su una strisciolina rossa come una pudica camicia, ma l’ho, da buon Gobinista, che diamine! grattata via con cura). Il ringraziamento prefazionale ai signori sottoscrittori è messo in ultimo al posto dell’indice, il quale come inutile non è stato fatto; e lì è pur ricordato “il coscienzioso, il coraggioso, e paziente stampatore sig. Bruno Ravaglia” a cui dunque nemmeno noi lesineremo le nostre cattedratiche lodi, sebbene parecchie lettere del testo sian capovolte ed a pag. 151 la riga che nientemeno dice “diosa virginea testa reclina d’ancella mossa” sia, com’è confessato, “andata all’aria” – La carta a piacer suo muta di qualità tre volte in centosettanta pagine, brache, giacca, gilet di tre diversi vestiti. Inoltre è utile aggiungere che il libro è finito con queste sacramentali parole messe fuori testo a mo’ d’epitaffio o di chiusa: They were all torn and cover’d with the boy’s blood: cosiché BLOOD rosso e pauroso come una stilla od una ditata, sta lì (traccia d’assassinio o di liturgico sacrifizio?) come il tragico sigillo dell’opera.
Per constatare, in conclusione, che l’autore è certo un poverissimo e che i segni del suo squilibrio anche dall’esterno del suo volume appaiono evidenti.
Che so a caso apriamo il Trattato di psichiatria del Prof. Leonardo Bianchi (Napoli ed. Pasquale) ai capitoli che così dottamente dissertano, fra le malattie mentali, della paranoia, delle demenza precoce et similia, ci sarà facile provare come qualmente la trasposizione illogica  delle parole nel discorso, la sintassi a salti, nonché il salto dei vocaboli ed eziandio di intere proposizioni, è la diagnostica caratteristica delle scritture dei pazzi. La qual cosa è confermata mi pare oltreché dal preterito Lombroso, dall’autorevole Dott. Max Nordau nell’ormai celebre volume della Degenerazione, dove se ricordo, che Mallarmé sia un deficiente è a soddisfazione per analogia dimostrato  allegando da verificati freniatrici documenti questa memorabile frase di ricoverato: “Mi sembri uno zuccherino dato a balia!” La quale certo è, semmai, imagine più ragionevole di ciò che si legge ad es. qui in Dino Campana a pagg. 169 e 70, dove infine si legge (e bisogna citare)

Come nell’ali rosse dei fanali
bianca e rossa nell’ombra del fanale
che bianca e lieve tremula salì.

E l’ali e i sali, e il bianco e il rosso; e i vichi e i fanali: il sale marino e l’ombra e la notte, fan per due pagine uno spettrale intrico di così macabra sarabanda che non è possibile fuori trarne un qualunque normale costrutto.
Ciò infine, di nuovo, per dire che se dall’esterno si passi all’interno i sospetti di squilibrio son chiari e fondati, e questo povero Campana, stabilito per pazzo. – In altri termini pare cioè, come corollario, assodato, che la poesia non sia più ormai che dei pazzi e dei poveri.
È qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove, chissà dove per disperazioni d’irrealtà. Non so che febbre si divori le imagini e le accavalli; che cosa si dica, precisamente non vedi; i fantasmi lampeggiano e fuggono, il luogo ove sei si tramuta: - sei nella Pampa, sei fra le stelle, un diretto in corsa ti porta, la turbolenza dei venti ti strappa. Ma insomma una strapotenza bizzarra di lirica, via ti solleva fuori di te in dimenticanza del mondo per morbosità fosforescenti.
Ci sono pagine limpide di osservate serenità: ci sono lirici idilli dove Piazza Sarzano a Genova col ponte dei suicidi lì sopra, e gli intrichi di vicoli bui; dove Faenza e Fiorenza e la Verna si trasfigurano in tremiti di lievi colori quasi in musica stemperati: pagine di prosa fresca tra l’impressionismo scorri-via e (sempre) una sotterranea commozione come di scatenato respiro. – Ma jam furor humanos nostro de pectore sensus expulit… giungono momenti che il respiro nella gola s’affanna e la vertigine vince. Allora le parole ossessionano come gli incubi, si dilatano come occhi di paura, si puntano come riluttanti vite all’abisso; finché l’onda via le travolge, meravigliosi frantumi in un gorgo canoro. La musica vince i discorsi, i vocaboli son fatti di voce; son simboli di suono come un polline vago d’imagini. Nuotano spersi come echi, si richiamano si ripetono sinfonizzano sciolti senza badare alle logiche; si rincorrono, si frantumano in ansia d’espressione, ti danno lo spasimo dell’inesprimibile, ti sfanno in una liquidità di respiri; - finché t’accorgi che il respiro è respirato, e la cosa da dire è l’allucinata febbre, la lirica frenesia di una cosa ormai detta.
Io vidi dal ponte della nave – i colli di Spagna – svanire nel verde – dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando – come una melodia: - di questa scena fanciulla sola -  come una melodia – blu, su la riva dei colli ancora tremava una viola… - Illanguidiva la sera celeste sul mare; - pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale – varcaron lentamente in un azzurreggiare.  –Lontani tinti dei vari coloridei più lontani silenzi. – Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro; nave – già cieca varcando battendo la tenebra -  coi nostri naufraghi cuori –battendo la tenebra l’ali celesti sul mare. – Ma un giorno…
- Poiché ci sono le fonti di tutto certo sarà facile assegnarle anche a questa smarrita e decadente musicalità (Samain e compagni). Dico se mai che questa sorta di decadenza mi piace qui che di più non si può; e che la stessa rozzezza violenta, la stessa primitività impetuosa con cui è come in assaltoqui in più luoghi realizzata (cfr. Quiere usted hierba mate?) dimostra che non è d’accatto, risponde ad un intimo bisogno e del vecchio malfranzese non ha che l’apparenza.
S’attaglia cioè con spontaneità al mondo d’incubo e di libertà che il poeta s’è foggiato, alla risolutezza vagabonda di anima senza speranze, di là da ogni tradizione, di là da ogni acquitamento, nave ebbra e disancorata, gabbiano tra raffiche e cavalloni. Passano, qui di mezzo, i rombi delle lontananze; sei dove? Alle Antille, sei in Argentina; il viaggio non è qui coi luoghi e le films ma cogli abbandoni e gli acquisti, colle liberazioni: - è una spirituale categoria di perdizione e di disradicamento. – A Genova città di partenza, è avvenuto l’Incontro con Regolo: “Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore scialacquatore con in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito  ed era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso al fenomeno toccando con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire… - Mai ci eravamo piegati alla mostruoso assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti, tra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo!” -Ed Andiamo! pare il motto di tutta questa ispirazione che procede a barbagli e in folata, non ha altra formula oltre quella dell’inquietudine, né altra logica se non  quella irreale e vagabonda del sogno.
C’è in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un fermento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore d’angoscia che cerca sfocio. Ma c’è anche, ed assai più la preoccupazione di metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell’espressione. La ansiosa modernità di parecchia gente comincia dal di fuori e resta soprattutto al di fuori come la dignità ed il valore di molti restan nel vestito e nei titoli. C’è infine gente che finge la libertà essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poiché s’è persuasa dell’ovvia verità più sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque per pazza e lo fa con scioltezza.
Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo stile (non l’ha cancellato), è, se dio vuole un pazzo sul serio. Epperciò Te deum.

[Boine, Garzanti, aprile 1983. Giovanni Boine Carteggio, IV amici della “Voce”, Roma 1979]

mercoledì 18 gennaio 2017

"Il personaggio uomo" di Giacomo Debenedetti ritorna per Il Saggiatore

Sarà pure una stravaganza incominciare con quest'annotazione, ma trovo assai curiosa l'assenza del trattino nel titolo del noto volume di Giacomo Debenedetti Il personaggio uomo, riproposto in questi giorni da Il Saggiatore nella collana "Le Silerchie" nel cinquantennale della morte del critico (pp. 171, euro 17, prefazione di Raffaele Manica). In quel trattino tra "personaggio" e "uomo", che sempre c'è nel testo del saggio di Debenedetti ma che manca nelle copertine che hanno vestito quest'opera, si annida una parte dell'interesse per questo libro e per la formula critica divenuta ormai celebre e dalla quale è stato ricavato il titolo. Un trattino infatti lega due parole in una stessa isoipsa, mentre l'assenza di trattino pone la parola "uomo" in una funzione piena di apposizione, la quale, almeno per come la percepisco, ha una sfumatura e altezza diversa. C'è da notare poi che Debenedetti, prima di stabilizzare la fortuna di questa sua formula nel saggio del 1965, la usava in altre forme, come ad esempio nel saggio su Federigo Tozzi qui contenuto, dove scrive "personaggio «uomo»" ricorrendo alle virgolette basse (accade nel saggio intitolato "Con gli occhi chiusi" che è del 1963). Insomma, quella del personaggio uomo era un'intuizione critica "ondulatoria" che stava nell'aria che Debenedetti respirava.

La riproposta di questo libro che uscì postumo nel 1970 si può inquadrare nel legame che Debenedetti ebbe con la casa editrice Il Saggiatore, di cui è stato direttore editoriale. Nell'introduzione apprendiamo che il presente volume chiude il nuovo ciclo de "Le Silerchie" e anche questa scelta trova una giustificazione solida: se pensiamo a un libro come Preludi. Le note editoriali alla «Biblioteca delle Silerchie» scritte e non firmate da Debenedetti (Sellerio), possiamo ritornare su questa peculiarissima collana che il critico disegnò come un unicum e possiamo rispolverare un campione degli "inviti alla lettura" dei libri che componevano la collana. La "Biblioteca delle Silerchie" era contraddistinta da un'eterogeneità di campi e probabilmente da quella stessa mancanza o "felice sfiducia" nel metodo di cui parla anche il saggio "Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo".

Come è noto, lo scritto "Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo", collocato in apertura del volume, non è uno scritto di sola critica letteraria e fu pronunciato nel 1965 in una tavola rotonda della Mostra del cinema di Venezia. Il cono di luce è già proiettato e circoscritto nel suo incipit:

Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita con i poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta. Ma non ha solo questa virtù di mediatore, che spesso rende «più praticabile la vita». L’evoluzione della sua specie porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratura e forse delle altre arti. Attualmente in quella evoluzione deve essere successo un salto qualitativo: ne è prova la decadenza della critica che vorrei definire osmotica, la quale penetrava il personaggio, e ne era penetrata, sia pure con il rischio di contrabbandare una vischiosità, un intrico di filamenti organici, una indiscreta e madida abbondanza di flussi; ma alla fine arrivava sia a comprendere quel personaggio che a spiegarlo.
Per tutto il saggio, il richiamo alla fisica delle particelle è costante ed è come se il critico non volesse perdere il treno di quanto quell'universo di scoperte aveva dischiuso e messo a disposizione dei critici volenterosi di mutuarne intelligentemente un segnale. In un punto si legge che "la nostra tesi è che oggi la narrativa e la scienza sembrano trasmettere, con due codici diversi, lo stesso tipo di informazioni su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo", mentre in un altro ancora Debenedetti parla addirittura di "personaggio-particella". Ho parlato di segnale e non di metodo, proprio perché la grande novità di Debenedetti fu quella di essere un critico senza metodo. Mi riferisco all'assenza di un "metodo metodologico" o alla sfiducia in un metodo dominante. Non è esagerato affermare che ogni opera dell'ingegno, se tale, pone le condizioni di esistenza dei metodi con i quali avvicinarla. Lo scritto di Debenedetti sul personaggio-uomo è centrale perché ogni dibattito sulla letteratura è da sempre segnato dal personaggio, dai personaggi, dagli antipersonaggi o dagli antagonisti. Insomma, non si dà vero dibattito sul romanzo senza far riferimento a questo costrutto del personaggio che Debenedetti contribuì più di altri a scandagliare. Intuì l'affiorare, da più schermi, del nuovo personaggio-uomo di cui - sarà bene ricordarlo, spostando l'attenzione sul titolo - ne fa una "commemorazione provvisoria".

Il volume non è da far coincidere soltanto con il celebre intervento sul quale anche qui ci siamo dilungati, ma contiene i saggi "Un punto d’intesa nel romanzo moderno?", "Il personaggio‑uomo nell’arte moderna", un altro fondamentale contributo sul Tozzi "moderno" e il suo romanzo Con gli occhi chiusi (la categoria di "moderno" applicata a Tozzi viene da Luigi Baldacci ed è successiva, ma Debenedetti fu senza dubbio precursore), "Puccini e la «melodia stanca»", "Il tarlo in valuta oro" dove ammirazione e distanza da Emilio Cecchi emergono nitide, e il conclusivo "Vittorini a Cracovia". Assieme a Il romanzo del Novecento (Garzanti), lezioni universitarie trascritte in quel volume per cui Eugenio Montale scrisse l'introduzione, questo suo libro, per molti versi "nato orale", fa coppia nella bibliografia imprescindibile sul romanzo del secolo scorso, in attesa di capire cosa ne sarà di questo sempre sconosciuto genere negli anni a venire (oggi potremmo aggiornare la bibliografia anche con Teoria del romanzo di Guido Mazzoni uscito per Il Mulino). Il libro è soprattutto un punto di partenza per l'acquisizione di nuovi punti di osservazione sul significato del personaggio nelle arti. Anche in queste pagine si può osservare Debenedetti farsi "complice" (la definizione è di Pasolini) degli autori che di volta in volta analizza, e sia che si parta da Proust, Joyce, Pasternak, Tozzi, Pirandello o Moravia, ogni affondo porta a compimento una riflessione dalla quale ha senso una ripartenza del pensiero. (Un tema di approfondimento potrebbe essere il confronto tra il lascito critico di Debenedetti e la di poco precedente riflessione francese attorno al "nouveau roman" alla quale anche lui, assai spesso, si rifà con interesse e senza ammaliamenti.)

domenica 15 gennaio 2017

Tradurre in italiano Peter Cameron, Alicia Erian, Davis Grubb, Hilary Mantel, Andrew Sean Greer e altri. Intervista a Giuseppina Oneto

Librobreve intervista #73


Giuseppina Oneto
LB: Incomincio col chiederti dell'ultimo lavoro di traduzione pubblicato, invitandoti a parlare del libro, non necessariamente dal punto di vista di chi l'ha tradotto (se questo è possibile). Che libro è?
R: Mi pare sia Al di là del nero di Hilary Mantel, un testo che avevo tradotto già da qualche tempo e che è stato editato soltanto l’anno scorso, dalla Fazi. Un’opera singolare, affascinante, un po’ destabilizzante. È la storia di una medium che si guadagna da vivere sfruttando la sua capacità di parlare con i morti. Ma lei con i morti ci convive nella realtà, convive con gli invisibili fantasmi delle persone un tempo presenti nella sua infanzia e ormai defunte. E quelle presenze sono l’espressione del male, coloro che contribuiscono a portare l’inferno sulla terra; sono la terribile prova che il bene non soltanto fa fatica a esistere, a trovare posto, ma anche a essere riconosciuto. Alison, la protagonista, viaggia per le sale di provincia, si esibisce in teatri scalcinati e cerca a modo suo di consolare i vivi trasmettendo le parole dei cari estinti, ma edulcorando i loro messaggi. Più di tanto non può dire, non può riferire davvero quello che sente, percepisce e vede, altrimenti spaventerebbe i suoi “clienti”. La sua assistente, Colette, donna piuttosto arida, materiale e scettica, le rimprovera questo suo atteggiamento, anche perché lei stessa vorrebbe sapere qual è la verità, per quanto di fatto cerchi di non saperla. Per lei il mondo del paranormale è per un verso soltanto il modo di guadagnarsi da vivere, e per l’altro di scoprire se l’uomo insignificante e incivile con cui era sposata, è di fatto la sua unica prospettiva di non restare sola. Si tratta di un libro molto particolare, tenero e duro al tempo stesso, poetico e fantasioso, ma anche realista, spietato, ironico, critico. L’ho molto amato, e devo dire che ho scoperto più di Hilary Mantel in questo romanzo che in tanti altri suoi testi. È come se avessi potuto toccare la radice della sua scrittura, quel luogo, nel confronto fra i morti e i vivi, da cui cava le sue storie, la sua dimensione di narratrice di vicende nelle quali è sempre presente una dimensione “diversa”, ben amalgamata al suo elegante, a tratti shakespeariano, fraseggio.

LB: Ora vorrei fare a una traduttrice una domanda sulle recensioni di libri. Al di là della deprecabile pratica di non citare il traduttore, ancora viva anche presso penne importanti, e al di là della difficoltà di spendere parole sensate per la traduzione di un'opera, volevo chiederti, da lettrice di recensioni, cosa ti manca più spesso quando le leggi? Credo infatti che il punto di vista di un traduttore sia interessante per chi scrive recensioni di opere tradotte.
R: La questione, riguardo alle recensioni, è sì per un verso l’omissione, in molti casi, come tu sottolineavi, del nome del traduttore, ma quel che a mio avviso manca, è spesso proprio la consapevolezza che il testo recensito non è nato in italiano. Vi è stato trasportato, con esiti più o meno fausti. Il recensore, a mio avviso, non dovrebbe tentare di trasformarsi in un critico della traduzione, perché ciò richiederebbe alcune competenze più specifiche; se però coglie degli aspetti del testo significativi, o molto significativi, non dovrebbe mai dimenticare il lavoro fondamentale – direi imprescindibile – per la circolazione delle idee che sta alla base della sua possibilità di leggere il libro in una lingua a lui familiare. Vedere trattati i libri in traduzione come se fossero nati in una lingua universale – che nel nostro paese, stranamente, coincide con l’italiano – mi rattrista, e mi dà ogni volta il senso che è ancora lunga la strada da percorrere per una piena consapevolezza culturale del ruolo chiave del traduttore. E della contaminazione fra le culture.

Maxie Wander
LB: Che ricordo hai del primo ingaggio? Quale era l'emozione più nitida? E oggi quali sono le emozioni più frequenti che ancora provi facendo questo mestiere?
R: Di tempo ne è passato parecchio, ma ricordo soprattutto due emozioni di fondo: il senso di infinita scoperta, di permeabilità alle emozioni altrui, di responsabilità nel ripercorrerle (nel caso erano i diari e le lettere di Maxie Wander) e lo sbigottimento di fronte a passi che non volevano piegarsi all’italiano, almeno non al mio, e la conseguente ricerca degli strumenti linguistici e retorici che mi permettessero di avvicinarmi il più possibile al testo originale. Oggi provo ancora emozioni molto simili, che affronto con strumenti fortunatamente affinati e più consapevoli, anche se ci sono momenti in cui trovare l’idea giusta – o più giusta possibile – è sempre una battaglia da condurre con molta pervicacia, pazienza e determinazione.  A volte, non lo nego, oggi provo anche stanchezza, ma più per via del costante scontro con chi, dentro e fuori il mondo editoriale, tenta di restringere ulteriormente il nostro ruolo, non solo con compensi che non tengono affatto conto della preparazione e formazione continua che richiede il nostro lavoro, ma anche coi tentativi di negare che questo lavoro richieda tale preparazione e formazione continua. È una parabola evolutiva strana: più si moltiplicano i corsi e le scuole di traduzione, più, come tendenza generale, si vuole un traduttore inconsapevole, spiccio e disinvolto, veloce e delocalizzato nei compensi e nelle condizioni lavorative.

LB: Da tempo stazioni principalmente su opere di lingua inglese, ma a suo tempo ti sei concentrata anche su opere di letteratura tedesca. Quando è avvenuto il cambio di zona, se così si può definire? Qualche nostalgia?
R: Il cambio è stato dovuto a un rivoluzionamento avvenuto nella mia vita alcuni anni fa. Del tedesco come lingua ho sì nostalgia, ma devo dire non altrettanta della traduzione di testi tedeschi. Quando mi sono trovata ad abitare negli USA (e qui la storia sarebbe lunga), e agli studi si è unita un’esistenza condotta in un’altra lingua, il passaggio a poco a poco è stato naturale. A quel punto, del tedesco mi mancava la frequentazione diretta, il contatto quotidiano, si affievoliva e allontanava la percezione dei suoi ritmi e della sua evoluzione. Tutto ciò, probabilmente, è legato al mio modo di interpretare la traduzione: se non ho viva negli orecchi, non solo nell’intelletto, una lingua fatico a restituire il testo e ho l’impressione che gli esiti sarebbero dubbi. L’altro aspetto che mi ha convinto a continuare con l’inglese è stato l’universo che mi si è spalancato davanti in termini di letterature, tutte scritte in lingua inglese, ma appartenente a continenti diversi. Finora ne ho frequentati quattro (Nordamerica, Europa, Asia [India] e Australia).

LB: Si sa, le traduzioni invecchiano. Nella generale accelerazione di tutto, ti pare che le traduzioni invecchino con una velocità diversa da quella con la quale siamo soliti riferirci al mutamento linguistico? 
R: Per certi versi vorrei dire di sì. Si spalancano nuovi mondi, digitali, virtuali o meno, e si creano nuovi strati linguistici a velocità mai conosciuta prima, e altri si allontanano in tempo sempre più breve. Però non sono molto certa che questo abbia a che fare con l’invecchiamento inevitabile di una traduzione. Penso invece che abbia a che fare con una complessità sempre maggiore del mondo, vale a dire con un convivere di realtà che si moltiplicano, e un traduttore si trova, a seconda del testo, a doverne conoscere sempre di più. La cosa buffa è che, almeno nelle mie ultime esperienze traduttive, debbo attingere al mio passato di adolescente degli anni Settanta e adulta degli anni Ottanta. Certi linguaggi, certi realia, certe espressioni a me sono familiari perché li ho vissuti, e quindi debbo tornare indietro nel tempo per portare quanto più possibile del testo fonte al lettore italiano. E questo aggiunge complessità a complessità. E forse, vorrei aggiungere, che non invecchiano più velocemente le traduzioni, ma i linguaggi in tutte le loro varianti, e di alcuni resterà traccia più duratura e di altri meno.

LB: Posta così la domanda precedente sembra dare una connotazione totalmente negativa all'invecchiamento, che invece non ce l'ha. Secondo te il naturale processo di invecchiamento di una traduzione è una specula privilegiata per osservare meccanismi che difficilmente emergerebbero? Intendo meccanismi relativi alla lingua, alle ideologie e alla retorica in uso presso un traduttore, un editore o finanche un comparto editoriale nel suo insieme.
R: Quel che posso dirti è che sicuramente uno studio che andasse in questa direzione darebbe qualche frutto interessante. La mia osservazione però è più legata al piano sincronico, vale a dire che, a seconda della casa editrice con cui si lavora, ci si accorge che ci sono cose gradite o meno, piccoli o un po’ meno piccoli vezzi che bisogna in qualche modo saper rispettare, o assecondare. Ho l’impressione, però, che questo valga meno oggi, o valga in un modo diverso. Il lavoro editoriale è più sfaldato, meno compatto; ha perso un po’ della fisionomia monolitica come poteva avere in altri tempi, quando la figura dell’editore era più presente in una casa editrice, e non aveva caratteristiche manageriali. Forse un’impostazione ideologica e retorica come quella a cui accenni sopravvive in alcune piccole (medie) case editrici, che sembrano quelle più disposte a raccogliere o perlomeno a cercare di far restare in vita un modo ancora artigianale di fare i libri. Al libro, in questo caso, si tiene di più, e si interviene maggiormente secondo le proprie convinzioni editoriali. Per altro verso, spesso si nota invece che l’ideologia e la retorica prevalente è quella di andare incontro al lettore, vale a dire, di smussare, semplificare, sciogliere – a volte oltre il consentito – i nodi linguistici che pongono problemi interpretativi più impegnativi per chi lavora sul libro e per chi lo leggerà. Il che dà vita a una serie diversa di interventi, secondo un’ideologia di mercato che non sempre è al servizio del testo. E forse nel tempo questi andamenti, e anche altri che a me sicuramente sfuggono, resteranno segnati sulle pagine, e si potrebbero ricostruire studiando l’invecchiamento delle varie traduzioni.

LB: Ogni traduttore ha dei passi che, se potesse, ritradurrebbe all'istante. Capita spesso anche a te? Ci sono situazioni più tipiche di altre in cui ti capita di provare questo desiderio di rifacimento? (Ad esempio nei dialoghi, in passi descrittivi, in quelli contraddistinti da humour o altro).
R: Certo che mi capita, ma devo sorvolare quasi immediatamente. Non soltanto perché c’è un altro libro che attende, ma anche perché – pur avendo lavorato in piena coscienza e col massimo impegno – ormai so bene che il lavoro del traduttore è sempre perfettibile e una traduzione non è quasi mai definitiva (prima che invecchi e decada). Una volta incontrai la scrittrice e storica dell’arte Marisa Volpi, io allora non avevo ancora molta esperienza come traduttrice, e mi disse come per lei fosse irresistibile, riprendendo in mano i suoi libri, correggere qua e là la pagina stampata, a matita. C’era una parola, un’idea, una sfumatura che non era stata colta al meglio. Mi colpì molto questo suo rapporto viscerale con il testo, e da allora, ogni volta che ci ripenso, mi dico che quando sono obbligata a riprendere in mano una delle mie traduzioni (magari per una lezione), è meglio che la tratti come uno degli esiti possibili, non come un testo definitivo.

Hilary Mantel
LB: Attualmente su quale opera stai lavorando (se si può anticipare)?
R: Ancora la mia amata Hilary Mantel: Eight Months in Ghazzah Street, ambientato alla fine degli anni Ottanta in Arabia Saudita. Una coppia inglese, lui ingegnere civile, lei cartografa, si trasferisce a Gedda per lavoro. Non quello di lei, ovviamente, perché le donne, tanto più se straniere, non possono lavorare se non infrangendo la legge, a proprio rischio e pericolo. È dunque la storia di due occidentali che vanno in un paese arabo per ragioni economiche – gli ingaggi sono molto alti – e si trovano di fronte a una cultura che non comprendono, non amano, non condividono, ma che al tempo stesso detesta, diffida e con comprende loro. Mantel ha vissuto effettivamente per qualche anno in quel paese, e il suo resoconto in forma romanzata – nella casa dove vanno a vivere Frances e Andrew, i due protagonisti, c’è al secondo piano un appartamento sfitto che forse viene usato da un membro dell’estesa famiglia reale saudita per incontrare l’amante, comportamento per il quale è prevista la lapidazione per lei e la pena di morte per lui, e parte del mistero che fa da perno alla storia narrata – il suo resoconto, dicevo, è ancorato nell’esperienza vissuta, non pedissequamente autobiografica, e conferisce alla storia narrata una solidità che rende ancora più efficace la maestria stilistica e narrativa dell’autrice nel rendere il senso di mistero, di aria asfittica, di incomprensione culturale che permea il libro. Oltre a creare la suspense necessaria a seguire la vicenda di una coppia che fin dall’inizio non sembra destinata a uscire troppo bene dalla propria esperienza.

LB: Vorrei dedicare l'ultima domanda alla formazione. Tu stessa insegni in seminari di traduzione e volevo sapere come sei solita organizzarli e quali sono gli aspetti sui quali sei solita indugiare. E poi la cosa più difficile da insegnare, se esiste.
R: Sono tre le coordinate lungo le quali cerco di organizzare il lavoro, sempre applicato e solo in maniera molto limitata teorico: sviluppare gli strumenti per imparare a leggere, perché la lettura è il vero atto fondamentale per affrontare ogni traduzione: fondamentale per la comprensione del testo, del suo senso, del suo o dei suoi registri linguistici, e del ritmo (scrivere arriva sempre in un secondo tempo e bisogna interiorizzare questo passaggio); sconfiggere l’automatismo in quanto nemico di ogni buona resa in un’altra lingua: neppure una parola semplice come breakfast è scontato che in certi contesti possa essere tradotta con colazione, tanto per fare un esempio; e formare un chiaro senso della deontologia professionale, senza la quale si rischia di affrontare il lavoro e il mondo editoriale nel modo sbagliato, accettando compensi avvilenti a danno di sé stessi e dei colleghi, firmando contratti non di edizione e quindi rinunciando senza neanche rendersene a conto a tutelare, economicamente e moralmente, un’opera dell’ingegno che rientra sotto ogni aspetto nell’ambito del diritto d’autore. Va da sé che imparare a tradurre richiede molto tempo e molto esercizio, e corsi di questo genere possono essere solo un modo per aiutare a imboccare la strada giusta. Ovviamente non si insegna il talento e se c’è una cosa difficile da far accettare è che la scrittura viene sempre e solo dopo la lettura.