Giuseppina Oneto |
LB: Incomincio col chiederti dell'ultimo
lavoro di traduzione pubblicato, invitandoti a parlare del libro, non
necessariamente dal punto di vista di chi l'ha tradotto (se questo è
possibile). Che libro è?
R: Mi pare sia Al di là del nero di
Hilary Mantel, un testo che avevo tradotto già da qualche tempo e che è stato
editato soltanto l’anno scorso, dalla Fazi. Un’opera singolare, affascinante,
un po’ destabilizzante. È la storia di una medium che si guadagna da vivere
sfruttando la sua capacità di parlare con i morti. Ma lei con i morti ci
convive nella realtà, convive con gli invisibili fantasmi delle persone un
tempo presenti nella sua infanzia e ormai defunte. E quelle presenze sono
l’espressione del male, coloro che contribuiscono a portare l’inferno sulla
terra; sono la terribile prova che il bene non soltanto fa fatica a esistere, a
trovare posto, ma anche a essere riconosciuto. Alison, la protagonista, viaggia
per le sale di provincia, si esibisce in teatri scalcinati e cerca a modo suo
di consolare i vivi trasmettendo le parole dei cari estinti, ma edulcorando i
loro messaggi. Più di tanto non può dire, non può riferire davvero quello che
sente, percepisce e vede, altrimenti spaventerebbe i suoi “clienti”. La sua
assistente, Colette, donna piuttosto arida, materiale e scettica, le rimprovera
questo suo atteggiamento, anche perché lei stessa vorrebbe sapere qual è la
verità, per quanto di fatto cerchi di non saperla. Per lei il mondo del
paranormale è per un verso soltanto il modo di guadagnarsi da vivere, e per
l’altro di scoprire se l’uomo insignificante e incivile con cui era sposata, è
di fatto la sua unica prospettiva di non restare sola. Si tratta di un libro
molto particolare, tenero e duro al tempo stesso, poetico e fantasioso, ma
anche realista, spietato, ironico, critico. L’ho molto amato, e devo dire che ho
scoperto più di Hilary Mantel in questo romanzo che in tanti altri suoi testi.
È come se avessi potuto toccare la radice della sua scrittura, quel luogo, nel
confronto fra i morti e i vivi, da cui cava le sue storie, la sua dimensione di
narratrice di vicende nelle quali è sempre presente una dimensione “diversa”, ben
amalgamata al suo elegante, a tratti shakespeariano, fraseggio.
LB: Ora vorrei fare a una traduttrice una
domanda sulle recensioni di libri. Al di là della deprecabile pratica di non
citare il traduttore, ancora viva anche presso penne importanti, e al di là
della difficoltà di spendere parole sensate per la traduzione di un'opera,
volevo chiederti, da lettrice di recensioni, cosa ti manca più spesso quando le
leggi? Credo infatti che il punto di vista di un traduttore sia interessante
per chi scrive recensioni di opere tradotte.
R: La questione, riguardo
alle recensioni, è sì per un verso l’omissione, in molti casi, come tu
sottolineavi, del nome del traduttore, ma quel che a mio avviso manca, è spesso
proprio la consapevolezza che il testo recensito non è nato in italiano. Vi è
stato trasportato, con esiti più o meno fausti. Il recensore, a mio avviso, non
dovrebbe tentare di trasformarsi in un critico della traduzione, perché ciò
richiederebbe alcune competenze più specifiche; se però coglie degli aspetti
del testo significativi, o molto significativi, non dovrebbe mai dimenticare il
lavoro fondamentale – direi imprescindibile – per la circolazione delle idee
che sta alla base della sua possibilità di leggere il libro in una lingua a lui
familiare. Vedere trattati i libri in traduzione come se fossero nati in una
lingua universale – che nel nostro paese, stranamente, coincide con l’italiano
– mi rattrista, e mi dà ogni volta il senso che è ancora lunga la strada da
percorrere per una piena consapevolezza culturale del ruolo chiave del
traduttore. E della contaminazione fra le culture.
Maxie Wander |
LB: Che ricordo hai del
primo ingaggio? Quale era l'emozione più nitida? E oggi quali sono le emozioni
più frequenti che ancora provi facendo questo mestiere?
R: Di tempo ne è passato
parecchio, ma ricordo soprattutto due emozioni di fondo: il senso di infinita
scoperta, di permeabilità alle emozioni altrui, di responsabilità nel
ripercorrerle (nel caso erano i diari e le lettere di Maxie Wander) e lo
sbigottimento di fronte a passi che non volevano piegarsi all’italiano, almeno
non al mio, e la conseguente ricerca degli strumenti linguistici e retorici che
mi permettessero di avvicinarmi il più possibile al testo originale. Oggi provo
ancora emozioni molto simili, che affronto con strumenti fortunatamente
affinati e più consapevoli, anche se ci sono momenti in cui trovare l’idea
giusta – o più giusta possibile – è sempre una battaglia da condurre con molta
pervicacia, pazienza e determinazione. A
volte, non lo nego, oggi provo anche stanchezza, ma più per via del costante
scontro con chi, dentro e fuori il mondo editoriale, tenta di restringere
ulteriormente il nostro ruolo, non solo con compensi che non tengono affatto
conto della preparazione e formazione continua che richiede il nostro lavoro,
ma anche coi tentativi di negare che questo lavoro richieda tale preparazione e
formazione continua. È una parabola evolutiva strana: più si moltiplicano i
corsi e le scuole di traduzione, più, come tendenza generale, si vuole un
traduttore inconsapevole, spiccio e disinvolto, veloce e delocalizzato nei
compensi e nelle condizioni lavorative.
LB: Da tempo stazioni principalmente su opere di lingua inglese, ma a suo tempo ti sei concentrata anche su opere di letteratura tedesca. Quando è avvenuto il cambio di zona, se così si può definire? Qualche nostalgia?
R: Il cambio è stato
dovuto a un rivoluzionamento avvenuto nella mia vita alcuni anni fa. Del
tedesco come lingua ho sì nostalgia, ma devo dire non altrettanta della
traduzione di testi tedeschi. Quando mi sono trovata ad abitare negli USA (e
qui la storia sarebbe lunga), e agli studi si è unita un’esistenza condotta in
un’altra lingua, il passaggio a poco a poco è stato naturale. A quel punto, del
tedesco mi mancava la frequentazione diretta, il contatto quotidiano, si
affievoliva e allontanava la percezione dei suoi ritmi e della sua evoluzione.
Tutto ciò, probabilmente, è legato al mio modo di interpretare la traduzione:
se non ho viva negli orecchi, non solo nell’intelletto, una lingua fatico a
restituire il testo e ho l’impressione che gli esiti sarebbero dubbi. L’altro
aspetto che mi ha convinto a continuare con l’inglese è stato l’universo che mi
si è spalancato davanti in termini di letterature, tutte scritte in lingua
inglese, ma appartenente a continenti diversi. Finora ne ho frequentati quattro
(Nordamerica, Europa, Asia [India] e Australia).
LB: Si sa, le traduzioni invecchiano. Nella generale accelerazione di tutto, ti
pare che le traduzioni invecchino con una velocità diversa da quella con la
quale siamo soliti riferirci al mutamento linguistico?
R: Per certi versi
vorrei dire di sì. Si spalancano nuovi mondi, digitali, virtuali o meno, e si
creano nuovi strati linguistici a velocità mai conosciuta prima, e altri si
allontanano in tempo sempre più breve. Però non sono molto certa che questo
abbia a che fare con l’invecchiamento inevitabile di una traduzione. Penso
invece che abbia a che fare con una complessità sempre maggiore del mondo, vale
a dire con un convivere di realtà che si moltiplicano, e un traduttore si
trova, a seconda del testo, a doverne conoscere sempre di più. La cosa buffa è
che, almeno nelle mie ultime esperienze traduttive, debbo attingere al mio
passato di adolescente degli anni Settanta e adulta degli anni Ottanta. Certi
linguaggi, certi realia, certe
espressioni a me sono familiari perché li ho vissuti, e quindi debbo tornare
indietro nel tempo per portare quanto più possibile del testo fonte al lettore
italiano. E questo aggiunge complessità a complessità. E forse, vorrei
aggiungere, che non invecchiano più velocemente le traduzioni, ma i linguaggi
in tutte le loro varianti, e di alcuni resterà traccia più duratura e di altri
meno.
LB: Posta così la domanda precedente sembra
dare una connotazione totalmente negativa all'invecchiamento, che invece non ce
l'ha. Secondo te il naturale processo di invecchiamento di una traduzione è
una specula privilegiata per osservare meccanismi che difficilmente
emergerebbero? Intendo meccanismi relativi alla lingua, alle ideologie e alla retorica in uso
presso un traduttore, un editore o finanche un comparto editoriale nel suo
insieme.
R: Quel che posso dirti è che sicuramente uno studio che andasse in questa
direzione darebbe qualche frutto interessante. La mia osservazione però è più legata
al piano sincronico, vale a dire che, a seconda della casa editrice con cui si
lavora, ci si accorge che ci sono cose gradite o meno, piccoli o un po’ meno
piccoli vezzi che bisogna in qualche modo saper rispettare, o assecondare. Ho
l’impressione, però, che questo valga meno oggi, o valga in un modo diverso. Il
lavoro editoriale è più sfaldato, meno compatto; ha perso un po’ della
fisionomia monolitica come poteva avere in altri tempi, quando la figura
dell’editore era più presente in una casa editrice, e non aveva caratteristiche
manageriali. Forse un’impostazione ideologica e retorica come quella a cui
accenni sopravvive in alcune piccole (medie) case editrici, che sembrano quelle
più disposte a raccogliere o perlomeno a cercare di far restare in vita un modo
ancora artigianale di fare i libri. Al libro, in questo caso, si tiene di più,
e si interviene maggiormente secondo le proprie convinzioni editoriali. Per
altro verso, spesso si nota invece che l’ideologia e la retorica prevalente è
quella di andare incontro al lettore, vale a dire, di smussare, semplificare,
sciogliere – a volte oltre il consentito – i nodi linguistici che pongono
problemi interpretativi più impegnativi per chi lavora sul libro e per chi lo leggerà.
Il che dà vita a una serie diversa di interventi, secondo un’ideologia di
mercato che non sempre è al servizio del testo. E forse nel tempo questi
andamenti, e anche altri che a me sicuramente sfuggono, resteranno segnati
sulle pagine, e si potrebbero ricostruire studiando l’invecchiamento delle
varie traduzioni.
LB: Ogni traduttore ha
dei passi che, se potesse, ritradurrebbe all'istante. Capita spesso anche a te?
Ci sono situazioni più tipiche di altre in cui ti capita di provare questo
desiderio di rifacimento? (Ad esempio nei dialoghi, in passi descrittivi, in
quelli contraddistinti da humour o altro).
R: Certo che mi capita,
ma devo sorvolare quasi immediatamente. Non soltanto perché c’è un altro libro
che attende, ma anche perché – pur avendo lavorato in piena coscienza e col
massimo impegno – ormai so bene che il lavoro del traduttore è sempre
perfettibile e una traduzione non è quasi mai definitiva (prima che invecchi e
decada). Una volta incontrai la scrittrice e storica dell’arte Marisa Volpi, io
allora non avevo ancora molta esperienza come traduttrice, e mi disse come per
lei fosse irresistibile, riprendendo in mano i suoi libri, correggere qua e là
la pagina stampata, a matita. C’era una parola, un’idea, una sfumatura che non
era stata colta al meglio. Mi colpì molto questo suo rapporto viscerale con il
testo, e da allora, ogni volta che ci ripenso, mi dico che quando sono
obbligata a riprendere in mano una delle mie traduzioni (magari per una
lezione), è meglio che la tratti come uno degli esiti possibili, non come un
testo definitivo.
R: Ancora la mia amata Hilary Mantel: Eight
Months in Ghazzah Street, ambientato alla fine degli anni Ottanta in Arabia
Saudita. Una coppia inglese, lui ingegnere civile, lei cartografa, si
trasferisce a Gedda per lavoro. Non quello di lei, ovviamente, perché le donne,
tanto più se straniere, non possono lavorare se non infrangendo la legge, a proprio
rischio e pericolo. È dunque la storia di due occidentali che vanno in un paese
arabo per ragioni economiche – gli ingaggi sono molto alti – e si trovano di
fronte a una cultura che non comprendono, non amano, non condividono, ma che al
tempo stesso detesta, diffida e con comprende loro. Mantel ha vissuto
effettivamente per qualche anno in quel paese, e il suo resoconto in forma
romanzata – nella casa dove vanno a vivere Frances e Andrew, i due
protagonisti, c’è al secondo piano un appartamento sfitto che forse viene usato
da un membro dell’estesa famiglia reale saudita per
incontrare l’amante, comportamento per il quale è prevista la lapidazione per
lei e la pena di morte per lui, e parte del mistero che fa da perno alla storia
narrata – il suo resoconto, dicevo, è ancorato nell’esperienza vissuta, non pedissequamente
autobiografica, e conferisce alla storia narrata una solidità che rende ancora
più efficace la maestria stilistica e narrativa dell’autrice nel rendere il senso
di mistero, di aria asfittica, di incomprensione culturale che permea il libro.
Oltre a creare la suspense necessaria a seguire la vicenda di una coppia che
fin dall’inizio non sembra destinata a uscire troppo bene dalla propria
esperienza.
LB: Vorrei dedicare l'ultima domanda alla formazione. Tu stessa insegni in
seminari di traduzione e volevo sapere come sei solita organizzarli e quali
sono gli aspetti sui quali sei solita indugiare. E poi la cosa più difficile da
insegnare, se esiste.
R: Sono tre le coordinate lungo le quali cerco di organizzare il lavoro, sempre
applicato e solo in maniera molto limitata teorico: sviluppare gli strumenti
per imparare a leggere, perché la lettura è il vero atto fondamentale per
affrontare ogni traduzione: fondamentale per la comprensione del testo, del suo
senso, del suo o dei suoi registri linguistici, e del ritmo (scrivere arriva
sempre in un secondo tempo e bisogna interiorizzare questo passaggio); sconfiggere
l’automatismo in quanto nemico di ogni buona resa in un’altra lingua: neppure
una parola semplice come breakfast è
scontato che in certi contesti possa essere tradotta con colazione, tanto per
fare un esempio; e formare un chiaro senso della deontologia professionale,
senza la quale si rischia di affrontare il lavoro e il mondo editoriale nel
modo sbagliato, accettando compensi avvilenti a danno di sé stessi e dei
colleghi, firmando contratti non di edizione e quindi rinunciando senza neanche
rendersene a conto a tutelare, economicamente e moralmente, un’opera
dell’ingegno che rientra sotto ogni aspetto nell’ambito del diritto d’autore. Va
da sé che imparare a tradurre richiede molto tempo e molto esercizio, e corsi
di questo genere possono essere solo un modo per aiutare a imboccare la strada
giusta. Ovviamente non si insegna il talento e se c’è una cosa difficile da far
accettare è che la scrittura viene sempre
e solo dopo la lettura.
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