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sabato 23 giugno 2018

"Fra me e te la verità. Lettere a Muska" di Nicola Chiaromonte

Quote #20

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Non è molto che è uscito per Donzelli il libro Nicola Chiaromonte. Una biografia di Cesare Panizza. Facendo un passo indietro di qualche anno, sempre Cesare Panizza, assieme a Wojciech Karpiński, compare tra i curatori del libro Fra me e te la verità. Lettere a Muska (Una città, pp. 312, euro 18). Il volume ritratto qui a lato restituisce solo una parte di una corrispondenza enorme che l'intellettuale lucano, che visse tra il 1905 e il 1972, intrattenne negli ultimi anni della sua vita con Mother Jerome, al secolo Melanie von Nagel Mussayassul (1908-2006), monaca benedettina che viveva negli Stati Uniti. Quando si scrive enorme si intende davvero enorme: si parla infatti di una media di tre missive a settimana per un totale di circa 1200 lettere. La cornice temporale dello scambio va dal 1967 fino alla morte di Chiaromonte, circa un lustro quindi. Si tratta di una testimonianza straordinaria, in tutti i sensi di questo aggettivo inflazionato: straordinaria perché infrequente e rara anche nel valore, straordinaria per quello che vi si può trovare e leggere all'interno. Già che una suora potesse intrattenere una corrispondenza del genere fu un'eccezione, e difatti Mother Jerome aveva ottenuto un permesso speciale per poter alimentare questo dialogo.

Questo atomo di lettere colpisce e uncina in modo indelebile chi prova a guardarci dentro, con il suo nucleo accarezzato e con gli orbitali degli elettroni indeterminabili e vitali. Ogni passo e spostamento di questa corrispondenza-fiume vibra in un'aria che cambia spesso direzione, densità e temperatura, anche quando l'argomento è una rappresentazione napoletana de I Cenci di Artaud con un'Adriana Cipriani che secondo Chiaromonte potrà diventare una "vera attrice (se non si lascia afferrare dal cinema o guastare dal successo)", in una cornice partenopea dal mare grigio, strada rumorosa e "Xmas decorations" meno orribili di quelle di Roma oppure anche quando un postscriptum verte sull'accettazione dell'incarico di critico drammatico a "L'espresso" ("notizia non molto importante"). A Chiaromonte piace scrivere a Mushka "sulla carta intestata di questi alberghi dove capito". Questo libro restituisce, parzialmente ma in modo efficace, un lustro di un dialogo che ha tutta l'aria di essere stato poderoso nella sua interezza.


* * * *

Roma, 11 maggio 1967


Mushka carissima,
nel chiudere la lettera, ieri sera, ne è caduto il francobollo qui accluso.

È un buon pretesto per continuare a parlarti.
Vorrei discorrere un po' con te sulla ricerca del "primordiale": quel tuo scendere a tastoni nelle viscere della terra, così bene espresso in "stufen"*.
Sì, bisogna anche scendere nelle viscere della terra, interrogare segni lasciati dagli uomini che abitavano la terra in età lontanissime - e certo il volto della fanciulla neolitica ha un "messaggio" profondamente commovente. Ma non credi che il vero sforzo sia di rintracciare il fondo dell'essere nei volti dei nostri compagni di vita, travolti e oscurati come sono? E non solo nei volti - ma nei passi, nei modi d'essere, nelle parole - il cercare di misurare la distanza che separa noi e loro da una possibile verità, dalla "realtà vera"?
In altri termini, la ricerca del primordiale è pericolosa, e non tanto perché può finire in un miraggio: il miraggio di credere che ciò che è più elementare, più inarticolato, più contrastato dal peso oscuro del mondo e di un essere indecifrabile sia più vero. Mentre a me sembra che il Partenone o la piazza del Campidoglio siano più, e non meno, "veri" (=belli anche) del palazzo di Cnosso, diciamo - o degli idoli delle Cicladi.
L'equilibrio - il punto di verità - è difficile trovarlo, certo. E noi siamo sovraccarichi di ornamenti - fin dal Rinascimento almeno - e da lì vengono quasi tutti gli equivoci culturali (e religiosi) in cui ci dibattiamo.
L'argomento è lungo e complicato. Vedi gli accenni di Caffi al "razionalismo unitario" che pesa sulla nostra civiltà fin dal Cinquecento.
Vorrei poter esercitare un po' di magia (io che non sono mago affatto...) e toglierti almeno il dolore fisico che ti affligge, Mushka diletta.
Nicola


* Tedesco, "gradini"

giovedì 10 maggio 2018

"Lettere ai genitori" di Claude Lévi-Strauss

Quote #19

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Della casa editrice Il Saggiatore una caratteristica che a buon diritto si può ormai considerare una peculiarità è l'attenzione riposta nella pubblicazione di lettere. Come noto in Italia c'è Rosellina Archinto che sulla pubblicazione delle lettere ha costruito il concetto e il catalogo della propria casa editrice. Naturalmente vi sono altri editori che con attenzione altalenante pubblicano ora quel carteggio, ora quell'antologia di un epistolario, ora quell'intero corpus di lettere di un dato autore. A un occhio esterno, sembra però che Il Saggiatore abbia attivato una costola del proprio catalogo nella quale le lettere coabitano necessariamente accanto ai libri di narrativa, poesia o saggi di prim'ordine (per inciso, recentissima è la riproposizione de Lo spazio letterario di Maurice Blanchot, da tantissimo assente). È curiosa inoltre l'attitudine, opposta alla nostra storia editoriale, di rifiutare quasi il costrutto di collana all'interno di questa casa editrice, che non ricerca la segmentazione e la proliferazione di collane (in certi editori, persino piccoli, la "collanite" è una malattia ormai diffusa). Più o meno tutto il catalogo sta dentro una collana che si chiama "La cultura", con la variazione dimensionale data da "La piccola cultura" (più contenuto, in termini di titoli proposti, è il rilancio della collana "Le Silerchie", di cui si è già scritto in passato).

Dopo le lettere di Barthes, Mann, Proust, Joyce, Wilde, Poe, Mandela e la non trascurabile rosa musicale del catalogo con le lettere di Bartók, Šostakovič, Mahler, Mila, Nono o Toscanini compare anche questo recente Lettere ai genitori 1931-1942 di Claude Lévi -Strauss (pp. 422, euro 37, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli). Prima di dare qualche coordinata sul libro e riportarne un breve passo vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che alle lettere Il Saggiatore non ha dedicato una collana specifica. Anno dopo anno la composizione del catalogo sembra ci suggerisca che le lettere rientrano a pieno titolo nel corpus di testi da considerare quando ci si avvicina all'opera di un dato autore. Mi sembra una posizione editoriale nitida, tra l'altro messa in pratica con la produzione di  libri e senza tanti proclami, manifesti o anticipazioni come va di moda fare oggi tra social o blog-ciclostile.

Il volume che Il Saggiatore ha dato alle stampe raccoglie e propone per la prima volta ai lettori italiani le lettere che l'antropologo dei Tristi tropici scrisse in un decennio chiave della propria vita e della storia mondiale, tra il 1931 e il 1942 (il 1931 è l'anno della laurea in filosofia). Sono anni terribili ma fervidi di viaggi e studi e la specola delle lettere consente di avvicinare lo studioso nei suoi passi di pensiero, nei momenti in cui si formano alcune delle idee importanti che costituiscono il suo lascito, tra cui quelle sulla parentela. Oggi - lo sappiamo - non è più un gran momento per lo strutturalismo e le sue diramazioni e da più parti si cerca di criticare, se non addirittura di abbattere, la sua eredità, la quale è tutt'altro che monolitica. La lunga battaglia tra storicismo e strutturalismo non è mai del tutto conclusa. Colui che forse suo malgrado è considerato un baluardo dello strutturalismo, nelle diramazioni dell'antropologia, resta una lettura difficilmente trascurabile, anche per comprendere tutta una serie di pensatori e scrittori che a lui, nel Novecento, ha fatto continuo ritorno. La lettera che si propone è abbastanza breve e più che altro funge da spia di un interessante nucleo di missive partite da Strasburgo durante una parentesi militare.



S 11
Caserma Stirn
158º reggimento di fanteria
Strasburgo, sabato [novembre 1931]
Cari tutti e due: che gioia, domani esco! Abbiamo inscenato una breve commedia ridicola: tutta la compagnia che sfilava per il saluto al Capitano. Solo una quarantina sono stati trattenuti per garantire il picchetto antincendio. Ma riprendo il racconto dall’inizio. Ieri, vera giornata militare: appello alle 7 con armi ed elmetto per una marcia annullata alle 7 e 05 a causa di una rivista in divisa 2, ritirata la sera prima, con tutti i bottoni da sostituire e nemmeno uno da mettere! Ritiriamo i bottoni regolamentari alle 8. La rivista è alle 9, e dobbiamo scucirne e ricucirne trentasei! Alle 8 e 05 chiamati in magazzino per ritirare dei guanti di lana, della cera e del sapone. Trattenuti ad aspettare fino alle 9, ora della rivista; corsa terribile e finalmente alle 10 la rivista può iniziare, ma in quale stato! Impossibile ricordarmi delle occupazioni del pomeriggio… Ah sì! Un’altra rivista, ma questa volta fatta dal Capitano. Stamane esercitazione in cortile, nel pomeriggio rivista (di nuovo) e conferenza dell’ufficiale medico sulle malattie veneree – tenuta con una voce talmente flebile che non ho sentito nulla. Ricevuti due inviti a colazione: del Generale e di Coralie. Accettato il primo (ricevuto per primo) e spiegato a Coralie che andrò subito dopo colazione. Dimentico subito ogni cosa, non appena ho finito di farla; questa vita mi scivola addosso automaticamente, e a ogni ora non so che cosa ho fatto l’ora precedente. Tanto meglio! Ho cambiato camerata per quella degli allievi caporali. Grande, siamo sedici, ma più comoda (c’è anche un tavolo). Ho persino fatto una partita a bridge, poco fa.
Contento di sapere che Papà sta meglio. No, Mamma, inutile mandarmi i giornali prima di avere una stanza. Se solo potessi trovarla domani! Non c’è acqua da due giorni. Bisognerà che compia dei prodigi per riuscire a radermi! Dovrò quindi abbreviare la lettera di conseguenza.
Cercherò domani di darvi mie notizie,
Claude

domenica 22 ottobre 2017

I "Pensieri" di Alfonso Gatto tra Saba, Sbarbaro e Savinio

Quote #18

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Impressionanti per mole, estensione e sporgenze questi Pensieri di Alfonso Gatto che l'editore Aragno ha pubblicato in una edizione come sempre di pregio a cura di Federico Sanguineti (pp. 370, al prezzo invitante, considerando la consistenza del volume, di soli 15 euro). Si tratta di grande libro di scrittura aforistica, ma non solo. Vi sono pensieri che superano la misura consueta dell'aforisma e i due esempi che a breve riporteremo ne sono conferma. Il curatore ha anteposto una premessa e ha concentrato il suo lavoro in un implacabile apparato di note che suggella il volume. Sanguineti accosta questo libro a Scorciatoie e raccontini di Saba e a Fuochi fatui di Camillo Sbarbaro (ma anche a La linea gotica di Ottiero Ottieri, la quale, datando 1962, è sicuramente più vicina a Gatto). Naturalmente tornano titoli come Zibaldone e leggendo certi "numeri" di questi pensieri credo possa ritornare alla mente la prosa vibrante delle voci di Nuova enciclopedia di Alberto Savinio (se n'è parlato qui). I pensieri, composti tra il 1964 e il 1971 e conservati in cinque quaderni manoscritti presso la fondazione Alfonso Gatto di Salerno, sono una risorsa sorprendente per avvicinarsi alle illuminazioni e ai fantasmi di una speculazione che si apre all'insegna di una singolare operazione matematica esposta così:


[Diario - prosa = poesia]

Il pensiero seguente, isolato tra i moltissimi altri, a mio avviso offre un bell'esempio di come la mente di Gatto si sganci dalla prime righe per arrivare ad altro. È l'agilità tipica dell'aforisma, della prosa che non ha l'ossessione di essere romanzo o racconto, e nemmeno del finito. E, diciamocelo, quando questa ossessione di impacchettare romanzi o racconti verrà meno si potranno sprigionare vere forze. Forze che forse si sprigionano ora nella migliore scrittura diaristica o aforistica, ora nelle corrispondenze, ora nella prosa filosofica e in altre forme di prosa che possiamo provare a scoprire o a tradurre, se già tentate altrove.
Ho sempre invidiato gli uomini che a quarant’anni restano soli con un figlio di dieci: tra i due è da immaginare la più dolce amicizia, la più delicata tristezza. (Ogni uomo ancora giovane ha sognato di avere un figlio, lasciatogli da una donna partita per sempre, ma non morta.) Chi crede di poterlo negare a se stesso è, quanto all’amore per la donna, un marito o un amante da nulla.
Una delle più flagranti contraddizioni del nostro tempo è che l’uomo si lascia dirigere anche nel timor proprio, cioè nel timore che ha o dovrebbe avere di sé: si lascia pensare e rilanciare in una scommessa d’avvenire, in una continua perdita dei suoi limiti, nello stesso tempo in cui è dominato (e direi “occupato”) dalla paura e dal terrore della morte. Questa paura e questo terrore della morte così restano nella storia, a causa di quel “doppio passo” con cui l’uomo d’oggi, nella fiducia in un progresso più veloce di lui, teme tuttavia di non giungere in tempo a [a soprascritto a per] usufruirne per una vita più lunga, se non addirittura per una rigenerazione, per una rinascita. Una alternativa, insieme primitiva e finalistica punge ed esaspera gli uomini – e non soltanto coloro che al vertice di una fortuna economica possono e potranno assicurarsi gli strumenti della propria longevità e della propria riedificazione fisica – ma anche tutti gli altri, il numero, che è già oggi sono al di qua delle assicurazioni e delle assistenze che la scienza può dare e che ancora di più lo sarebbero domani per gli alti costi economici delle ibernazioni, dei trapianti e di tutte le altre ipotesi di rifacimenti e di riprese vitali che si promettono. È la vera tragedia di una speranza che vuole essere e si dice singolarmente pessimista per quanto ha fiducia in un “futuro collettivo”. (Pensiero 448, pp. 203-205)
Poco sopra, nel numero 445, troviamo un pensiero che si apre all'insegna della scultura e vale la pena riportare. Le incertezze del manoscritto (si è visto anche nel pensiero precendente) sono segnalate puntualmente dal curatore e inondano l'aria della prosa con un sentore di non-finito che si protrae come un bell'interrogativo e talvolta anche come un buon aroma:
Fossi scultore, chiederei ai luoghi, ai particolari silenzi di uno spazio, quale presenza vogliono, quale assenza evocare. Questa presenza, questa assenza, insieme sono la "statua", per la cui identità, raggiunta nella pietra nel bronzo nel ferro - materie dotate di propria autorità e di propria legge interiore atte a contrastare l'intuizione, - ha da essere virtualmente umana, quale umano è ogni segno dell'uomo, anche il più religioso e il più astratto. La statua, cerco di spiegarmi, nasce sempre da una "somiglianza", la "somiglianza" reale e la "statua" ancora irreale. Può "essere" la somiglianza di una cosa che ancora non è, e tuttavia reale, di quale realtà? La statua (la scultura) nasce dall'assedio storico di tutte le presenze che si sono dileguate e che tornano ad apparire e a sparire con una velocità da luce che non ci è dato cogliere. Questo fa sì che è nell'aria di un luogo l'attesa della "presenza"-["]forma" che dovrà abitarlo fermandosi [,] è il veloce apparire-sparire di tutte le altre presenze che per approssimazione si sono via via rivelate e proposte. La somiglianza è l'ironia veloce dell'[ms. della] intuito che sorprende la meditazione. Si dice tempo di uno stesso tempo. In questa meditazione sarà dopo il dominio visuale della presenza-statua, ma è prima in noi ascolto, una pausa nel luogo che andiamo fissando [in interlinea: scoprendo]: e ancora più lo spazio dei nostri pensieri e delle memorie nostre. La "materia" in cui si va concependo la "somiglianza"[;] la probabilità errante è il lavoro sulla materia, verso la materia[,] l'intuito del fare[.] (Pensiero 445, pp. 202-203)

venerdì 18 agosto 2017

Henrik Ibsen, vita dalle lettere: "Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro"

Riletture di classici o quasi classi (dentro o fuori catalogo) #36
Quote #17


"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Tra gli epistolari che a spizzichi e bocconi mi è capitato di leggere negli ultimi tempi, ho trovato particolarmente vivido quello di Henrik Ibsen. Si può leggere in un libro ormai datato e tuttora in commercio pubblicato da Iperborea nel 1995 e intitolato Vita dalle lettere (pp. 188, euro 12,50, a cura di Franco Perrelli). Per uno scrittore che pensava di non essere a proprio agio nel rapporto epistolare, questa raccolta ha invece un nucleo di temi e moventi sorprendenti. Si presenta ricca di spunti, di traiettorie geografiche, di rimandi continui all'opera e alla sua interpretazione internazionale, ovviamente anche alla sua messa in scena, trattandosi spesso di teatro. Ad esempio, in una lettera del 1891 a Moritz Prozor, traduttore francese di Casa di bambola, parla dell'idea strampalata di Luigi Capuana, traduttore dal francese del noto dramma di Nora, della volontà di cambiare la scena finale per i teatri italiani. Ora, chi ha letto il testo, ha assistito a una messa in scena o ha anche solo sentito parlare di Casa di bambola, sa come tutta quest'opera assai dibattuta e quasi proverbiale trovi sostanza a partire dalla scena finale. E questo è anche quanto Ibsen ribadisce a Morotz, lamentandosi dell'idea di Capuana, fortunatamente sventata da chi doveva finire sul palco a recitare. Fu infatti Eleonora Duse, prima interprete del dramma al teatro Filodrammatico di Milano il 9 febbraio 1891, che convinse Capuana a mantenere il finale originale dell'opera. Va considerato anche il dato temporale poiché il dramma ibseniano comparve nel 1879 ed erano quindi già trascorsi un bel po' di anni quando Capuana si preoccupava della reazione del pubblico italiano davanti al finale originale: la nomea di Casa di bambola aveva già fatto il giro d'Europa. Ma questo è solo uno dei tanti aspetti interessanti che questo libro conserva. Tra i vari filoni di corrispondenza, quello più avvincente e nutrito mi è parso lo scambio con Georg Brandes. Ed è proprio una delle lettere a Brandes che riporto di seguito.



A GEORG BRANDES 
Dresda, 24 settembre 1871 
Caro Brandes,
[...] Ciò che vorrei soprattutto augurarle è un perfetto puro egoismo, che la spinga per un po' di tempo a considerare la sua attività come la sola cosa che abbia valore e significato, e tutto il resto come insussistente. Non reputi ciò indice di un tratto brutale della mia natura! Lei non può fare bene alla società in miglior modo che coniando il metallo che ha dentro. Io non ho mai posseduto un forte sentimento di solidarietà; in fondo l'ho soltanto recepito come un dogma tradizionale - e se si avesse il coraggio di non tenerne conto ci si sbarazzerebbe di quella zavorra che più grava sulla personalità. - In generale, a volte, tutta la storia universale mi appare come un grande naufragio; altro non resta che salvare se stessi.Non mi aspetto niente di riforme particolari. La specie umana tutta è sulla strada sbagliata, sì. O c'è qualcosa di difendibile nella situazione attuale? con i suoi inattingibili ideali ecc.? Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro. Noi abbiamo fatto fiasco tanto nel ruolo di amante quanto in quello di eroe; l'unico nel quale abbiamo dimostrato una briciola di talento è il comico-naîf; ma con la nostra autocoscienza più sviluppata neanche lì faremo strada. Non credo che vada meglio altrove che in patria; le masse non hanno cognizione alcuna delle cose supreme, all'estero come da noi.[...] Durante la preparazione di Giuliano l'Apostata sono divenuto in un certo senso fatalista; ma questo dramma diventerà una specie di bandiera. Comunque non tema qualche opera di tendenza; io considero i caratteri, i piani incrociati, la storia, e non mi curo della "morale" della vicenda - sempre che lei nella morale della storia non comprenda la sua filosofia; perché va da sé ch'essa affiorerà come verdetto finale sul conflitto e la vittoria. Tanto questo però potrà chiarificarsi solo praticamente.[...] Infine il mio più cordiale ringraziamento per la sua visita a Dresda: ore memorabili per me. Fortuna, coraggio, salute e ogni bene.
Il suo affezionato
Henrik Ibsen

Nota: il primo incontro tra Ibsen e Brandes era infine avvenuto il 14 luglio. Congedandosi Ibsen aveva detto all'amico: «Lei scuota i danesi e io lo farò con i norvegesi».

lunedì 5 giugno 2017

"Nuova enciclopedia" di Alberto Savinio: fine supremo della cultura è l'ignoranza

Quote #16

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Nuova enciclopedia di Alberto Savinio è da poco disponibile anche in edizione tascabile e economica (pp. 401, euro 15, la precedente edizione, ritratta accanto, era del 1971 e costa 10 euro di più). Si tratta di un libro adatto, com'era il Cynar, a combattere il "logorio della vita moderna". Lo dico sia nel senso della consultazione per voci che si incunea bene nei vari interstizi di una giornata, sia nel senso di liberazione che la lettura di alcune di queste voci procura. Riferendosi a quest'opera "enciclopedica" saviniana nata dal personale scontento per le enciclopedie esistenti ed entrata in gestazione già negli anni Quaranta, Giorgio Manganelli ha scritto così: "Il suo universo è discontinuo, senza approdi, soprattutto senza destinazione. Non si troverà mai il cosmo, non si indagherà mai il significato. Non esiste profondità, ma solo una infinita serie di superfici. Il mondo è una liscia pelle che nasconde altre pelli lisce: all'infinito." Si tratta di una delle possibili fantasie di avvicinamento a queste pagine. Ma ogni voce, che sia "CUPOLA", "DOLCI", "DRAMMA" o "FUCILE", è destinata a depositare qualche scoria nella testa di chi legge. In "DRAMMA" per esempio c'è un passaggio sulla percezione del tempo che definire profetico è dir  poco, e si ricordi il periodo di scrittura di questa enciclopedia. Scrive Savinio: "Vi siete domandati perché la vita oggi è tanto rapida, tanto fluida, tanto scorrente? Vi siete domandati perché oggi il tempo passa più presto?... Già ho dato più sopra la risposta: perché oggi la vita è tutta orizzontale e il tempo non trova intoppi al suo cammino". E naturalmente questa felice impostazione per lemmi, sostanziosi o apparentemente frivoli, cuce un libro destinato a persistere nel ricordo di chi lo vorrà leggere. C'è anche quest'aspetto di memorabilità di una lettura sul quale capita raramente di confrontarsi, ma che ogni tanto varrebbe la pena di stanare. Non ho ancora terminato di leggere questo tomo considerevole che tuttavia si presta, come detto, a una lettura frammentaria come la mia e com'è la lettura di qualsiasi enciclopedia. Questa che segue su "CULTURA" è una delle molte voci che mi sono segnato.

CULTURA. La cultura ha principalmente lo scopo di far conoscere molte cose. Più cose si conoscono, meno importanza si dà a ciascuna cosa: meno fede, meno fede assoluta. Conoscere molte cose significa giudicarle più liberamente e dunque meglio. Meno cose si conoscono, più si crede che soltanto quelle esistono, soltanto quelle contano, soltanto quelle hanno importanza. Si arriva così al fanatismo, ossia a conoscere una sola cosa e dunque a credere, ad avere fede soltanto in quella. Cfr. i tedeschi che sono portati alla specializzazione. Anche il fanatismo è una specializzazione. Conclusione: poiché fine della cultura è di far conoscere il maggiore numero di cose, e poiché conoscere una cosa significa distruggerla, fine supremo della cultura è l'ignoranza. Mi si passi questa dichiarazione di orgoglio: io già intravedo questo supremo stato di cultura - questo supremo stato di ignoranza. Già intravedo questa calma suprema, questo sguardo estremamente sapiente che spazia su un mondo di cose conosciute - di cose distrutte. Questo cimitero di cose. Questa pace ultima. In fondo questa mia ‘meta’ si confonde col principio stesso della vita cristiana, che è ignorare; e la supera anzi, perché la meta mia ignora anche Dio. Io non so dire veramente se ignoro Dio perché la mia conoscenza lo ha ‘traversato’, o perché non lo ho mai conosciuto. Resta a sapere se Dio è cosa ‘da conoscere'.

sabato 4 febbraio 2017

"Che vergogna scrivere" di Luigi Malerba (con un pensiero sulla sceneggiatura cinematografica)

Quote #15

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Nel maggio 1996 Arnoldo Mondadori Editore mandava in libreria, in una collana denominata "Passepartout", il libro Che vergogna scrivere di Luigi Malerba (pp. 138, lire 18.000, titolo fuori commercio). Dello scrittore morto nel 2008 assistiamo in questi anni a più riproposte, ora da parte di Quodlibet nella collana "Compagnia Extra", ora per mano di Mondadori, che fra le altre cose, qualche mese fa, ha pubblicato il Meridiano Romanzi e racconti curato da Giovanni Ronchini e preceduto da uno scritto di Walter Pedullà. Molti suoi titoli comunque restano oggi non disponibili. Malerba scrisse molto e non solamente romanzi e racconti, ma anche libri per bambini, scrisse per la televisione e il cinema o il teatro. Questi brevi impromptu per macchina da scrivere o pc radunati in Che vergogna scrivere rappresentano il versante meno corposo della sua produzione, quello saggistico, e affrontano i temi solo apparentemente più lordi della pratica scrittoria e della Repubblica delle Lettere (in uno di questi lo scrittore si sofferma proprio sul falso problema del metodo di scrittura, a penna o con la "macchina"). Vi troviamo pagine sul rapporto tra autore e lettore, pensieri sugli editori - che bene o male mai sono visti come "illuminati" -, sulle regioni della posterità, su questioni che troppo spesso passano in secondo piano nei discorsi sull'industria editoriale, come ad esempio le domande sul perché si scrive o cosa si può provare a far uscire dal cassetto un manoscritto. Proprio qui si inserisce la vergogna del titolo, sentimento primario, forse imprescindibile, per provare a dare senso all'oggi e, alla fine, anche alla vita, che è l'unica cosa che abbiamo, per un periodo limitato di tempo. Anche di altri turbamenti, oltre alla vergogna, scrive Malerba in questi agili paragrafi radunati nelle quattro sezioni del libro. Per esempio parla giustamente del turbamento che un libro riuscito deve lasciare in chi l'ha affrontato, una volta che la lettura è terminata, il libro richiuso e quell'attivatore di situazioni psichiche rappresentato dal testo letterario torna a scaffale. Malerba era preoccupato del senso e dei perché si fanno le cose e del perché si fanno in un certo modo. Sono davvero molti gli stimoli che offre in quest'opera "minore". In un passo ad esempio ci ricorda che "scrivere un libro significa liberarsi da un eccesso di sensazioni, idee, fantasie e disagevoli presenze che occupano la sua mente e stanno mutandosi in fissazioni moleste". Per questa volta ho scelto un brano che parla di sceneggiature cinematografiche, pratica che riguarda Malerba sin dagli esordi della sua carriera (fu anche attivo nella pubblicità). Riporto questo brano proprio in questi giorni in cui, presumibilmente a causa di certe sceneggiature e film come Paterson, si torna a parlare, ad esempio, di poesia su quotidiani e settimanali (in termini che mi sembrano esagerati o quantomeno dopati, quindi in termini da squalifica).

Un mestiere zoppo

Zavattini ha definito il lavoro di sceneggiatura un "mestiere zoppo". Una volta che il film è realizzato e viene presentato al pubblico, la sceneggiatura scompare. Il film reclama la propria autonomia, ha un autore (il regista), ci sono degli attori con il nome in cartellone che prestano la loro faccia ai personaggi, c'è una storia che sembra piovuta dal cielo (o che viene attribuita al regista), ma la sceneggiatura è scomparsa definitivamente anche se ottiene un piccolo spazio sui titoli di testa.
Al disagio zavattiniano vorrei ora aggiungerne un altro. Lo sceneggiatore, quando vede il film realizzato, non lo riconosce. Mentre lo spettatore comune identifica pacificamente i personaggi con gli attori, lo sceneggiatore ha immaginato i personaggi in un certo modo, con certe facce che non possono coincidere con quelle degli attori scelti dal regista e che perciò gli sono del tutto estranee. I personaggi possono essere credibili e disinvolti più ancora di quelli che lui ha immaginato, ma lì sullo schermo non può riconoscerli. Per lo sceneggiatore sono degli sconosciuti, quasi degli intrusi che si sono sostituiti abusivamente ai suoi personaggi. Fra tutti gli spettatori lo sceneggiatore è l'unico che si trova spiazzato senza rimedio e in preda alla più malinconica delle frustrazioni.

domenica 8 gennaio 2017

Le lettere da Muzot di Rilke non si traducono da sole (e una lettera di amentologia)

Quote #14

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Leggevo a salti Lettere da Muzot 1921-1926 di Rainer Maria Rilke proposte dall'editore Ghibli (pp. 394, euro 20). Di solito assieme alle indicazioni su pagine e prezzo del libro mi trovo a dare qualche coordinata su curatele e traduttori, ma questa volta, cercando all'inizio e alla fine del libro, non ho trovato traccia. Nelle pagine iniziali si legge della disponibilità dell'editore ad assolvere le proprie obbligazioni nei confronti degli aventi titolo rispetto ai diritti dell'opera. Nessuno mette in dubbio la ricerca compiuta senza successo dall'editore, tuttavia mi chiedo se un editore possa non sapere o fare a meno di menzionare i nomi dei traduttori di un'opera interessante che meritoriamente ripropone e mette a disposizione dei lettori. Poiché i testi non si traducono da soli, ho fatto una ricerca e capito che esiste una edizione delle Lettere da Muzot di Rilke pubblicata dall'editore Cederna nel 1947, a cura di Mirto Doriguzzi e Leone Traverso. Che sia proprio questa la versione che l'editore Ghibli ci ripropone oggi? Non ha l'aria di essere una nuova traduzione, ma naturalmente posso sbagliarmi. Ripeto, ho cercato ma non ho trovato traccia. Tra l'altro non è nemmeno menzionato l'autore del quadro da cui è tratto il particolare di copertina, dipinto che se non sbaglio appartiene a Paula Modersohn-Becker e data 1906. Siamo quindi in un anno di molto antecedente al rilevante periodo di Muzot, in cui il poeta addensa e completa la stesura delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo. Nominati i titoli di queste due opere rilkiane, non servirà aggiungere molto altro sull'importanza di quel soggiorno. Ecco una lettera che parla di amenti, salici e nocciòli. Ricorda da vicino certi discorsi botanici dei poeti italiani dello scorso secolo...


17. Alla signora Amann-Volkart 
Château de Muzot sur Sierre (Valais) 
Mia pregiata e gentilissima signora, 
che cara idea la vostra di mandarmi gli elementi «amentologia» e spiegarmeli in modo così chiaro ed evidente con la lettera che li completa! No, dopo questo non sono più necessarie altre o più precise informazioni: sono convinto. Strano: non esistono dunque amenti «penduli» di salice; e se ci fosse dunque qualche rara eccezione tropicale, non mi servirebbe a nulla. Il passo di poesia, del quale volevo riscontrare l’obiettiva esattezza, si regge o cade secondo che il lettore colga e capisca, al primo sentire, proprio questo pendere degli amenti, altrimenti l’immagine usatavi perde ogni senso. Bisogna dunque richiamare l’apparizione assolutamente caratteristica di quest’inflorescenza; e mi è subito riuscito chiaro, davanti alle figure molto istruttive del vostro libretto, che quell’arbusto che anni or sono mi produsse l’impressione di cui mi valsi nel mio lavoro, dev’essere stato un nocciòlo: i suoi rami, prima dello spuntar delle foglie, sono più fitti di amenti, che pendono lunghi, verticalmente. Dunque so quello che avevo bisogno di sapere; e nel testo sostituisco «nocciòlo» a «salice». 
Ma a voi, cara, gentilissima signora, devo questa certezza, e la soccorrevole sorpresa che me l’ha procurata in modo così inatteso. Dal volumetto voglio trarre ancora questa e quella utile nozione, e poi – tra alcuni giorni – ve lo rendo.
Sempre, con la più cordiale e devota affezione, vostro 

RILKE

giovedì 10 novembre 2016

Basta romanzi, ci soffoco dentro. "All’uscita del labirinto" di Clarice Tartufari in una recensione da "Plausi e botte" di Giovanni Boine

Quote #13

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Sulla scia del contributo di Chiara Catapano su Giovanni Boine pubblicato qualche giorno fa, propongo come "quote" una recensione confluita in Plausi e botte, la rubrica che Boine tenne dal 1914 al 1916 su "La Riviera Ligure" (scritti raccolti in volume con Frantumi nel 1918, nel sito archive.org trovate il libro disponibile per il download in vari formati). Mi pare dia la temperatura del pensatore, della sua prosa e di un certo modo di recensire che è tuttora assai interessante. Boine usava la rubrica per parlare di poesia, di romanzi e anche di altre riviste (liquidava la rivista quindicinale "Quartiere Latino" scrivendo "La par Lacerba ridotta per educande"). Poco importa che oggi non si ricordi chi sia Clarice Tartufari e il suo "ottimo romanzo" All'uscita del labirinto, che per Boine diventa pretesto per allargarsi a dire qualcosa di rilevante sul romanzo stesso e sulle sue libere (davvero libere) impressioni di recensore. In calce, a completamento, ho pensato fosse interessante riproporre l'indice di tutti i suoi plausi e di tutte le sue botte.

L'edizione Vallecchi
(42) Clarice Tartufari, All’uscita del labirinto. Bari, ed. Humanitas, 1914.

di Giovanni Boine

Dico anch' io di questo romanzo quel che ne han detto fin qui concordemente gli altri: che é un ottimo romanzo. Racconta di una giovinetta viterbese, che su su, si fa donna attraverso due amori. La è una giovinetta ed una donna, viva ; di quelle che le sofferenze se le tengono in cuore orgogliosamente e non si piegano ; cresciuta su fra un padre chiuso dolente e duro ed una sorella bella, scaltra e facile. La sorella fa fortuna, sposa un impiegato postale, ma fa a Roma la gran vita. Lei, pure a Roma, finisce dattilografa a guadagnarsi da sé il pane, ad affrontare il mondo uscita che è dal labirinto della prima giovinezza, maturata com’è dalle parecchie esperienze e fatta l'anima ferma. 

Appunto codesta fermezza, codesta dirittura, codesta orgogliosa (simpatica) onestà, senti per tutto il libro. V’è in fondo ad ogni opera d'arte una intuizione germinale, uno stato-d'animo-base, i segni di una individualità così e così definitiva da cui tutto il resto rampolla. Qui lo stato d'animo è questo che descrivo. Senti nella stessa rappresentazione, nella pittura delle persone e degli avvenimenti, nello stile (non sempre) non so che sobrietà precisa, non so che sforzo di quadratura, di massiccia e netta sincerità, la quale sei tentato di dir maschia.

Ma non è maschia che per questa sola ragione, che è donnesca.

Non lo dico per offender nessuno. Le qualità di questo romanzo, — le buone qualità, — sono, trasportate in arte, quelle stesse per cui la tua moglie t'ordina così tanto bene la casa, e con tanto oculato scrupolo e tanta pazienza, e, sí, con tanto minuto ardimento e sacrificio di sé t'aggiusta il dissestato bilancio. Otto Weininger parla accanto all'altra che ho nominato mi pare al N. 21, di una donna madre, la quale a suo modo è capace, aggiungo io, è capacissima di logica e d'ordine. Ma l'ordine delle donne e la loro logica, son di specie matematica, mancano assolutamente di lirica. Tanto che se tu parli di un ordine lirico, o di una logica lirica fra le varie donne che discutono, portando brache, ora, di guerra al tuo caffè, susciterai le omeriche risate.

Però se le mie teorie paressero weiningerìane eccessivamente, lasciamole stare. Il fatto è questo: che la Tartufari ha scritto un ottimo romanzo. Ma che appunto perchè in quanto romanzo, io non ho quasi niente da obiettare a questo libro e cioè non sono costretto a correggerlo, a dir che è male scritto, che la tesi è bislacca, che i personaggi non vivono, e che di qui, e che di là, come ho dovuto fare finora o presso a poco; appunto perciò che i personaggi qui vivono, che tutto o quasi tutto qui è vivo e vero e sicuramente padroneggiato, mi sia dunque permesso di dir finalmente la mia opinione sugli ottimi romanzi vivi e veri e quadratamente rappresentati.

Ed è che non so come, ci soffoco dentro, ma proprio ci soffoco, ma proprio non ci colgo da un ultimo che pena e desiderio di scattare comunque pazzamente fuori, fuori d'ogni quadratura e d'ogni regolare verità. Che ciò non è arte, o è quell'arte di cui non so assolutamente più che farmi ; che è un congelare, un rifinire fotografico, (un ripetere la vita) uno sperperare narrativamente una emozione la quale, nuda, era un grido, od un lamento, era un bagliore od una interiore colorazione.

La Tartufari non ci ha colpe ; anzi. Ma basta signori scrittori, basta romanzi. Abbiamo già troppo fatto il pagliaccio e il troviero. Si deve per l'eternità lavorare a divertire il pubblico che paga ed a cantargli favole purché gli passin l'ore ? Spiaccicare l'anima nostra in grafici rettorici, infagottarla in fantocci, farla mimo e scimmia della vita, farla teatrante su di un finto palscoscenico perchè il mondo grosso applauda ?

Signori scrittori, la rettorica di Aristotile che è la vostra, non è la mia. Non basta ridere delle tre unità. Bisogna esser maschi davvero. Rigettare la schiavitù dell'apparente mondo e l'ordine della matematica materialità. Signori scrittori, siamo uomini ; lasciamo la letteratura e facciam della lirica. Esser uomini vuol dire scartar la blandizie, la colorata mollizie del sensibile mondo ; ridurci rudi al di dentro.

Io piangerò, io griderò o starò zitto. Starò con, dirò la mia anima nuda. Non scriverò romanzi.

* * * 

Indice degli autori e dei titoli di Plausi e botte di Giovanni Boine

Agar (Virginia Tango Piatti), Le reliquie d’un ignoto
Vincenzo Agostini, I canti della terra
Liana Ascoli Umilia, Favole Moderne
Riccardo Bacchelli, Poemi lirici
Pierangelo Baratono, Bob e il suo metodo
Carlo Emanuele Basile, La vittoria senz’ali
Giulio Bechi, I seminatori
Giulio Bechi, I racconti del bivacco
Ugo Bernasconi, Uomini ed altri animali
Ugo Bernasconi, Pascal, La Rochefoucauld (traduzioni)
Antonio Beltramelli, Solicchio
Giovanni Boine, Il peccato ed altre cose
Dionisio Buraggi, Zodiaco
Paolo Buzzi, L’elisse e la spirale
Paolo Buzzi, Bel canto
Dino Campana, Canti Orfici
Francesco Cangiullo, Piedigrotta
Moisè Cecconi, Il taccuino perduto
Carlo Dadone, Il talismano
Carlo Dadone, Come presi moglie
Carlo Dadone, La piccola Giovanna
Guido Da Verona, Il cavaliere dello Spirito Santo
Guido Da Verona, La donna che inventò l’amore
Adolfo De Bosis, Amori ac silentio
Alfredo De Gasperi, La protesta di un ritardatario
Edoardo De Fonseca, Il gaudente
Salvatore Di Giacomo, Novelle napoletane
Anton Francesco Doni, Scritti vari
Carlo Dossi, Opere
Eugenio Donadoni, Il sudario
Persio Falchi, Le novelle del demonio
Giuseppe Fanciulli, L’omino turchino
Angelo Luigi Fiorita, Sorrisi violetti
Lionello Fiumi, Polline
Luciano Folgore, Ponti sull’Oceano
Raffaello Franchi, Ruscellante
Ilaria Giusta, La casa senza lampada
Corrado Govoni, La neve
Corrado Govoni, L’inaugurazione della primavera
Amalia Guglielminetti, I volti dell’amore
Amalia Guglielminetti, L’insonne
Haydée, Faustina Bon
Piero Jahier, Resultanze in merito alla vita ed al carattere di Gino Bianchi
Carlo Linati, I doni della terra
Giuseppe Margani, Il corvo di E. Poe
Ofelia Mazzoni, Il palcoscenico
Francesco Meriano, Equatore notturno
Marino Moretti, I pesci fuor d’acqua
Marino Moretti, Giardino di frutti
Moscardelli, Abbeveratoio
Moscardelli, Tatuaggi
Giuseppe Mulas, Poesie nuove
Neera, Rogo d’amore
Ada Negri, Esilio
Arturo Onofri, Liriche
Arrigo Palatini, Testamento
Alfredo Panzini, Santippe
Alfredo Panzini, Il romanzo della guerra nell’anno 1914
Alfredo Panzini, Donne madonne e bimbi
Giovanni Papini, Buffonate
Giovanni Papini, 100 pagine di poesia
Enrico Pea, Lo spaventacchio
Filippo De Pisis, Canti della Croara
Rina Maria Pierazzi, L’inutile attesa
Mario Puccini, Foville
Carola Prosperi, La nemica dei sogni
Romolo Quaglino, Le indiscrezioni di Trilbly
QUARTIERE LATINO
Giuseppe Ràvegnani, Io e il mio cuore
Clemente Rébora, Frammenti lirici
RELAZIONE DEL CONCORSO
Alda Rizzi, L’occulto dramma
Emilio Roncati, Le voci nel deserto
Rosso di S. Secondo, Elegie a Maryke
Michele Saponaro, La vigilia
Nino Savarese, L’altipiano
Camillo Sbarbaro, Pianissimo
Renato Serra, Le lettere
Ardengo Soffici, Arlecchino
Ardengo Soffici, Giornale di bordo
LA NOSTRA SCUOLA
Clarice Tartufari, All’uscita del labirinto
Térésah, Il salotto verde
Leone Dario De Tuoni, Dall’esilio
Giacomo Ungarelli, Inni alle navi
Vamba, Storia di un naso
LA VOCE

domenica 7 agosto 2016

"La politica dell'impossibile" di Stig Dagerman: per non morire di vergogna

Quote #12

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Dal 1991 la casa editrice Iperborea prosegue nella proposizione delle opere dello scrittore svedese Stig Dagerman, nato nel 1923 e morto suicida all'età di 31 anni. Dopo Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte e Perché i bambini devono ubbidire? è la volta della traduzione dei saggi e contributi giornalistici usciti a Stoccolma nel 1958 col titolo Essäer och journalistik. La politica dell'impossibile (pp. 144, traduzione, cura e utile prefazione di Fulvio Ferrari, postfazione di Goffredo Fofi, euro 15) raccoglie diciassette interventi sui temi più disparati, tutti anticipati da un breve cappello introduttivo del curatore che contestualizza lo scritto e l’occasione per cui Dagerman si è pronunciato. Quello che davvero colpisce nella capacità di analisi nell’anarchico autore de Il serpente è quanto un tempo, con un’espressione un po’ scolastica e desueta, si sarebbe chiamato “spirito critico”. Che affronti i temi della poesia, il suo punto di vista sull’anarchismo, le nascenti ONU o NATO, che venga interrogato sul significato dei “classici”, sul compito della letteratura, sul mondialismo e il “movimento dei cittadini del mondo”, sul nascente dibattito Est/Ovest, Dagerman offre ai suoi lettori punti di vista mai scontati e ruminati e una chiara visione dei pericoli che corrono le democrazie europee degli oligocratici, una cultura già allora relegata all’intrattenimento, e la figura dello scrittore, che Dagerman vede inevitabilmente inserito in un qualche ruolo, ma per il quale rivendica libertà di immaginazione e lavoro in modi e toni nuovi per l’epoca. Leggendo questi testi pensavo a un’altra espressione scolastica e desueta, ovvero quella del “ruolo dello scrittore”. Potrei concludere, prima di lasciarvi all’ampio stralcio che ho scelto, che leggendo Dagerman queste espressioni desuete che talvolta potrebbero apparirci come inservibili fossili linguistici suonano un po’ meno ischeletrite, ancora vibranti in un’atmosfera di drammatica utopia.

Il brano che segue è tratto dallo scritto “Lo scrittore e la coscienza” del 1945 (mutatis mutandis notate come certe sue osservazioni sulla poesia, sulla sua popolarità e comprensione e quindi sul suo declassamento siano perfettamente mutuabili e adattabili al nostro tempo).

[…] Come chiunque altro, lo scrittore ha dovuto fare esperienza della propria dipendenza dall’arbitrio di un potere esterno e ha dovuto rendersi conto di quanto la sua libertà, al pari di quella altrui, sia condizionata. Del tutto apparente, per esempio, è la libertà di movimento, visto che ogni persona è data in prestito a se stessa per un periodo che è qualcun altro a decidere. E come risultano fragili qualsiasi riforma sociale e qualsiasi utopia in un sistema mondiale in cui la catastrofe è l’unica previsione certa! Eppure è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza – che rappresenta forse il dilemma di tutti i socialisti del mondo d’oggi – che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna. Se in questa situazione mi si accusa dicendo «La tua poesia non è capita dal popolo, dalle masse, dagli operai, non è abbastanza sociale», io ho il diritto di rispondere che un tale ragionamento si basa su una concezione sbagliata, quella secondo cui per essere sociale la poesia deve essere «capita» da tutti. Per «capire» si intende purtroppo poterla comprendere senza alcuno sforzo del pensiero, più o meno come si comprende un annuncio o una insegna al neon. Per certi presunti rappresentanti del «popolo», la poesia deve essere l’annuncio pubblicitario del mondo nuovo, ma se il testo è abbastanza gustoso può anche parlare dei piaceri dell’estate o della pesca ai gamberi ed essere ugualmente letteratura per il «popolo». Per loro la poesia ha smesso di costituire un messaggio da essere umano a essere umano. L’hanno declassata a gioco di società. Non hanno mai capito che nasce invece da una necessità: non è un lavoro di falegnameria fatto con ritmi e rime, che possa essere praticato nei momenti liberi da rivoluzionari in pensione che non hanno mai preso sul serio la letteratura. Gridano alla reazione se si imbattono in un brano poetico che non si può imparare a memoria in cinque minuti o che non rende immediatamente accessibile il suo pensiero, ma sono loro a essere reazionari, sia perché negano il dovere dello scrittore di creare secondo la sua necessità, sia perché mettono in discussione la possibilità che la poesia riguardi l’essere umano, non in quanto gioco di società, ma come pietra di paragone della sua sincerità nei confronti della vita. […]
Mi auguro che questo ampio stralcio tratto da La politica dell'impossibile di Stig Dagerman sappia funzionare come invito alla ricerca e alla lettura del libro

venerdì 4 marzo 2016

I volti nei "Cento e un ragionamenti" di Alain: i segni dell’attenzione uccidono l’attenzione e l’osservatore, nei suoi momenti migliori, sembra distratto

Quote #11

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Cento e un ragionamenti di Alain (Einaudi, pp. XLIV-248, a cura di Sergio Solmi, non più in commercio) riapparve nel 1975 nella collana NUE dopo la prima edizione risalente al 1960. L'autore, al secolo Émile-Auguste Chartier (1868 - 1951), aveva combattuto la Prima guerra mondiale da semplice caporale, nel 1917 era rimasto ferito e non aveva mancato di dare un contributo al dibattito con Mars ou la guerre jugée. Il genere sul quale si sarebbe poi più fortunatamente esercitato è quello speculativo-breve ben illuminato dai Propos o da quelli riproposti recentemente da Elliot, Propositi di felicità (sulla base di una traduzione di Anna Maria Rodari già uscita per Editori Riuniti). La carica dei Cento e un ragionamenti qui racchiusi non si esaurisce tra uno e l'altro pezzo (sempre brevi, sempre titolati, 2 o 3 pagine di media per ciascun capitolo), ma dispongono sul piano increspato della scrittura non tanto un sistema filosofico, bensì un metodo di pensiero solleticato continuamente dal reale e dall'accidentalità, come rilevava Solmi nella sua nota. Indeciso tra i suoi "Bachi da seta" e i "Volti", mi son lasciato prendere più dai secondi e dalle loro frantumanti osservazioni finali.
VOLTI


    C’è un tipo di espressione che salta agli occhi di tutti. Come certi chiacchieroni non possono trattenersi dal parlare, cosí ci sono occhi, nasi, bocche che non possono trattenersi dall’esprimere. Si vedono individui imperiosi, minacciosi, risoluti, malinconici o sprezzanti nell’atto stesso di comprare un giornale. Ho conosciuto un tale che rideva sempre. Sono tristi prerogative, che rendono stupidi. Compiango quelli che hanno l’aria intelligente; è una promessa che non si può mantenere. Accade in qualche modo che il viso pensi per il primo, e la conversazione reale non giunge mai ad accordarsi con le mute risposte. Suppongo che la timidezza derivi soprattutto dai messaggi che uno invia involontariamente davanti a sé, senza conoscerne nemmeno lui il significato. Così ogni volta che incontro qualcuno con un viso da spadaccino, dovuto a una combinazione di naso, sopracciglia e baffi, riconosco un timido, che per tal ragione può essere anche un violento; come un attore porta il costume, ma non sa la parte.
    Da queste piccole miserie deriva un’antica norma di educazione, secondo la quale bisogna esercitare il viso a non dir nulla involontariamente. Lo spirito moderatore deve ritirarsi dapprima sotto apparenze neutre, come sotto un riparo: senza tale precauzione resta schiavo delle apparenze, e sempre in ritardo di una battuta. Lo spirito, il sentimento, persino la bellezza dapprincipio devono esser tenuto nascosti, quasi in riserva. Il valore di un sorriso presuppone per cominciare che non si sorrida agli specchi e ai mobili. Nella Chartreuse c’è una giovane borghese, i cui occhi sembrano conversare con le cose che guardano: paragonate questa scioccherella alla divina Clelia, il cui bel viso non esprime all’inizio che un’indifferenza non infinta. Ma il più bel ritratto della nostra galleria letteraria è senza dubbio quello di Veronica, nel Curé de Village. Veronica, fanciulla meravigliosamente bella, dai lineamenti ispessiti e quasi mascherati dal vaiuolo, ritrova ogni volta la sua primitiva bellezza in virtù di un sentimento profondo. La vera potenza di una donna consisterebbe nell’esser bella quando lo voglia.
    Tutto questo si fa sentire nei risultati; cosí la vera civetteria deve sempre guardarsi bene dal piacere; il movimento che piú le si addice è un rifiuto di esser bella: come lo spirito implica sempre ci si rifiuti di comprendere troppo. In fondo, è un abbassare ciò che è naturale e un accrescer valore al libero consenso. Mi sembra quasi di scrivere i consigli di una madre alla propria figlia: ma in tutt’altro senso. Non penso soltanto all’effetto prodotto sullo spettatore: quello che m’importa è il ritorno dei segni che agisce cosí efficacemente su chi li invia. Anche la bellezza divien brutta quando si offre all’ammirazione: è facile trovare prove di quanto dico. La bellezza non riservata esprime subito una certa asprezza e inquietudine, e a volte una specie di stupidità aggressiva. Parimenti i segni dell’attenzione uccidono l’attenzione. L’osservatore, nei suoi momenti migliori, sembra distratto.