"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.
Nel maggio 1996 Arnoldo Mondadori Editore mandava in libreria, in una collana denominata "Passepartout", il libro Che vergogna scrivere di Luigi Malerba (pp. 138, lire 18.000, titolo fuori commercio). Dello scrittore morto nel 2008 assistiamo in questi anni a più riproposte, ora da parte di Quodlibet nella collana "Compagnia Extra", ora per mano di Mondadori, che fra le altre cose, qualche mese fa, ha pubblicato il Meridiano Romanzi e racconti curato da Giovanni Ronchini e preceduto da uno scritto di Walter Pedullà. Molti suoi titoli comunque restano oggi non disponibili. Malerba scrisse molto e non solamente romanzi e racconti, ma anche libri per bambini, scrisse per la televisione e il cinema o il teatro. Questi brevi impromptu per macchina da scrivere o pc radunati in Che vergogna scrivere rappresentano il versante meno corposo della sua produzione, quello saggistico, e affrontano i temi solo apparentemente più lordi della pratica scrittoria e della Repubblica delle Lettere (in uno di questi lo scrittore si sofferma proprio sul falso problema del metodo di scrittura, a penna o con la "macchina"). Vi troviamo pagine sul rapporto tra autore e lettore, pensieri sugli editori - che bene o male mai sono visti come "illuminati" -, sulle regioni della posterità, su questioni che troppo spesso passano in secondo piano nei discorsi sull'industria editoriale, come ad esempio le domande sul perché si scrive o cosa si può provare a far uscire dal cassetto un manoscritto. Proprio qui si inserisce la vergogna del titolo, sentimento primario, forse imprescindibile, per provare a dare senso all'oggi e, alla fine, anche alla vita, che è l'unica cosa che abbiamo, per un periodo limitato di tempo. Anche di altri turbamenti, oltre alla vergogna, scrive Malerba in questi agili paragrafi radunati nelle quattro sezioni del libro. Per esempio parla giustamente del turbamento che un libro riuscito deve lasciare in chi l'ha affrontato, una volta che la lettura è terminata, il libro richiuso e quell'attivatore di situazioni psichiche rappresentato dal testo letterario torna a scaffale. Malerba era preoccupato del senso e dei perché si fanno le cose e del perché si fanno in un certo modo. Sono davvero molti gli stimoli che offre in quest'opera "minore". In un passo ad esempio ci ricorda che "scrivere un libro significa liberarsi da un eccesso di sensazioni, idee, fantasie e disagevoli presenze che occupano la sua mente e stanno mutandosi in fissazioni moleste". Per questa volta ho scelto un brano che parla di sceneggiature cinematografiche, pratica che riguarda Malerba sin dagli esordi della sua carriera (fu anche attivo nella pubblicità). Riporto questo brano proprio in questi giorni in cui, presumibilmente a causa di certe sceneggiature e film come Paterson, si torna a parlare, ad esempio, di poesia su quotidiani e settimanali (in termini che mi sembrano esagerati o quantomeno dopati, quindi in termini da squalifica).
Un mestiere zoppo
Zavattini ha definito il lavoro di sceneggiatura un "mestiere zoppo". Una volta che il film è realizzato e viene presentato al pubblico, la sceneggiatura scompare. Il film reclama la propria autonomia, ha un autore (il regista), ci sono degli attori con il nome in cartellone che prestano la loro faccia ai personaggi, c'è una storia che sembra piovuta dal cielo (o che viene attribuita al regista), ma la sceneggiatura è scomparsa definitivamente anche se ottiene un piccolo spazio sui titoli di testa.
Al disagio zavattiniano vorrei ora aggiungerne un altro. Lo sceneggiatore, quando vede il film realizzato, non lo riconosce. Mentre lo spettatore comune identifica pacificamente i personaggi con gli attori, lo sceneggiatore ha immaginato i personaggi in un certo modo, con certe facce che non possono coincidere con quelle degli attori scelti dal regista e che perciò gli sono del tutto estranee. I personaggi possono essere credibili e disinvolti più ancora di quelli che lui ha immaginato, ma lì sullo schermo non può riconoscerli. Per lo sceneggiatore sono degli sconosciuti, quasi degli intrusi che si sono sostituiti abusivamente ai suoi personaggi. Fra tutti gli spettatori lo sceneggiatore è l'unico che si trova spiazzato senza rimedio e in preda alla più malinconica delle frustrazioni.
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