martedì 28 febbraio 2017

Il ralenti dei "Tropismi" di Nathalie Sarraute

Marguerite Duras, Jean Cayrol, Claude Simon, Alain Robbe-Grillet, la recente proposta del romanzo-epistolario di Hélène Bessette La rottura, i racconti bellici di Blaise Cendrars e Nathalie Sarraute: la casa editrice Nonostante prosegue con costanza un percorso di riappropriazione di determinati libri importanti della letteratura di Francia (certo, non da sola, è in compagnia di altri editori, come ad esempio L'Orma). Curiosa anche dal punto di vista del bel progetto grafico è questa casa editrice, una delle poche a non nominarsi in copertina, se non con una parte del proprio emblema, risolto a sinistra con la finitura della liscia vernice UV sul bianco, grigio e blu che sono i colori che la contraddistinguono. E di Nathalie Sarraute Nonostante Edizioni è già al terzo titolo, che accompagna i volumi Ritratto d'ignoto e i saggi sul romanzi de L'eta del sospetto, di cui ho già dato notizia qui. (Pensandoci è curioso che questa realtà editoriale sia collocata a Trieste e non prossima al confine francese, e chissà che questa posizione serva tra qualche tempo ad avvicinare meglio scritture provenienti da altri punti cardinali.) Tropismi (pp. 115, euro 15, nella traduzione revisionata di Oreste Del Buono, postfazione di Arnaud Rykner) uscì in prima battuta nel 1939 per l'editore Robert Denoël dopo i rifiuti di Gallimard e Grasset. Nathalie Sarraute aveva iniziato a scrivere le brevissime prose che lo compongono nel 1932. Assai fredda fu l'accoglienza, con poche eccezioni, e tra queste si ricordino almeno Max Jacob e Jean-Paul Sartre, che poi firmò la prefazione a Portrait d'un inconnu nel 1948. L'opera ebbe una nuova edizione aumentata a 24 prose per Les Éditions de Minuit diciott'anni più tardi, nel 1957, quando tutti di discorsi possibili sul Nouveau roman e sulla centralità di queste pagine di Sarraute nella definizione di questo movimento erano già più maturi, calati in una sfera di possibilità e nel gioco letterario dei precursori.

Che cosa sono i "tropismi" del titolo? Si tratta di un prestito dal linguaggio scientifico e in questo Sarraute sembra inaugurare o quantomeno assecondare una lunga scia di prestiti scientifici nella letteratura del Novecento. In linea generale la biologia chiama così un "movimento orientato di un organismo, animale o vegetale, o di una sua parte, determinato dall'azione di uno stimolo esterno (luce, temperatura, umidità, gravità, fattori chimici, ecc.)". Il più noto tropismo è senza dubbio quello del girasole. Trasferendoci all'uomo, il tropismo che indaga Sarraute è una sorta di carotaggio della vita della psiche attraverso gesti, dialoghi contenutissimi, scene minimali. Nelle parole dell'autrice questi sono movimenti indefinibili che scivolano molto rapidamente verso i limiti della nostra coscienza e sono fonte delle nostre azioni, delle nostre parole, dei sentimenti che manifestiamo e crediamo possibile definire. In questi frammenti dove il ralenti testuale si tiene a larga distanza dal flusso di coscienza, pur condividendone certe prerogative, Sarraute coglie dei personaggi anonimi all'interno di un sistema e li descrive in un frangente di scissione interiore o soffocato terrore, tra l'impossibilità di affermazione e il desiderio di distinzione. Intendo qui l'accezione fisica della parola "sistema", quindi qualcosa di osservabile nel tempo. Ma proprio come nella fisica, il rischio, corso con coraggio, è quello che la conoscenza della realtà si riduca via via alla conoscenza della conoscenza o, per meglio dire, alla conoscenza dei metodi con cui cerchiamo di conoscere la realtà e si risolva con una sovrapposizione con l'oggetto stesso a cui è rivolta l'indagine conoscitiva, che in questo caso è di natura testuale e letteraria (sovrapposizione che non è necessariamente sinonimo di verità o conoscenza). E inoltre lo stato di perturbamento introdotto dall'osservatore-scrittore non è più - se mai lo è stato - indifferente nel tentativo di descrizione del sistema. Penso risieda qui una buona parte della consapevolezza teorica che ha trovato nella speculazione francese del Novecento, teorica e anche pratica, certi casi tra i più significativi dello scorso secolo. Accadeva questo quando altrove, in Europa e nel mondo, teneva banco, fra altri aspetti, una concezione di testo letterario come testimonianza. I personaggi di Tropismi non sono rappresentativi di qualcosa e portatori di istanze particolari, non sono emblematici, non possono nemmeno testimoniare qualcosa essendo senza nome; insomma oggi non sarebbero quei personaggi che fanno gola agli uffici stampa delle case editrici per ricamarci sopra un comunicato di lancio interessante. Sono semmai dei punti di partenza, attorno ai quali formulare un'ipotesi (che poi per simili ipotesi la fabbrica della narrativa contemporanea non abbia più tempo né spazio è un altro paio di maniche). Un libro da riprendere in mano, nell'epoca del fastidio e dei nuovi tropismi che avvengono nel parterre dei social media.

lunedì 27 febbraio 2017

Kolibris edizioni e traduzioni di poesia: da "Voci" di Ana Luísa Amaral, da "Un mantello di fortuna" di Guy Goffette e da "Istituto di antropologia" di Jorge Reis-Sa

Qualche tempo fa scrivevo delle traduzioni di poesia nel nostro paese. Penso che aprirsi di più all'esterno, per la via maestra della traduzione, possa essere un buon antidoto contro i discorsi e i "falli di frustrazione" che spesso si compiono, quando si prova a mettere assieme i discorsi su poesia e suoi lettori o su poesia e mercato o sul rapporto tra chi la scrive e chi la legge (uno a uno, si dice solitamente). Credo che la casa editrice ferrarese Kolibris di Chiara De Luca abbia un primato, cioè quello del maggior numero di traduzioni poetiche per anno. Sono da poco usciti Nulla è scritto di Manuel Alegre e Formule di una luce inesplicabile di Nuno Júdice. Per gentile concessione, pubblico dei brevi estratti da tre libri in uscita nei prossimi giorni: Voci di Ana Luísa Amaral, Un mantello di fortuna di Guy Goffette e Istituto di antropologia di Jorge Reis-Sa. Le traduzioni sono di Chiara De Luca stessa.






ANA LUÍSA AMARAL, da Voci

NOCTURNAL, DESATRAINDO O SOM


Em cima desta mesa, a luz acesa
Dá‑me a medida exacta desta noite:
Fria chuva de Junho, a gata que me espia
Ali do corredor, e me vigia um sono
Que não vem.

Espera‑me, de olhos que são
Como gumes de espada, e um pêlo
Acetinado e muito doce,
Espera‑me, como amante.

São quentes os meus pés,
Quando chegar a hora e ela vier
Deitar‑se ao fim da cama.

É quente o cobertor,
Que esta noite de Junho, em chuva e fria,
Na noite convocou.

Vou apagar a luz. Sair da mesa.
Ela aguarda. E eu vou –


NOTTURNO, SOTTRAENDO IL SUONO


Sopra questo tavolo, la luce accesa
Dammi la misura esatta di questa notte:
Fredda pioggia di giugno, la gatta che mi spia
Ali del corridoio, e mi veglia un sonno
Che non viene.

Mi aspetta, con gli occhi che sono
Come fili di spada, e un pelo
Satinato e molto dolce,
Aspetta, come un amante.

Sono caldi i miei piedi,
Quando arriva il momento e lei viene
A sdraiarsi in fondo al letto.

È calda la coperta,
Che questa notte di giugno, piovosa e fredda,
Nella notte ha convocato.

Vado a spegnere la luce, lasciare il tavolo.
Lei guarda. E io vado –


NEM DIÁLOGO, OU QUASE


Um tempo pouco apetecido – ou muito apetecido,
igual a esta nuvem, a este rio que vai e vem, mas não
fica nunca. «Escreve», disse.


Imagino‑te, minha mão,
numa sala cheia de sol,
as cortinas transparentes ao lado,
uma mesa ampla.
Dizes‑me: «escreve».

Desejar uma onda,
uma avalanche de paixão entre os dedos,
o tempo: este papel pequeno.
Escuto, mas há coisas com gume de espada
e não consigo obedecer como gostava.

Estão impressas na memória,
as palavras,
mas era aqui que um verso do avesso,
sons transparentes,
haver bolhas de sons

Como uma sala a sol,
os grãos de luz
na mesa muito ampla
não formam um padrão que se organize.
«Escreve»,
continua a minha mão.
Mas o céu repete‑se tão claro,
o rio é como roda que não pára,
bicicleta com aros de metal fundente.
E o frio sente‑se aqui.

«Não sei», respondo‑lhe.
«Comprei agora este caderno, a sua capa é verde,
não conheço esta mesa, nem o seu mármore,
não há família entre mesa, caderno, esta nova caneta,
onde se esconde a mesa que conheço?,
o verde carregado?,
«não sei», insisto.

«Só te conheço a ti, ó minha mão.
E até hoje me pareces longínqua.
Onde está essa onda?
Onde a avalanche de que eu precisava?»

Toca‑te devagar a outra mão.
Conhecem‑se
a calor.
Mas, eu?
Entre verde e caderno, tudo novo,
o azul quase gume,
as espadas de gume circular,
o tempo em vidro,
é tão fácil perder‑te.
«Talvez virando aí à tua esquerda», digo‑te,
«descendo‑me do ombro.
Talvez aí eu te consiga ver ao longe,
acenar‑te sem sons.»

«É por aqui», repito.
Mas tu não vês a luz
que passou a vermelho e de repente.
E moves‑te entre carros, sons de carros,
de vozes.

E só agora, e afinal, reparo
que a minha mão nunca saiu daqui,
ficou entre cadeiras, sossegada.
Não está dispersa,
não era sua a voz,
por isso essa avalanche lhe pareceu serena.

Chamei‑vos «minha mão»,
mas sois os monstros largos que me assaltam.
Já não é sol o sol,
é deste tempo o tempo.
E todavia, pesadelos meus,
podemos tomar chá, se desejardes,
vós que não me sois mão,
mas lhes sabeis da forma, a imitais,
vos transformais em dedos,
unhas, sangue.

Vinde,
ressuscitados em carne e gente,
e sentai‑vos aqui.
Olhai: as minhas duas mãos,
as duas:
preparam‑vos o espaço.
Não sei como chamar‑vos, por que nome.
Parcas, moiras, melopeias de brilho.
Não sei como chamar‑vos.

Mas finalmente escrevo.


NESSUN DIALOGO, O QUASI


Un tempo poco desiderato – o molto desiderato,
uguale a questa nube, a questo fiume che va e viene, ma non resta mai. «Scrivi», disse.


Ti immagino, mia mano,
in una sala piena di sole,
le tende trasparenti di lato,
un tavolo ampio.
Mi dici: «scrivi».

Desiderare un’onda,
una valanga di passione tra le dita,
il tempo: questo foglio piccolo.
Ascolto, ma ci sono cose come fili di spada
e non riesco a obbedire come volevo.

Sono impresse nella memoria,
le parole,
qui era più di un verso al contrario,
suoni trasparenti,
avere bolle di suoni

Come una sala al sole,
i grani della luce
sul tavolo così ampio
non formano un modello che si organizzi.
«Scrivi»,
continua la mia mano.
Ma il cielo si ripete tanto chiaro,
il fiume è una ruota che non si ferma,
bicicletta con ghiere di metallo fuso.
E il freddo si sente qui.

«Non lo so», le rispondo.
«Ho comprato ora questo quaderno, la copertina è verde,
non conosco questo tavolo, né il suo marmo,
non c’è famiglia tra tavolo, quaderno, questa nuova penna,
dove si nasconde il tavolo che conosco?,
il verde carico?,
«Non lo so», insisto.

«Conosco solo te, o mia mano.
E fino a oggi mi parevi lontana.
Dov’è quell’onda?
Dove la valanga di cui avevo bisogno?»

Toccati lentamente l’altra mano.
Si conoscono
dal calore.
Ma, io?
Tra verde e quaderno, tutto nuovo,
o azzurro quasi filo,
le spade dal filo circolare,
il tempo in vetro,
è così facile perderti.
«Forse girando lì alla tua sinistra», ti dico,
«mi discendo dalla spalla.
Forse lì riuscirò a vederti da lontano,
farti segni senza suoni.»

«È di qua», ripeto.
Ma tu non vedi la luce
che passò al rosso e all’improvviso.
E ti muovi tra auto, suoni di auto,
di voci.

E solo ora, e alla fine, mi accorgo
che la mia mano non è mai uscita da qui,
è rimasta tra le sedie, tranquilla.
Non è dispersa,
non era sua la voce,
perciò quella valanga le parve serena.

Vi ho chiamata «mia mano»,
ma siete i mostri grandi che mi assalgono.
Non è più solo il sole,
e di questo tempo il tempo.
Eppure, incubi miei,
possiamo prendere il tè, se lo volete,
voi che non mi siete mano,
ma le sapete dalla forma, la imitate,
vi trasformate in dita,
unghie, sangue.

Venite,
resuscitate in carne e gente,
e sedetevi qui.
Guardate: le mie due mani,
le due:
vi preparano lo spazio.
Non so come chiamarvi, con che nome.
Parche, moire, melopee di splendore.
Non so come chiamarvi.

Ma finalmente scrivo.


Ana Luísa Amaral è nata a Lisbona nel 1956. Si è laureata in Germanistica alla Facoltà di Lettere dell’Università di Porto, dove attualmente insegna Letteratura Inglese al Dipartimento di Studi Ango-americani. È dottore di ricerca in Letteratura Nord-Americana con una tesi su Emily Dickinson. Ha pubblicato saggi accademici (in Portogallo e all’estero) nell’area di Letteratura inglese, letteratura anglo-americana, letteratura portoghese e letterature comparate. Tra il 1991 e il 1993 è stata ricercatrice presso il Dipartimento di Inglese dell’Università di Brown (E.U.A.). È ricercatrice associata al Centro Studi Sociologici dell’Università di Coimbra. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia e un libro di racconti per l’infanzia. Ha partecipato a letture poetiche in vari paesi, tra cui Stati Uniti, Colombia, Argentina, Francia, Germania, Irlanda e Olanda. Tra le sue opere poetiche ricordiamo: Minha Senhora de Quê (1990, 1999), A Arte de ser Tigre (2003), Imagias (2001), Entre dois rios e outras noites (2007), A génese do amor (2005), Às vezes o paraíso (1998), Vozes (2011), Escuro (2014).



GUY GOFFETTE, da Un mantello di fortuna


I


Enfant, je savais comme partir est doux
pour n’avoir jamais quitté la barque
des collines, fendu d’autre horizon
que la pluie quand elle ferme le matin,

et qu’il me fallait à tout prix trouver
la bonne lumière pour poser les mers
à leur place sur la carte et ne pas
déborder. J’avais dix ans et

plus de voyages dans mes poches
que les grands navigateurs, et si
je consentais à échanger la Sierra

Leone contre la Yakoutie, c’est que
vraiment la dentelle de neige
autour du timbre était la plus forte.


I


Da bambino, sapevo quanto partire sia
dolce per non aver mai lasciato la barca
delle colline, mai solcato altro orizzonte
che la pioggia quando chiude il mattino,

e che a ogni costo dovevo trovare
la giusta luce per porre i mari
al loro posto sulla carta e non
debordare. Avevo dieci anni e

più viaggi nelle tasche
dei grandi navigatori, e se
acconsentivo a scambiare la Sierra

Leone con la Jacuzia è perché
davvero la dentellatura di neve
attorno al francobollo era il più forte.



Pour Yves Bergeret

Si j’ai vraiment vécu cette vie ou bien
seulement rêvassé dans la lumière
qui baigne ce bureau sous la mer des toits,

si c’est ma lampe seule qui brouillait
les signes en chemin, ou la fatigue encore
d’attendre que la pluie cesse

sa vaine dactytographie sur la vitre,
qui peut le dire et qui me refuser
d’avoir un jour marché sur la mer,

renversé le bleu qui lave les oiseaux
et dilapide l’or du tremble avec le mort
en cachette des voisins ? Qui

sinon cet étranger en moi comme un enfant
courant après son ombre, mais tendues
mais l’âme plus courbée que celle du prodigue

soignant ses porcs dans la maison d’exil.




Per Yves Bergeret

Se ho davvero vissuto questa vita oppure
soltanto fantasticato nella luce
che inonda quest’ufficio sotto il mare dei tetti,

se è solo la mia lampada a offuscare
i segni in cammino, o la fatica ancora
di attendere che la pioggia smetta

la sua vana dattilografia sul vetro,
chi può dirlo e chi non riconoscermi
d’aver un giorno camminato sul mare,

rovesciato l’azzurro che lava gli uccelli
e dissipato l’oro del tremolo con la morte
in sordina dei vicini? Chi

se non questo straniero in me come un bambino
che insegue la sua ombra, con le mani tese
ma l’anima più curva di quella del prodigo

che si occupa dei porci nella casa dell’esilio.


Si j’ai reçu promesse un jour d’un autre ciel
que celui qui vous coupe les bras, je l’ignore.
Comme vous je souffre la tempête et le froid
et la fatigue insomnieuse ; le désert me traverse,

l’absence des visages, tous ces poings de pierre
et le martèlement des vivants dans le labyrinthe.
Oui, comme vous j’ai peur d’atteindre au bout
du couloir, comme un nageur touche le fond,

de connaître que tout ici fut vain, chute,
faux miracle, qui ne portait l’homme au-dessus
de lui-même, là où la ceinture des ombres
se détache du cœur et tombe

avec la nuit parmi les accessoires.


*

Se un giorno ebbi promessa d’altro cielo
da quello che vi taglia le braccia, lo ignoro.
Come voi patisco la tempesta e il freddo
e la fatica insonne; mi traversa il deserto,

l’assenza di volti, tutti questi pugni in pietra
e il martellio dei vivi dentro il labirinto.
Sì, come voi temo di raggiungere la fine
del corridoio come il fondo un nuotatore,

di scoprire che tutto qui fu vano, caduta,
falso prodigio, che non portava l’uomo oltre
se stesso, là dove la cintola d’ombre
dal cuore si stacca e discende

con la notte nell’irrilevante.


Guy Goffette è nato il 28 aprile 1947 a Jamoigne, Lorena belga, in una famiglia di operai. Ha studiato alla scuola normale libera di Arlon, dove è stato allievo di Vital Lahaye, poeta e spirito libero che lo ha profondamente influenzato. Nel 1970, a Harnoncourt, nella punta meridionale del Belgio, ha iniziato una carriera d’insegnante durata 28 anni. Nel 1971 ha pubblicato le sue prime poesie, raccolte sotto il titolo Quotidien Rouge. Nel 1980, in collaborazione con altri poeti, ha fondato la rivista letteraria «Triangle», di cui è stato per sette anni il principale artefice. Nel 1983 ha creato le edizioni de L’Apprentypographe, cui si sono associati autori come Umberto Saba e Michel Butor. Nel 1988 gli sono stati assegnati il Premio della Communauté Française e il Premio Mallarmé per la raccolta poetica Éloge une cuisine de province. Nel maggio 2001 gli è stato assegnato il Grand Prix de la poésie della Académie Française per l’insieme delle sue opere. Grand prix de Poésie de l’Académie française (2001), il Prix Félix-Denayer de l’Académie royale de Belgique (2001), il Prix Goncourt de la Poésie (2010).
Tra le sue opere poetiche ricordiamo: La vie promise (1991); Le pêcheur d’eau, (1995); Verlaine d’ardoise et de pluie (1996); Elle, par bonheur, et toujours nue (1998); Partance et autres lieux suivi de Nema Problema (2000); Oiseaux, 2001; Un manteau de fortune (2001); Un été autour du cou, 2001; La vie promise précédée de Éloge pour une cuisine de province (2000); Solo d’ombres, précédé de Nomadie (2003), L’adieux aux lisières (2007), tutte pubblicate da Gallimard.




JORGE REIS-SA, da Istituto di antropologia

Senta-te aí


A cadeira está vazia, um corpo ausente não aquece
a madeira que lhe dá forma. E não ouço o recado
que me quiseste dar, nem a tua voz forte que grita
meninos na hora de acordar. Ouço o teu abraço, no
corredor, em Gaia, e os olhos molhados pela inusitada

despedida. O sol foge. Mas o crepúsculo desenha
a sombra que tenho colada aos pés. Ou o espelho,
coberto com a tua face. Pai: a minha sombra és tu.


Siediti lì


La sedia è vuota, un corpo assente non scalda
il legno che le dà forma. E non sento il messaggio
che mi hai chiesto di dare, né la tua voce forte che grida
ragazzi all’ora del risveglio. Sento il tuo abbraccio, nel
corridoio, a Gaia, e gli occhi inumiditi dall’insolito

congedo. Il sole fugge. Ma il crepuscolo disegna
l’ombra che ho incollata ai piedi. O lo specchio,
coperto dal tuo volto. Padre: sei tu la mia ombra.




Embalar o Mar


Para a Mafalda Veiga


E se eu me sentasse na areia, em contemplação?
Como me aconselhou o médico há pouco mais de dez
anos, era eu um corpo juvenil e insensato vendo a vida
de um pai dissolver-se nas paredes assépticas de um
hospital. Ele chamou-me ao lado, à minha insistente
pergunta o que podemos nós fazer, senhor doutor,

o que podemos nós fazer, ele respondeu vá sentar-se
junto ao mar, vá ver o sol cair no horizonte, inspirar
o som das ondas a plenos pulmões. Não houve, depois
deste conselho, dia que passasse em que eu, sentado
na areia em contemplação, não me lembrasse desse
médico apaziguador. Não nesse dia agoirento de
Dezembro, em que a minha ânsia filial lhe esconjurou
as palavras: depois, quando a morte chegou inevitável

e tudo o que podíamos fazer era viver. Vou embalar
o mar nos gestos e nas palavras do meu pai, sentado
na memória da nossa viagem à Nazaré e imaginar ser
possível voar se saltasse inexcedível do penhasco que
guarda a cidade do vento norte.


Cullare il mare


Per Mafalda Veiga


E se mi sedessi sulla sabbia, in contemplazione?
Come mi consigliò il medico poco più di dieci anni
fa, ero un corpo giovane e stolto che vedeva la vita
di un padre dissolversi tra le pareti asettiche di un
ospedale. Mi chiamò al suo fianco, la mia insistente
domanda cosa possiamo fare, signor dottore,

cosa possiamo fare, lui rispose va a sedere vicino
al mare, a vedere il sole calare all’orizzonte, a inspirare
il suono delle onde a pieni polmoni. Non ci fu, a seguito
di quel consiglio, un giorno trascorso senza che io, seduto
sulla spiaggia in contemplazione, non ricordassi questo
medico pacificatore. Non in quel giorno maledetto di
dicembre, in cui la mia angoscia filiale gli scongiurò
le parole: dopo, quando inevitabile giunse la morte

e non potevamo far altro che vivere. Vado a cullare
il mare nei gesti e nelle parole di mio padre, seduto
nella memoria del nostro viaggio a Nazareth e immaginare
sia possibile volare con un salto insuperabile dalla rupe che
protegge la città dal vento del nord.



David Bowie
[Heroes]


Não é do pai que falo – do amigo. Das conversas
que ficaram por cumprir porque a morte se interpôs
e as não permitiu. Do Lancia Delta que eu achava nos
idos anos noventa o carro mais lindo do mundo e que
ele, sapiente, retorquiu numa viagem luminosa

é demasiado semelhante a uma carrinha. O meu pai
não gostava de carrinhas. Mas não é dele que falo –
do amigo. Aquele que à entrada da salinha me via
vibrar com o David Bowie a cantar I, I wish you could
swim, like dolphins, like dolphins can swim vestido

de verde-alface. O David Bowie é o único homem
no mundo a quem um fato verde-alface fica bem.
O meu pai o único que consegue Ficar para sempre
à entrada da salinha.


David Bowie
[Heroes]


Non è del padre che parlo – dell’amico. Delle conversazioni
che restarono da compiersi perché la morte s’interpose
e non le permise. Della Lancia Delta che ritenevo negli
anni Novanta l’auto più bella del mondo e che
lui, saggio, ribatté in un viaggio luminoso

è troppo simile a una station wagon. A mio padre
non piacevano le station wagon. Ma non è di lui che parlo –
dell’amico. Quello che all’ingresso della stanzetta mi vedeva
vibrare con David Bowie cantando I, I wish you could
swim, like dolphins, like dolphins can swim vestito

in verde lattuga. David Bowie è l’unico uomo
al mondo cui un abito verde lattuga stia bene.
Mio padre l’unico che riesca a restare per sempre
all’ingresso della stanzetta.

Jorge Reis-Sá è nato a Vila Nova de Famalicão, una piccola città nel Nord del Portogallo, nel 1977. Ha studiato Astronomia e Biologia. È poeta, scrittore, critico e consulente editoriale. Ha fondato la Quasi Edições, che ha diretto dal 1999 al 2009 ed è stato direttore editoriale di Babel dal 2010 al 2013. Ha curato numerose antologie, tra cui ricordiamo Poemas portugueses, la più completa antologia di poesia pubblicata in Portogallo. La sua opera poetica è racchiusa nel volume Instituto de Antropologia (2013). Ha inoltre pubblicato i romanzi Todos os dias e O Dom, e i libri di racconti, Por ser preciso e Terra. È assiduo collaboratore di vari giornali e riviste portoghesi, come “Público”, “LER” e “Sábado”, tra gli altri. I suoi due romanzi sono stati pubblicati in Brasile dalla Record e suoi testi e libri sono stati tradotti in italiano, spagnolo, inglese e lituano. Ha appena terminato il suo terzo romanzo. Vive a Lisbona con la moglie e il figlio.