martedì 29 maggio 2018

"Una donna" di Annie Ernaux: un'ombra larga e bianca sopra di me

C'è un contrasto forte tra il titolo indeterminativo Una donna, pronto ad accogliere proiezioni e traslazioni, e la conoscenza che il lettore farà della protagonista di questo brevissimo libro di Annie Ernaux, l'ultimo proposto in ordine di tempo da L'orma, editore italiano che si è incaricato delle traduzioni di questa fortunata scrittrice francese (pp. 112, euro 13, traduzione di Lorenzo Flabbi). La protagonista è infatti la madre di chi scrive, evocata con una scrittura che trova il proprio incipit qualche giorno dopo la morte e affonda il proprio cominciamento in una telefonata di un infermiere di una casa di riposo di Pontoise, Île-de-France, che comunica il decesso avvenuto la mattina di un 7 aprile, lunedì. Tempo fa, scrivendo de Il posto, altro suo breve libro, mi interrogavo, anche con qualche perplessità, sulle ragioni del successo di questa scrittrice. Voglio dire, ad esempio, che se leggo Ernaux mi pare di fare un percorso simile a quello che Luigi Tenco, nell'orbita della canzone italiana, ha fatto tanti decenni fa. Non mi pare un'esagerazione questa. Chiaro, quella era canzone, questa di Ernaux è scrittura. Ora comprendo che non ha molto senso soffermarsi su questi aspetti o rinverdire questioni da manuale scolastico, come quella del "best seller di qualità", anche se i legacci che uniscono godibilità e qualità non possono non starci a cuore. Annie Ernaux ha mostrato, e non solo con questo libro, di coinvolgere i lettori con una prosa che puntella il proprio voler esserci tra l'auto-bio-grafia, la letteratura, la sociologia e persino un'analisi socio-economica sui generis. Nei suoi libri si rilegge la storia di quasi un secolo attraverso una scrittura lenticolare che ritorna spesso sulla storia di una famiglia. È qui che continuamente Ernaux saccheggia il proprio immaginario per la parola, salvo poi confessare, proprio in questo corto libro, di voler insultare le persone che le chiedono notizie sul suo prossimo libro.

Chi legge Una donna fa la conoscenza di più parti della Francia, dalla Normandia con le sue fabbriche di inizio Novecento all'hinterland della capitale, segue la storia di questa donna nata nel 1906 attraverso più decadi, con particolare indugio nella vita di commerciante, consumata nella classica configurazione casa-bottega che abbiamo conosciuto anche qui. Si giunge, in mezzo a una miriade di descrizioni, a un primo incidente stradale grave in età avanzata e poi all'Alzheimer. La madre è al centro della scrittura, ma anche Ernaux è al centro di una scrittura che sospinge e ritira come la marea, con lievi ellissi, corpose analessi o fugaci prolessi. Curioso è che quando deve ricorre al discorso diretto Annie Ernaux elida verbi come "disse", "esclamò" o "urlò", dando solo una minima coordinata di quel frammento di voce che si incastra improvvisamente nel tessuto del memoir. Raramente si concede aperture che fuoriescono dal materialismo dell'analisi, come ad esempio potrebbero essere quelle che sconfinano nei mondi del sogno. Un esempio è questo, e capita verso la fine:
Nei dieci mesi in cui ho scritto l'ho sognata quasi ogni notte. Una volta ero sdraiata sull'acqua, in mezzo a un fiume. Dal mio ventre, dal mio sesso di nuovo liscio come quello di una bambina, si dipanavano piante in filamenti che galleggiavano, molli. Non era soltanto il mio, di sesso, era anche quello di mia madre.
Ad un certo punto pare sia l'autrice stessa a voler offrire un'imbeccata per interpretare quanto ha scritto nei dieci mesi, ammettendo di aver scordato nel percorso della scrittura alcuni dettagli delle prime parti del testo, scritte dopo quella telefonata, il funerale e la sepoltura:
Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominanti di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata.
Ernaux scrive che non vorrebbe sapere più niente sulla madre dopo la sua morte, niente oltre quello che sapeva quand'era viva, insomma vorrebbe congelare la conoscenza a quando c'è stata compresenza nel mondo. L'immagine materna sgattaiola allora come "un'ombra larga e bianca sopra di me". E questo libro, che a un certo punto viene considerato "un lusso" poter scrivere avendo il tempo e i mezzi dopo la perdita della madre, si apre sotto un'epigrafe da Hegel che vale la pena riportare in chiusura: C'è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa nel dolore del vivente è piuttosto una esistenza reale.

sabato 26 maggio 2018

"L'esercizio del distacco" di Mary Barbara Tolusso nella lettura di Matteo Giancotti

Questa recensione di Matteo Giancotti a L'esercizio del distacco di Mary Barbara Tolusso (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 14) è apparsa la scorsa settimana su "La Lettura" del "Corriere della sera". 

Giovedì 31 maggio alle ore 18:30 alla Libreria Moderna Udinese si terrà una presentazione del libro nella quale Lorenzo Marchiori dialogherà con l'autrice.


Al centro del racconto di Mary Barbara Tolusso, L’esercizio del distacco, c’è un messaggio che riceve forza non solo dal contenuto ma anche dalla sua variata e insistita ripetizione. Questo procedimento, più lirico che narrativo, è reso efficace dalla competenza che l’autrice ha maturato nella contaminazione dei generi: quando scrive poesie, accenna profili e situazioni narrative; quando scrive prosa, rallenta o blocca la progressione del racconto con la continua variazione lirica di pochi motivi ben definiti. Indubbiamente Mary B. Tolusso sa farsi leggere, nell’uno e nell’altro versante della sua scrittura: in poesia agganciando temi quasi glamour, in prosa costruendo – più che una lingua – un ritmo dalla fisionomia precisa, che dopo alcune pagine diviene identificabile, penetrante, e prende per mano il lettore. E’ un «sound» moderno ed elegante, che non ha nulla di particolarmente ricercato, se non le sue sprezzature: «Eravamo una generazione di raffinati prigionieri in fila per la doccia o per la mensa, con molte regole e molto futuro».

Così la voce narrante di questo racconto definisce il «noi» che ne è protagonista: un gruppo di ragazzi che subiscono con dolce passività un internamento educativo in un collegio eccellente, dove imparano a diventare padroni del proprio destino, già segnato dall’importanza o dalla supponenza dei nomi e cognomi: «Dionisio Malaspina, Rebecca von Habsburg, Gabriele della Torre, nomi di angeli, di dei, nomi sacri». In questa comunità che traghetta verso il nuovo millennio un’élite selezionata con criteri «ancien régime» (quale miglior sede, per il collegio, delle alture che circondano Trieste?) si distingue e riconosce per affinità un sottogruppo, formato dalla protagonista (Sofia Foscarini), Emma e David.
«Io, Emma e David camminavamo a lungo». In questa frase c’è già tutto: l’imperfetto che sfuma il tempo storico in un gesto eterno, l’autosufficienza e la chiusura dei legami adolescenziali, la seduzione indifferenziata che si trasmette dall’uno all’altro dei vertici del triangolo senza ostacoli di genere. In questo tempo dilatato, specialmente dall’effetto della memoria che tende a ingigantire i pochi mesi che si considerano realmente vissuti nella propria vita, i riferimenti cronologici non sono evidenziati ma si lasciano recuperare: Sofia ha 16 anni quando, intorno al 1995, il suo legame con Emma e David tocca, tra le mura del collegio, i momenti più intensi; ne ha venti di più quando si mette a scrivere la storia di quell’amicizia collegiale e di ciò che ne è seguito.

Il libro – che inaugura una nuovo corso per la narrativa italiana Bollati Boringhieri, sotto la guida di Andrea Bajani – è diviso in due parti, la prima senza titolo, la seconda significativamente intitolata «Nel tempo». Se ne deduce che la prima parte, quella dedicata al periodo della vita in collegio, è da considerare fuori dal tempo e da ogni possibile cronologia, poiché l’adolescenza che vi si racconta è stata così intensamente (e insaziabilmente) vissuta che talvolta la protagonista dubita che faccia davvero parte della sua storia personale: «A momenti pensavo che nulla fosse davvero esistito, né i miei ricordi, né il collegio, come se fossi in un perenne letargo». Questo è il messaggio che Mary B. Tolusso continua a far ripetere alla sua Sofia Foscarini in ogni pagina: la vera vita è quella dell’adolescenza, durante la quale prende forma nella memoria un tempo mitico che lentamente continua a irradiarsi e a distillare il suo senso nell’età adulta, che altrimenti si rivelerebbe qual è, vuota e insopportabile.

 L’atmosfera del collegio dà una caratterizzazione peculiare a questo mito dell’adolescenza che accomuna la Tolusso a molti autori (tra i quali Goffredo Parise, non ininfluente in questo libro): i ricchi ospiti vengono educati al «distacco» da ogni troppo accesa passione, da ogni legame troppo forte, acquisizione fondamentale per una migliore gestione del potere che certamente avranno nella vita adulta. Sofia, Emma, David, che accettano, senza protestare, la garbata coercizione della signorina Stein e di suor Sara, certo non hanno una giovinezza turbolenta ma le loro passioni, paradossalmente, sono anche più cariche di come sarebbero state fuori dal collegio. Sotto la morbida pressione dell’ambiente, il senso di prossimità e insieme di inafferrabilità della vita, tipico dell’adolescenza, diventa una specie di calore bianco che fonde l’esperienza; la realtà scompare, ma il suo alone cresce e acceca.

I tre protagonisti declineranno ognuno a proprio modo, nelle rispettive esistenze post-collegiali, l’educazione istituzionale e quella sentimentale ricevute in quegli anni, ma fin da subito Sofia si distingue dai compagni per la ricerca di una dimensione meno ovattata, più reale. Le sue fughe notturne dal collegio, in direzione del confine, la portano in uno spazio senza regole, apparentemente ambiguo e pericoloso, dove però il delirio di un’energia senza sbocchi può trovare, se non altro, un argine. Anche per l’organizzazione simbolica dello spazio, come per quella del tempo, Mary B. Tolusso ha costruito un congegno narrativo semplice e funzionale.

Matteo Giancotti

giovedì 24 maggio 2018

"Tra le pieghe dell'orologio" di Heidi Julavits: siamo composti da liste

Heidi Julavits è una scrittrice americana nata a Portland nel 1968, editor della nota rivista bimestrale "The Believer" (con Dave Eggers), con un curriculum che si potrebbe dire in piena regola e il cui nome è presente in quelle liste che poi influenzano molte cose, comprese le traduzioni. Insegna scrittura a Columbia e in italiano ci sono diversi suoi titoli disponibili. Incominciò Baldini&Castoldi con Il palazzo dei cristalli nel 2001, poi Dalai con L'effetto di vivere al contrario proposto nel 2004, poi venne Elliot con The Vanishers nel 2012. Da due mesi abbondanti è disponibile anche la traduzione, curiosa sin dal titolo, di The Folded Clock: A Diary, che nel catalogo di 66thand2nd prende il titolo Tra le pieghe dell’orologio (pp. 280, traduzione di Gabriella Tonoli, euro 17). La traduzione del titolo ha almeno due motivi degni di nota: da un lato si passa da "l'orologio piegato" a "tra le pieghe dell'orologio" e dall'altro si elimina la parola "diario", pericolosissima per l'editoria italiana, dove tutto deve un po' rientrare nella logica del romanzo. Proprio quest'ultimo dato è interessante, perché a tutti gli effetti questo libro è un diario, con le date, anche se poi non vi è sempre uno stretto ordine cronologico nell'apparizione dei giorni. Si può persino leggere a singhiozzo come si legge un diario, senza timori di perdere il filo tra un giorno e l'altro della vicenda o tra un giorno e l'altro del nostro filo di lettura. Inoltre un avvertimento: non vi è necessariamente una trama, ma tale avvertimento rischia di suonare superfluo ai frequentatori di diari. Insomma, ci sono degli elementi che rendono questo scritto curioso, sebbene la parola "diario" e la mancanza di una trama evidente siano due fattori che possono inquietare gli addetti ai lavori quando si prova a veicolare e promuovere un libro di prosa, il quale per rassicurare dovrebbe sempre riportare in copertina la parolina magica "romanzo". Suppongo che sia anche per questo motivo che la parola "diario" non appare nella copertina e nella titolazione italiana.

Una volta aperto il libro e incominciata la lettura non si scappa, e si ha la nitida esperienza di lettura di un diario, che come quelli dei bambini o degli adolescenti di un tempo attacca ogni giorno con l'avverbio di tempo più diffuso nei diari: oggi. Questo dato è anche un vantaggio per un lettore che frammenta il libro in varie dosi. In un flusso così tratteggiato è la scrittura - assieme alla lingua resa da Gabriella Tonoli - che torna protagonista della "vicenda narrata", la quale diventa un accumulo di liste di cose fatte, comprate, desiderate, pensate, dette o non dette, scritte e non scritte. Ecco, tutti noi siamo composti da liste, molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Liste, sì, banali liste, anche se banali non lo sono affatto. Il primo "post" del libro allora è una riflessione sull'unità di tempo minima: se fino a un certo punto della vita questa poteva coincidere con il giorno, nel caso di Julavits è la settimana a diventare l'unità di misura fondamentale del tempo. Il giorno non ha più senso, non è più significativo per misurare il tempo, anche se poi la scrittura di questo diario procede effettivamente per scansioni giornaliere, come vuole la tradizione dei diari. E proprio qui si sente il rumore di fondo dello sfregamento tra quanto offre la vita, la settimanalità per l'appunto, e il flusso della quotidianità: è come se il palinsesto della settimana, divenuto preponderante da adulti, si scontrasse con quel che resta del palinsesto del giorno che via via perde di senso e di potere nel nostro immaginario, senza smettere tuttavia di portarsi dietro quell'alone che il giorno, immenso e abbagliante, aveva nelle nostre infanzie. Mi pare sia qui uno dei nuclei più curiosi che questo libro mette in scena.

Giunti a questo punto credo sia utile dar conto di qualche incipit dei "post" giornalieri del diario di Julavits, lasciando al lettore la curiosità di scoprire come si sviluppa e si avvita un libro che, nel suo complesso, si pone come proposta alternativa al protagonismo sempre più insostenibile e goffo del romanzo. Mica sto sostenendo che il romanzo sia morto o poco interessante, ma si saluta positivamente un libro che dimostra come, così vicini al terzo decennio degli anni Duemila, non sia poi tanto necessario inquadrare la maggior parte degli scritti di invenzione in prosa dentro la cornice del romanzo acchiappatutto. Ecco allora una veloce campionatura, o per meglio dire un'ulteriore lista:

- ______ Oggi mi sono chiesta, Qual è il valore di un giorno? [...]
______ Oggi un'amica mi ha chiesto: "Sono pazza?". [...]
______ Oggi, o meglio stasera, io e mio marito guarderemo The Men Tell All[...]
______ Oggi sono andata alla biblioteca della Columbia per la prima volta in quattro mesi. [...]
______ Oggi sono andata in bici in un negozio vintage. Ho comprato: [segue lista]
______ Oggi ho ordinato dieci stetoscopi giocattolo a una società di forniture per feste. L'ho fatto per telefono. [...]
______ Oggi ho spettegolato con una nuova amica sulla malattia di una donna che a stento conosciamo. [...]
______ Oggi una mia amica mi ha raccontato della sua cotta per il suo analista gay. [...]
______ Oggi ho sentito la sirena di un'ambulanza. A New York le sirene non allarmano, ma in Maine sì. [...]
______ Oggi ho indossato una giacca che non indossavo da anni. [...]
______ Oggi sto recensendo Le carnet d'adresses, dell'artista francese Sophie Calle. [...]
______ Oggi sono andata a bere con una ex studentessa che mi ha chiesto, "Sei orgogliosa delle tue mani?" [...]
______ Oggi ho cercato di consolare mio figlio. [...]

(E così via, così sia.)

lunedì 21 maggio 2018

da "Tutte le poesie" di Fernando Bandini

Una poesia da #70


Solo una breve nota e una poesia per ricordare che, a quasi cinque anni dalla morte avvenuta il giorno di Natale del 2013, Mondadori ha mandato in libreria l'Oscar Baobab di Tutte le poesie di Fernando Bandini (a cura di Rodolfo Zucco, introduzione di Gian Luigi Beccaria, pp. 704, euro 28). Il libro contiene anche un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il poeta vicentino fu tra i pochi a fare poesia in tre lingue: italiano, dialetto e latino, solco illustre e alla fine mai dimenticato della tradizione, nel quale Bandini si è inserito, brillando con pochissimi altri. La presenza del latino nella poesia di Bandini è per Andrea Zanzotto "sigillo di morte eppure indizio albale". Torneremo a breve sugli aspetti segnatamente linguistici della scrittura di Fernando Bandini. L'Oscar Mondadori ha evidentemente il merito di rendere fruibili, all'interno della stessa rilegatura, le diverse pubblicazioni di poesia che in vita, soprattutto in anni più vicini a noi, passarono per la collana di Garzanti. Tra l'altro - sia detto en passant - pare che Garzanti e altri editori in vista vogliano ritentare un approccio alla poesia dopo l'abbandono degli ultimi anni (si veda anche il caso di Bompiani e, in misura minore, di Guanda, che però si limita a ripubblicare le vecchie glorie). A qualcuno verrà la voglia di trarre qualche conclusione da questo recente riavvicinamento di certe sigle editoriali alla poesia, tuttavia una certa prudenza mi spinge a non vederci nulla di particolare o entusiasmante, se non un tentativo esplorativo tra altri: si prova, si vede se funziona e soprattutto cosa funziona. In fondo perché non riprovarci anche con la poesia in un contesto dove si testano continuamente nuovi prodotti? Naturalmente posso sbagliare, come spesso mi succede e come mi auguro, ma il presentimento è circa questo.

Torniamo al nostro volume. Rodolfo Zucco, che alla scuola padovana di stilistica e metrica si è formato, nelle stesse sale dove erano operativi il sempre vivace Lorenzo Renzi e Bandini stesso, ha avuto modo di concentrare e affidare a questo libro un'attenzione che aveva già disseminato altrove. Ne esce una pubblicazione lodevole, di cui temo si parlerà poco nel panorama attuale dove i libri, inclusi quelli di poesia, si fotografano (preferibilmente chiusi per mostrare la copertina) più di quanto si leggano. Le traduzioni da Pindaro, Virgilio, Orazio, Rimbaud, Baudelaire, Daniel, Ausonio e Magagnò, unite alle annotazioni del curatore e alla bibliografia aggiornata danno al libro il senso di una pubblicazione finalmente compiuta e necessaria.

A proposito dell'intersecarsi linguistico di Bandini e dei diversi idiomi che in Bandini si connettono a diversi ordini simbolici, si può ricordare quanto scrisse Andrea Zanzotto in una recensione a Santi di dicembre del 1994 (poi confluita in Aure e disincanti del Novecento letterario):
Accanto la lavoro compiuto da Bandini in un italiano relativamente stabile e pacifico, le sue aspre e cuposcintillanti forme dialettali risultano connesse ormai a qualcosa di spettrale e persino vampirico, popolano le notti di figure puerili che lasciano tracce di sangue entro pericolose ragnatele di neve che le riportano giuste allo horror che viene proposto oggi. Si introducono anche incantate filastrocche, echi di remote forze esorcizzanti, che però non distraggono dall'oscuro sentimento della fine del dialetto.
E proprio dal trilingue Santi di dicembre è preso il testo proposto in chiusura, Negozi di uccelli, che presta il titolo anche alla prima sezione del libro.


NEGOZI DI UCCELLI


Quando mi trovo in città sconosciute
cerco negozi di uccelli:
l'ho fatto a Ginevra a Londra
a New York ad Hong-Kong
(dentro c'è un piccolo vento, nervosi
colori saettano in angoli d'ombra).

Ma non ho visto
in Asia shama d'Asia
in Europa cutrettole d'Europa
in America mimi poliglotti d'America:
sempre la stessa alata confraternita
di ogni parte del mondo
in gabbie made in Japan.

venerdì 18 maggio 2018

Luigi Sampietro e la passione della letteratura

Definire "livre de chevet" La passione della letturatura di Luigi Sampietro che Nino Aragno Editore ha pubblicato in tempi recenti e che di pagine ne conta 778 potrebbe apparire quantomeno bizzarro. Eppure, per chi legge gli interventi che da anni (dal 1992, per la precisione) Sampietro pubblica sulle pagine di "Domenica" de "Il Sole-24 Ore", questo libro può divenire la classica raccolta antologica, la lettura a portata di mano, da consultare per un'esigenza particolare, da aprire rabdomanticamente oppure da scorrere alla ricerca di un titolo nuovo da leggere recensito anni or sono oppure di un titolo più o meno scordato. Insomma, non è necessariamente quel libro che oggi si legge dall'inizio alla fine. Lo dico perché nel mio caso non è stato così e non credo potrà mai essere così. Sinora l'ho sfogliato, ho trovato articoli di anni fa, ho capito che si può percorrere a salti e diagonali in futuro. La natura non sistematica di questo libro, unita alla sua sostanziale funzione di "raccolta", porta a galla la costanza di dedizione alla letteratura anglo-americana che si è declinata in quasi centocinquanta articoli scritti per la testata già ricordata. Entriamo dunque nei terreni della divulgazione, che purtroppo non è mai abbastanza protagonista dei nostri pensieri, anche se ricopre un ruolo vitale che dovrebbe essere evidenziato. E così come ci sono libri nati nell'orbita accademica che meriterebbero un'azione di divulgazione maggiore perché capaci di toccare temi fondativi con un piglio agile e vitale, così vi sono autori di provenienza accademica che scelgono di abbracciare una via che è già segnatamente indirizzata verso la divulgazione. Sampietro costituisce oggi un esempio ancora molto attivo nel secondo versante e questo libro ne documenta con esaustività il percorso. In lui è ancora vitale l'esercizio della recensione, una tipologia di scritto che quando funziona bene fa spesso la differenza, anche se la recensione oggi è più una questione di breve giudizio accompagnato da 1, 2, 3, 4 o 5 stelle.

Nelle pagine di questo volume troverete pertanto radunati gli articoli che vi sarà capitato di leggere negli anni ne "Il Sole-24 Ore" e potrete soffermarvi sulle opere di molti autori della letteratura anglo-americana di ieri e di oggi. Tra questi i più citati restano Shakespeare, Coleridge, Eliot, Hemingway, Melville, Bellow, Capote, Faulkner, Whitman e l'imprescindibile Walcott, di cui Sampietro fu un precoce conoscitore e sostenitore. La scansione che ha guidato l'operazione di raccolta prevede un primo raggruppamento per scrittori e critici, un capitolo dedicato ai classici, uno a modernisti e moderni, uno ai contemporanei, quindi le conclusioni e un post scriptum. Il titolo che lega con lo spago questi centocinquanta articoli, pur generico, è esatto (gli articoli tra l'altro non sono nemmeno tutti quelli scritti da Sampietro dall'inizio degli anni Novanta). Per Sampietro è la letteratura, anzi l'opera-libro, che dovrebbe rimanere al centro (anche in ambito accademico) e resistere agli assalti che vogliono questa come una appendice tra altre degli studi culturali o Cultural Studies che dir si voglia, giusto per fare un esempio di un paradigma un giorno sostituibile - per definizione - con un altro paradigma. Un libro del genere è un valido contrasto ai tempi che corrono, infettati di posture autoriali poco interessanti e ripetitive. Sampietro, con il piglio del cronista delle cose di letteratura, consiglia essenzialmente titoli, singole opere, nuove traduzioni, in un contesto che originariamente è quello di un supplemento culturale di un giornale nazionale. Attraverso questo percorso di diverse centinaia di pagine che coprono un quarto di secolo, possiamo incontrare diverse porte che si aprono su un libro nuovo, sia questo un classico o un titolo presto tornato fuori catalogo. In un'opera del genere diventa allora utilissimo l'indice dei nomi, che contiene anche i titoli delle opere, chiamato a sigillare il tutto.

lunedì 14 maggio 2018

Vincenzo Fano e le lettere immaginarie di Democrito alla figlia

Vincenzo Fano, nipote del linguista e filosofo Giorgio, è oggi professore di Logica e filosofia della scienza all'Università di Urbino. Ho ascoltato le sue lezioni su Laws and Simmetry di Bas Van Fraassen molti anni fa a Padova, nell'ambito di un corso più ampio dedicato alla legge di natura e alla simmetria, e da allora ne conservo un ricordo netto, bello. Dopo il libro dedicato ai fecondi paradossi di Zenone, proposto qualche anno fa, ora, sempre per Carocci, esce Le lettere immaginarie di Democrito alla figlia. Un invito alla filosofia (pp. 141, euro 13). Si tratta di un insieme assai curioso di lettere inviate da un neo-Democrito, caratterizzato nella propria quotidianità (anche e soprattutto quella del dolore), a una figlia invocata e convocata con affetto. Il dispositivo narrativo è, in questo contesto, interessante e efficace: un filosofo contemporaneo si affida a un filosofo dell'antichità molto noto ma di cui si sa poco, rimandando così a un corpo di pensiero e alla sua tradizione, per traslare la riflessione filosofica sulla contemporaneità. Nel fare questo decide di affidare le proprie righe alla figlia e sceglie di farlo attraverso diverse lettere che, di volta in volta, affrontano le questioni emergenti o ancora sommerse delle principali scienze, delle questioni di sempre e di quelle nuove, con un accento marcato e mai apocalittico sull'assalto della tecnologia sulle nostre vite. Il neo-Democrito allora non è un filosofo di un mondo staccato, ma un filosofo pienamente collocato (e persino meravigliato) nel mondo che la scienza empirica e la tecnologia ci ha stondato intorno. C'è una grande e pressante necessità di riportare la riflessione su questi binari, altrimenti ci perdiamo più di metà della sfera sulla quale camminiamo o della quale vorremmo provare a dire qualcosa.

In queste missive, contraddistinte da un tono disteso, spesso dolente ma anche ironico - nel senso vitale e non nel senso delle degenerazioni triviali dell'ironia - il vecchio Democrito dei nostri giorni affronta via via tutte le scienze, dalla fisica alla matematica, dall'economia alla sociologia, dalla chimica all'astrofisica. Lettera dopo lettera si assiste (e si partecipa) in tal modo a un convincente tentativo di saltellare tra i vari campi del sapere per ricucire una rete di senso che possa anche vivere sopra e sotto gli steccati disciplinari. Ad un livello più generale, impliciti nel testo, troviamo molteplici inviti e ne evidenziamo almeno due: quello a "ripassare" la filosofia antica di cui Democrito è appunto esponente e quello di fare filosofia e non soltanto storia della filosofia (qui la parentesi che si potrebbe aprire è troppo vasta, in particolar modo per il nostro paese). Solo in questo modo la filosofia può ambire ancora a insegnare a pensare, a difendere il pensiero dai pericolosi percorsi di storytelling inscenati nei vari livelli e canali delle nostre vite. La situazione comunicativa che si crea in queste lettere, dove l'elemento della quotidianità, la contingenza oppure il dolore e il farmaco assunto per placarlo entrano pienamente nel corpo del discorso, consentono a questo esperimento di Vincenzo Fano di riuscire persino militante. Concluso questo breve esperimento epistolare, che si apre con l'invito alla figlia a invigilare sé stessa e si chiude con una riflessione sulla possibilità, dopo aver toccato i vari salienti della parabola di umani, si può ritenere che la forma scelta per questo libro sia anche una decisa interrogazione sul senso del pubblicare, del dibattere, dell'argomentare e del discorrere.



giovedì 10 maggio 2018

"Lettere ai genitori" di Claude Lévi-Strauss

Quote #19

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Della casa editrice Il Saggiatore una caratteristica che a buon diritto si può ormai considerare una peculiarità è l'attenzione riposta nella pubblicazione di lettere. Come noto in Italia c'è Rosellina Archinto che sulla pubblicazione delle lettere ha costruito il concetto e il catalogo della propria casa editrice. Naturalmente vi sono altri editori che con attenzione altalenante pubblicano ora quel carteggio, ora quell'antologia di un epistolario, ora quell'intero corpus di lettere di un dato autore. A un occhio esterno, sembra però che Il Saggiatore abbia attivato una costola del proprio catalogo nella quale le lettere coabitano necessariamente accanto ai libri di narrativa, poesia o saggi di prim'ordine (per inciso, recentissima è la riproposizione de Lo spazio letterario di Maurice Blanchot, da tantissimo assente). È curiosa inoltre l'attitudine, opposta alla nostra storia editoriale, di rifiutare quasi il costrutto di collana all'interno di questa casa editrice, che non ricerca la segmentazione e la proliferazione di collane (in certi editori, persino piccoli, la "collanite" è una malattia ormai diffusa). Più o meno tutto il catalogo sta dentro una collana che si chiama "La cultura", con la variazione dimensionale data da "La piccola cultura" (più contenuto, in termini di titoli proposti, è il rilancio della collana "Le Silerchie", di cui si è già scritto in passato).

Dopo le lettere di Barthes, Mann, Proust, Joyce, Wilde, Poe, Mandela e la non trascurabile rosa musicale del catalogo con le lettere di Bartók, Šostakovič, Mahler, Mila, Nono o Toscanini compare anche questo recente Lettere ai genitori 1931-1942 di Claude Lévi -Strauss (pp. 422, euro 37, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli). Prima di dare qualche coordinata sul libro e riportarne un breve passo vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che alle lettere Il Saggiatore non ha dedicato una collana specifica. Anno dopo anno la composizione del catalogo sembra ci suggerisca che le lettere rientrano a pieno titolo nel corpus di testi da considerare quando ci si avvicina all'opera di un dato autore. Mi sembra una posizione editoriale nitida, tra l'altro messa in pratica con la produzione di  libri e senza tanti proclami, manifesti o anticipazioni come va di moda fare oggi tra social o blog-ciclostile.

Il volume che Il Saggiatore ha dato alle stampe raccoglie e propone per la prima volta ai lettori italiani le lettere che l'antropologo dei Tristi tropici scrisse in un decennio chiave della propria vita e della storia mondiale, tra il 1931 e il 1942 (il 1931 è l'anno della laurea in filosofia). Sono anni terribili ma fervidi di viaggi e studi e la specola delle lettere consente di avvicinare lo studioso nei suoi passi di pensiero, nei momenti in cui si formano alcune delle idee importanti che costituiscono il suo lascito, tra cui quelle sulla parentela. Oggi - lo sappiamo - non è più un gran momento per lo strutturalismo e le sue diramazioni e da più parti si cerca di criticare, se non addirittura di abbattere, la sua eredità, la quale è tutt'altro che monolitica. La lunga battaglia tra storicismo e strutturalismo non è mai del tutto conclusa. Colui che forse suo malgrado è considerato un baluardo dello strutturalismo, nelle diramazioni dell'antropologia, resta una lettura difficilmente trascurabile, anche per comprendere tutta una serie di pensatori e scrittori che a lui, nel Novecento, ha fatto continuo ritorno. La lettera che si propone è abbastanza breve e più che altro funge da spia di un interessante nucleo di missive partite da Strasburgo durante una parentesi militare.



S 11
Caserma Stirn
158º reggimento di fanteria
Strasburgo, sabato [novembre 1931]
Cari tutti e due: che gioia, domani esco! Abbiamo inscenato una breve commedia ridicola: tutta la compagnia che sfilava per il saluto al Capitano. Solo una quarantina sono stati trattenuti per garantire il picchetto antincendio. Ma riprendo il racconto dall’inizio. Ieri, vera giornata militare: appello alle 7 con armi ed elmetto per una marcia annullata alle 7 e 05 a causa di una rivista in divisa 2, ritirata la sera prima, con tutti i bottoni da sostituire e nemmeno uno da mettere! Ritiriamo i bottoni regolamentari alle 8. La rivista è alle 9, e dobbiamo scucirne e ricucirne trentasei! Alle 8 e 05 chiamati in magazzino per ritirare dei guanti di lana, della cera e del sapone. Trattenuti ad aspettare fino alle 9, ora della rivista; corsa terribile e finalmente alle 10 la rivista può iniziare, ma in quale stato! Impossibile ricordarmi delle occupazioni del pomeriggio… Ah sì! Un’altra rivista, ma questa volta fatta dal Capitano. Stamane esercitazione in cortile, nel pomeriggio rivista (di nuovo) e conferenza dell’ufficiale medico sulle malattie veneree – tenuta con una voce talmente flebile che non ho sentito nulla. Ricevuti due inviti a colazione: del Generale e di Coralie. Accettato il primo (ricevuto per primo) e spiegato a Coralie che andrò subito dopo colazione. Dimentico subito ogni cosa, non appena ho finito di farla; questa vita mi scivola addosso automaticamente, e a ogni ora non so che cosa ho fatto l’ora precedente. Tanto meglio! Ho cambiato camerata per quella degli allievi caporali. Grande, siamo sedici, ma più comoda (c’è anche un tavolo). Ho persino fatto una partita a bridge, poco fa.
Contento di sapere che Papà sta meglio. No, Mamma, inutile mandarmi i giornali prima di avere una stanza. Se solo potessi trovarla domani! Non c’è acqua da due giorni. Bisognerà che compia dei prodigi per riuscire a radermi! Dovrò quindi abbreviare la lettera di conseguenza.
Cercherò domani di darvi mie notizie,
Claude

martedì 8 maggio 2018

La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920). Un'intervista di Franco Baldasso a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto

Librobreve intervista #82

Di seguito potete leggere un'intervista a Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè e Michele Sisto, autori del libro La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) recentemente pubblicato da Quodlibet (pp. 320, euro 22). L’autore dell’intervista è Franco Baldasso, che insegna Italian Studies al Bard College di New York. Ringrazio intervistati e intervistatore per la cura e la collaborazione.


D.: Sarebbe bello cominciare l'intervista con il racconto delle persone, degli incontri, delle discussioni che hanno fatto partire questa importante iniziativa.

R.: Grazie per questa domanda, che ci permette di aprire una finestra sul modo con cui abbiamo lavorato nei cinque anni del progetto di ricerca di cui questo libro è il risultato. Come speriamo risulti chiaro a chi ci leggerà, si tratta di un libro concepito e discusso da un gruppo, non della raccolta di cinque saggi di cinque autori su uno stesso argomento. Dal 2013, anno di avvio del progetto, ci siamo incontrati regolarmente, ogni mese, per ragionare insieme sulla nostra domanda fondamentale: che cos’è stata la letteratura tedesca in Italia nel corso del Novecento?
Man mano che procedevamo, ci siamo resi conto che le nostre forze non bastavano a seguire tutte le piste – o che comunque avevamo bisogno di confrontarci con chi aveva lavorato o stava lavorando sugli stessi argomenti o su argomenti diversi con obiettivi simili ai nostri. Nell’arco dei cinque anni, perciò, abbiamo spesso invitato alle nostre riunioni gli studiosi di cui ci interessavano le ricerche: e ci siamo accorti che l’interesse – quasi vorace –  che abbiamo sempre manifestato per il lavoro degli altri ha creato dei legami forti anche con studiosi esterni al gruppo: forse perché, per come è strutturato oggi il lavoro all’università, passare un pomeriggio intero a raccontare un proprio libro, o un saggio, o il progetto di un libro o di un saggio è un’occasione rara. E infatti molti dei nostri “ospiti” sono poi diventati collaboratori: c’è chi ha accettato di prendere in gestione parti del database di traduzioni di letteratura straniera in Italia che abbiamo costruito, allargandolo a letterature diverse dalla tedesca; c’è chi si è messo studiare la traiettoria dei più importanti mediatori di letteratura in Italia, che confluiranno nel portale che ospita la banca dati; c’è chi ci ha letto, o ci ha dato da leggere i suoi lavori, chi ha partecipato ai nostri seminari o ci ha invitato a convegni. In questi cinque anni abbiamo insomma davvero lavorato “in gruppo”: cosa che, perlomeno in ambito umanistico, in Italia si fa di rado, perché è diffusa un’idea del lavoro di ricerca come tenzone singolare, individuale, con un grande testo o un grande problema.

D: Un lavoro del genere ha bisogno di istituzioni che siano sensibili e che possano garantirvi un'opportuna copertura finanziaria - oltre che gli strumenti della ricerca. Potresti raccontarci come tutto questo è avvenuto? (Anche per raccontare un modello di finanziamento della cultura che solo in parte viene dalle istituzioni universitarie).

R.: In effetti questi cinque anni di lavoro comune sono stati favoriti da circostanze eccezionali nell’ambito della ricerca italiana. Nel 2008 e nel 2012 il Ministero dell’Università e della Ricerca ha istituito un programma di finanziamento, con due linee specifiche dedicate a ricercatori “non strutturati”, cioè senza impiego, modellato sui progetti europei ERC e che permetteva di richiedere finanziamenti altrettanto consistenti: l’obiettivo era quello di creare gruppi di ricerca che lavorassero su progetti d’avanguardia, finanziandoli adeguatamente. Già due anni dopo, con la trasformazione del FIRB in SIR, il finanziamento si era contratto, e gli uffici di ricerca delle università sconsigliavano di presentare progetti di gruppo – sostanzialmente, i SIR, perlomeno in ambito umanistico, sono tornati a favorire progetti individuali, gestiti da un singolo ricercatore. Insomma siamo stati fortunati innanzitutto perché siamo riusciti a infilarci, con il nostro progetto, in questa finestra di breve durata.
Il Ministero ci ha finanziato per un totale di quasi 800mila euro: possono sembrare tanti, ma in realtà sono serviti soprattutto a finanziare per cinque anni tre contratti RTDa (da ricercatore a tempo determinato senza tenure), destinati ai responsabili delle tre unità di ricerca (Michele Sisto all’Istituto italiano di studi germanici in Roma; Anna Baldini all’Università per Stranieri di Siena; Irene Fantappiè a Sapienza Università di Roma). Se il nostro gruppo ha potuto allargarsi è stato grazie a Irene, che ha rinunciato al suo contratto e ha continuato a collaborare con noi pur essendo inquadrata e stipendiata dalla Humboldt Universität zu Berlin: si sono così aggiunte al gruppo anche Daria Biagi e Stefania De Lucia. Un ulteriore allargamento l’abbiamo avuto due anni fa, quando Michele è diventato professore associato a Pescara e Anna Antonello ha vinto il concorso per subentrargli come ricercatrice all’IISG.
Il resto del budget ci è servito a finanziare la costruzione della banca dati sulla letteratura tradotta in Italia nel Novecento, che, rispetto al progetto originario incentrato sulla letteratura tedesca, ora si è estesa ad altre letterature; il portale che la ospita sarà on-line, da giugno, all’indirizzo www.ltit.it.

D.: Il libro in questione fa parte di un più ampio progetto sulla letteratura tedesca in Italia nel Novecento. Potreste delinearne le linee guida e i contorni?

R.: L’idea di fondo del progetto non riguarda soltanto la letteratura tedesca: siamo convinti che la letteratura tradotta in generale vada studiata come parte integrante della letteratura italiana. Il sistema che fa l’una e l’altra è lo stesso – non solo nel senso che l’editoria pubblica allo stesso modo scrittori italiani e scrittori tradotti, ma anche perché le logiche che portano i primi a scrivere certe opere e non altre, in un certo modo e non in un altro, sono le stesse che portano a tradurre certi libri e non altri, in un determinato modo e non altrimenti.
Come conseguenza di questa convinzione di fondo, nel nostro lavoro abbiamo dato grande importanza alle persone che fanno i libri e orientano queste logiche. Abbiamo indagato gli attori della vita letteraria italiana, sia quelli che sono entrati stabilmente nel nostro canone, sia quelli che oggi sono meno conosciuti, ma che spesso hanno esercitato un ruolo importante nel transfer letterario: qual è stata la posizione di queste persone nel campo letterario italiano? Come hanno selezionato i testi da tradurre, e perché (per ragioni di mercato, per affinità letterarie, per relazioni personali…)? In che contesto sono stati inseriti gli autori e i testi tradotti, cioè in quale collana, in quale rivista, in quale progetto letterario? E come vengono interpretati, “marchiati”, e canonizzati gli autori e i testi tradotti? Il nostro lavoro ha cercato insomma di ricostruire il contesto che ha portato una certa opera straniera a esistere in lingua italiana.
Chi userà il portale www.ltit.it, troverà perciò, accanto ai dati sui libri tradotti, informazioni e studi sulle traiettorie biografiche e professionali dei mediatori di letteratura: traduttori, direttori di collana, specialisti delle singole letterature, critici letterari, giornalisti, docenti. Anche nel libro abbiamo inserito cinque di queste traiettorie: quelle di due traduttori, Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini; quelle di due mediatori di solito non associati alla letteratura tedesca, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini (che sono stati sia traduttori che direttori di collana e di riviste); e infine quella di un editore, Rocco Carabba di Lanciano.

Vincenzo Errante
D.: Inevitabilmente la vostra trattazione rappresenta anche un importante contributo di storia dell'editoria in Italia e molto bello, tra gli altri, è il capitolo antologico finale (dove si riprende l'invettiva di Gobetti contro Treves). Nell'ambito della storia dell'editoria, qual è o quali sono gli aspetti più curiosi nei quali vi siete imbattuti proponendo questa introduzione alla letteratura tedesca in Italia nelle prime due decadi del Novecento?

R.: Uno dei più curiosi è senz’altro che a fondare e dirigere le collane di letterature straniere di alcune delle principali case editrici italiane siano stati dei germanisti, nel senso stretto di professori di letteratura tedesca all’università: è Borgese a ideare «Antici e moderni» di Rocco Carabba, editore molto importante negli anni ’10 e ’20 anche perché legato all’avanguardia fiorentina, e più tardi, nel 1930, sempre Borgese inventa per Mondadori la «Biblioteca Romantica», un capolavoro nel genere (si può essere d’accordo con Calasso quando sostiene che la collana è un genere letterario a sé); Guido Manacorda, rivale di Borgese nel 1910 al concorso per la cattedra di letteratura tedesca Roma e poi vincitore a Napoli, dirige prima la collana di Laterza «Scrittori Stranieri», voluta da Croce come pendant agli «Scrittori d’Italia», poi la «Biblioteca Sansoniana Straniera», prima collana italiana con testo originale a fronte; Arturo Farinelli, professore a Torino e fondatore della prima scuola germanistica italiana, dirige «I Grandi Scrittori Stranieri» di UTET, in cui escono numerosissime prime traduzioni; nei primi anni ’40 il successore di Borgese sulla cattedra di Milano, Vincenzo Errante, inventa per il giovane Aldo Garzanti gli «Scrittori Stranieri», collana di non grande importanza, ma anch’essa sintomatica della tendenza.
Ma l’aspetto più interessante, credo, resta quello strutturale: il legame, quasi sempre presente, tra una casa editrice che innova sul piano dei programmi di traduzione e un’avanguardia letteraria che innova sul piano delle poetiche. Dietro una collana innovativa c’è quasi sempre, se non un germanista, uno scrittore o un critico o un traduttore formatosi nei circuiti della militanza letteraria, personaggi che hanno una ben precisa visione della letteratura: i casi ben noti di Vittorini e Pavese, che sembrano eccezionali, rientrano invece in una regolarità. Solo che non sempre abbiamo a che fare con figure canonizzate: spesso si tratta di “perdenti” nella lotta per la consacrazione. È il caso di Enrico Filippini, scrittore legato alla neoavanguardia, attivo nella Feltrinelli degli anni ’60; ma, passando in rassegna gli organigrammi delle case editrici, anche di quelle attive oggi, i nomi si moltiplicherebbero.

D.: Parlare di letteratura tedesca in Italia significa parlare di traduzione come pratica culturale e di traduzioni dei singoli testi. C'è un concetto tra altri che è parso molto utile, quello di “postura” autoriale, che torna a galla nelle varie parti del libro. Per certi aspetti pare tuttora centrale o comunque resistente. Vorreste brevemente illustrarlo?

R.: La nozione di “postura” ci è parsa rilevante poiché, nel corso delle nostre ricerche, ci siamo resi conto che tradurre letteratura straniera è qualcosa che va ben al di là del volgere in italiano questo o quel testo, ed è anche qualcosa che non influenza solo quelle che si usa chiamare le “poetiche” dei singoli autori o la gerarchia dei generi letterari, ma anche le identità degli autori di una determinata area linguistico-letteraria. Abbiamo ricavato il concetto dagli studi del critico svizzero Jérôme Meizoz, che ne ha parlato soprattutto in Postures (2007), La Fabrique des singularités (2011) e più recentemente La Littérature “en personne” (2016). Con “postura” Meizoz intende l’identità dell’autore all’interno del campo letterario che, oltre a essere ben distinta da quella biografica, va pensata come un costrutto realizzato sia dall’autore stesso sia dal contesto che lo circonda. La “postura”, insomma, consente di superare la problematica ma duratura contrapposizione tra un’idea di “autore” ancorata alla poetica, che spesso ne esalta la singolarità o addirittura l’unicità, e una nozione di “autore” legata alla storia, a una dimensione collettiva e pubblica. Questo concetto è risultato utile soprattutto per la linea di ricerca che nel libro corrisponde al quarto capitolo, e che si concentra sui paradigmi che orientano la mediazione letteraria: tra i principali modi di intendere la traduzione nell’ambiente delle riviste fiorentine del periodo 1900-1920 c’è infatti quello che intende la traduzione stessa come una importazione non tanto di singoli testi quanto piuttosto della persona dell’autore, appunto della sua “postura” autoriale.
                              
Pierre Bourdieu
D.: Le basi teoriche del vostro lavoro sono meritevoli di un approfondimento. Il discorso della sociologia della letteratura oggi può sfociare in luoghi comuni spesso non approfonditi, nonostante la rilevanza e l'ineccepibilità di un'apertura dello studio della letteratura agli altri campi e all'attualità. Ci potreste parlare delle vostre scelte teoriche, condivise o meno dall'intero gruppo di ricerca?

R.: Le prime due linee della nostra ricerca – quella sull’editoria e quella che individua le logiche del transfer nelle dinamiche del conflitto interno al campo letterario italiano – si sono servite principalmente degli strumenti messi a punto dal sociologo francese Pierre Bourdieu, la cui particolarità è quella di non limitarsi a studiare gli oggetti di ricerca tradizionali della sociologia della letteratura (mercato, paraletteratura, pubblico). Per come sono istituite le discipline letterarie in Italia, la sociologia della letteratura è vista, quando va bene, come un campo di studi a sé, quando va male, come una disciplina incapace di comprendere autenticamente la letteratura. Bourdieu invece ha provato a spiegare l’intero spettro della produzione letteraria, materiale e simbolica, studiando grandi autori del canone occidentale: Flaubert (Les Règles de l’art, 1992), Heidegger (L’Ontologie politique de Martin Heidegger, 1988), Manet (Manet. Une révolution symbolique, 2013). Da questa prospettiva abbiamo imparato a tenere insieme le cose: a non studiare un testo o un autore isolatamente, ma a vederli inseriti in un campo di relazioni e di conflitti, ridando senso alle battaglie che i letterati del passato hanno combattuto, in cui hanno investito la loro esistenza. È un modo molto umano (ma non troppo umano) di studiare qualcosa che di solito ci viene raccontato in maniera astratta, cristallizzata, distaccata.
L’armamentario teorico desunto da Bourdieu, però, poteva aiutarci soltanto fino a un certo punto. Quando si è trattato di lavorare concretamente sui testi – compito della terza delle nostre unità di ricerca – è stato subito chiaro che avevamo bisogno di ricorrere ad altri strumenti, forniti da discipline che per il nostro progetto si sono rivelate altrettanto importanti: dalla filologia testuale alle più recenti acquisizioni dei translation studies, dalla storia della letteratura all’analisi linguistica. Data la complessità del nostro oggetto, d’altra parte, la “cassetta degli attrezzi” non poteva che essere plurale, eclettica; e ciascuno di noi, a seconda dell’argomento scelto per i propri individuali approfondimenti, a seconda dei propri interessi e della propria formazione – che per molti di noi non è di stampo sociologico ma filologico o storico-letterario – si è costruito o ha scelto un approccio individuale. Questa pluralità ha arricchito non poco il dialogo all’interno del gruppo, e ha contribuito – o almeno così speriamo – a rendere i risultati della ricerca più sfaccettati.                                                                                                                      
Andrea Maffei (1798 - 1885)
D.: State assiduamente lavorando sul Novecento. Avete mai pensato di affrontare anche gli scorsi secoli, con l'Ottocento per esempio?

R.: Quella di affrontare l’Ottocento è stata una idea ricorrente e anche, spesso, una tentazione alla quale resistere. È innegabile che la storia della ricezione di alcuni autori e opere nel Novecento italiano abbia una tradizione che affonda le sue radici nel secolo precedente: sono molte le traduzioni ottocentesche che continuano a circolare nel secolo successivo, talora con minime varianti, altre volte senza alcun tipo di modifica al testo tradotto, se non l’aggiunta di nuovi apparati paratestuali. Tra i progetti futuri di alcuni di noi c’è proprio quello di ripercorrere la storia della letteratura tedesca in Italia a ritroso fino ai suoi inizi, che poi non sono troppo remoti: Paola Maria Filippi ha documentato che la prima traduzione di un testo letterario dal tedesco, il poemetto fisico L’origine del lampo di Tiller, risale al 1756. Possiamo anche citare già alcuni studi nati in questa prospettiva: Michele Sisto, per esempio, ha iniziato a ricostruire le vicende traduttive e editoriali del Faust di Goethe, da Giovita Scalvini al presente, mentre Laura Petrella, che facendo il dottorato di ricerca è entrata nell’orbita del nostro progetto, sta ricostruendo la traiettoria di Andrea Maffei come traduttore non solo del Faust ma anche di Gessner, Schiller, Heine, Shakespeare e molti altri.

Uwe Johnson
D.: Quale ruolo e quale ricezione ha invece la letteratura tedesca oggi in Italia?

R.: Se consideriamo che oggi circa l’80% delle traduzioni letterarie sono dall’inglese, la letteratura tedesca ha un peso certamente più limitato rispetto agli anni 1930-1980, che, visti sul lungo periodo, risultano una sorta di cinquantennio d’oro, per molti versi eccezionale. Ma più della quantità conta, oggi come per il periodo che abbiamo studiato, la qualità, vale a dire i progetti editoriali legati a una visione specifica della letteratura, in grado di far diventare uno scrittore tedesco patrimonio della cultura letteraria italiana, di dargli una posizione e un capitale simbolico. Uno scrittore che è diventato imprescindibile per chi si forma letterariamente oggi è Thomas Bernhard, che Einaudi e soprattutto Adelphi hanno consacrato inserendolo in progetti editoriali peraltro assai diversi, anzi, quasi antitetici. Senza Bernhard i libri di Paolo Nori o di Vitaliano Trevisan non sarebbero quello che sono. Lo stesso, in misura appena minore, si può dire di W.G. Sebald, di cui Adelphi ha addirittura ri-tradotto molti volumi.
Vero è che dopo Sebald è difficile individuare autori che godano da noi di una consacrazione altrettanto ampia; forse Christa Wolf, che e/o ha introdotto fin dagli anni ’80 nei circuiti della ricerca letteraria al femminile, ha avuto un ruolo importante nella scrittura di Elena Ferrante. Ma altri scrittori notevoli proposti più recentemente, come Marcel Beyer, Uwe Timm, Ingo Schulze, Christian Kracht, Terézia Mora, Clemens Meyer o gli stessi premi Nobel Elfriede Jelinek e Herta Müller non sembra siano stati metabolizzati, anche perché di rado sono stati proposti in contesti collegati alla militanza letteraria. D’altra parte i grandi editori spesso si limitano a tradurre scrittori di lingua tedesca che hanno avuto successo in patria o che hanno vinto premi, mentre le giovani case editrici più vicine ai movimenti letterari, come Minimum Fax, in genere non sono interessate alla letteratura tedesca; quelle che lo sono, come Keller, Del Vecchio o L’Orma, hanno meno legami con gli scrittori italiani, almeno per ora. Forse oggi sono più vitali alcuni recuperi di scrittori del medio Novecento, come Arno Schmidt, a cui Domenico Pinto ha dedicato la collana «Arno» presso Lavieri e diversi interventi su Nazione Indiana, o Uwe Johnson, di cui L’Orma ha da poco finito di tradurre i quattro volumi de I giorni e gli anni, opera importante per uno scrittore come Roberto Saviano, che Feltrinelli aveva abbandonato al secondo volume. Ma bisognerà aspettare per comprendere gli sviluppi di lungo periodo.

lunedì 7 maggio 2018

"Il mondo nel cerchio di cinque metri" di Luca Vaglio: "Semplificando, / la libertà / riguarda molto / il non essere"

In questi anni si è fatto un certo parlare di "poesia onesta", ripescando maldestramente un fortunato conio sabiano: premi, concorsi e dibattiti si sono prodigati per capire che cosa sia la poesia onesta (la sola meritevole, chiaramente, secondo loro). Intanto in più contesti si brandiva questa categoria come uno scettro, con una sicumera tronfia, quasi fosse questa il nuovo filtro critico che tutti quanti sognano per discernere finalmente ciò che in poesia ha valore e ciò che ne ha meno o non ne ha proprio. Tutto ciò mi è parso l'ennesimo rutto concettuale o precipitato escrementizio del panorama poetico. (Per un buon ripasso sulle insidie e sulle problematiche del concetto di "poesia onesta" rimando a questo intervento assai utile scritto da Umberto Fiori.) Nessuna poesia può avere built-in la capacità di mostrarsi onesta, pena il suo passare clamorosamente e automaticamente nella disonestà tipica del furfante. Inoltre, il tessuto sociale e mentale in cui il testo e il gesto poetico oggi si adagiano è totalmente disgregato se non spappolato, molto più che all'epoca di Saba, e la certezza con cui maneggiamo e ruminiamo certi schemi e costrutti dovrebbe solo provocarci orrore. Senza sguardi impauriti o fintamente umili, si dovrebbe allora provare a comprendere quando l'atto di scrivere, nella sua sostanziale povertà, ha qualcosa da dire e quando non ce l'ha, quando punta il dito in una direzione in cui è utile guardare e quando apre genericamente il braccio largo su un orizzonte.

Il mondo nel cerchio di cinque metri di Luca Vaglio (Marco Saya Edizioni, pp. 54, euro 10) si può riassumere nella chiave di una precisa volontà di presa visione. Il mostrare precisamente una visione potrebbe pericolosamente sconfinare con quello che si è inteso, in tempi vicini, per "poesia onesta", anche se è in realtà ne è lontanissimo, perché qui inserito in un processo di pensiero e rielaborazione che non ha un preciso momento di inizio e di termine (i paladini della "poesia onesta" sono invece immobilizzati dalle loro certezze preconfezionate). Il punto allora non è il Pessoa citato in epigrafe da Vaglio ("Lontano da me in me esisto / fuori da chi io sono / l'ombra e il movimento in cui consisto.") perché Pessoa e i suoi eteronimi siamo ormai tutti noi, a un livello di pervasività e normalità che è divenuto persino routine. Il punto è scrivere per provare a dire qualcosa di utile sulle relazioni, sulla solitudine (spesso digitale, questa di Vaglio è una poesia che nomina anche Facebook, all'occorrenza), sullo stare in presenza di altri e fra altri, sul residuo di un commiato o di un addio, sul fare del male più che sul fare del bene, sui luoghi o le città dove si vive, siano queste Milano o Londra o Manchester, sul sapore di una scena magari vissuta dall'interno di un ristorante o di un pub. Il punto è stare nel flusso, che è un processo, e domare la scrittura a cavallo di questo flusso.

Il mondo nel cerchio di cinque metri appare così un breve libro che saltella tra la tentazione aforistica (ad esempio: "c’è chi di mostrarsi come non è / fa misura di avere / amore" oppure la frase sulla libertà riportata nel titolo di questo articolo) e l'apertura distesa, in qualche momento anche alla prosa. Da queste pagine si riceve la pressione di una macchina da presa che mostra, spesso attraverso il piano sequenza e senza nascondimenti, una visione del tondo-mondo dei cinque metri ("molto più di quello che dici / sulle grandi cose del mondo / conta per me l’uomo che sei / nel cerchio di cinque metri / se e come mi saluti e come / mi sento a pochi passi da te"), delle relazioni e quindi dell'altro da una postazione che è perlopiù quella di una solitudine osservante e partecipata, che pendola tra passato e presente:


a londra dietro il vetro sporco, semiopaco
di una scuola di inglese per stranieri
ero la parte migliore di quello che ero
e ancora la misura esatta della gioia
l’idea del futuro, ogni cosa
tutto quello che non sapevo


Uno può essere più o meno attratto dai contenuti, dall'immaginario o dai modi scelti da Vaglio per questo suo libro, il terzo di poesia dopo La memoria della felicità (Zona, 2008) e Milano dalle finestre dei bar (Marco Saya Edizioni, 2013), ma quello che è abbastanza certo è che da questa scrittura ci si sente interpellati, ci si sente persino interrogati dalle sue oscillazioni geografiche da Milano al Regno Unito o alla Scozia, dalle molte scene raccontate, dalla sua convocazione e confessione riflessiva mossa da garbo. È appunto una poesia di scene, che non si traducono in un quadro, ma rimangono scene nella loro mobilità filmica, percettiva e sensoriale, spesso anche nel loro sapore di enigma e interrogativo (non tanto di epifania, per favore, ché la poesia odierna pare tutta un supermercato di epifanie ormai). E se il limite di una parte della produzione poetica attuale è ravvisabile proprio nel quadro (o quadretto) ben compiuto, nel compitino di scrittura portato a termine, nel quale la fissità contemplativa e riflessiva abbatte i motivi di interesse e vitalità di un testo, nella scrittura di Luca Vaglio ciò non accade perché il testo rimane vivo e attivo sottotraccia, incerto fra le forme, nella testa di chi lo avvicina. Leggiamo ad esempio nella poesia seguente:


in un pub del centro di edimburgo
in una sera di agosto di un tempo
lontano da ora in cui felicemente
feci vuoto e nuovo intorno a me
bevuta mezza pinta di john smith’s
fissavo forse qualcosa che mi stava
di fronte, non so, non ricordo bene
oppure guardavo fuori dai vetri
verso la strada, ma sono sicuro
che ero in pace, che vivevo dentro
tutto quel presente quando un uomo
lieve come aria passandomi accanto
e toccandomi appena la spalla
con le dita mi disse non avere
paura, potrebbe non succedere mai



La poesia consta di un solo lungo periodo che porta a galla un ricordo probabilmente non compreso del tutto e perciò rimasto sospeso. Si muove su coordinate spaziali, temporali e sceniche nitidissime per convergere nel centro del testo introdotto dall'avversativa "ma sono sicuro / che ero in pace, che vivevo dentro / tutto quel presente" e sfumare quindi nella nebulosità oracolare del finale. E l'aspetto convincente di questo oracolo è che il punto di vista è quello di chi lo ascolta - come in certi brani dei Massimo Volume - non il punto di vista di chi pretende di dettare poeticamente l'oracolo. E così, leggendo questo recente libro di Luca Vaglio ci si sposta molto nella topografia e nel pensiero con la sensazione di portare a casa qualcosa, come nel caso di questo bel testo riportato in chiusura.


le risorse, o forse, le occasioni
la vita della vita, il suo insieme
non sono natura chiusa, scarsa
le parole che desideriamo
le ragioni che cerchiamo
hanno aperti numero e sostanza

io che dico questo
sì e questo invece no

quello che pensa un amico
e la cosa che a me non conviene
e ora la parte di me che non amo