venerdì 30 settembre 2016

“Scuola di felicità” (e della follia) di Gian Mario Villalta

Non è la prima volta che Gian Mario Villalta affronta di petto il tema della scuola (l’ur-tema, bisognerebbe dire). Il primo corpo a corpo si registrò molti anni fa nella pièce Lezione, monologo messo in scena dal regista Cesare Lievi. Già lì, in quella lezione surreale su Leopardi e Il sabato del villaggio, molti pensieri sulla didattica e su certa “follia” scolastica erano svelati. Poi, altrove nei suoi romanzi e curiosamente meno, se non addirittura per niente, nella sua poesia, il tema scolastico è riaffiorato (si veda anche Satyricon 2.0 del 2014). Scuola di felicità, da poco uscito per Mondadori (pp. 180, euro 18), torna su quest'ambito centrale della vita sociale. Abbiamo tutti la scuola sotto gli occhi: dopo la pausa estiva, anche quest’anno è da poco cominciato. Anno scolastico, s'intende, quell'altro anno s'avvia pian piano alla fine. Il gigante organismo fatto di edifici, orari, campanelle, logistica, studenti, docenti, personale vario e nuovi presidi sempre più protagonisti continua a scorrere parallelo alle vite di chi a scuola non c'è e a impattare su quelle di tutti noi, sia che siamo o non siamo coinvolti nella vita scolastica. Ma come non esserne comunque tutti coinvolti, anche banalmente dal cambiamento del traffico nei periodi scolastici o, in modo più rilevante, nel pensiero che è davvero la scuola a tracciare il destino di un paese? E così come ogni anno, tra qualche mese l’anno scolastico terminerà, creando separazioni, trasferimenti, delusioni, cambiamenti in tante direzioni, soprattutto tra i protagonisti, ovvero quegli studenti che a scuola trascorrono uno dei periodi più delicati della loro vita, nel quale si sbatte al bivio tra “massimizzare la formazione” (anche se qualcuno gradirebbe “massimizzare la performance”) e “ridurre al minimo i danni”. Anche qui, come in altri romanzi di Villalta, il "duello" con un tema principale viene via via intervallato da lunghe pause di pensiero e riflessione, le quali, a ben vedere, coincidono invece con i temi più sviluppati dalla sua poesia e i temi più duraturi della sua scrittura. In questo libro sono molti i rimandi alla telepatia e Telepatia si intitola proprio l’ultimo suo libro di poesia. Quali sono questi temi diversi da quello portante della scuola? Credo combacino, e non da oggi, con le coincidenze e il loro inserimento nutriente nella trama della vita. E poi con il lavoro-lavorio della memoria nel suo intersecarsi con la materia, sia essa intesa come materia che fa l'uomo-cervello-coscienza, il paesaggio e il tempo della luce e del buio. Dei cinque romanzi pubblicati finora, credo sia questo il libro dove il convergere di più istanze ha dato risultati più fecondi. Provo a dire perché.

L’accelerazione e mutazione in atto, visibile maggiormente tra i più giovani, è fuori discussione e non credo possa essere fatta passare per una mutazione soltanto apparente: è un punto comune di partenza e non ritorno forse. Le nuove generazioni, che a dispetto di quello che si sente a volte in giro sanno mostrarsi molto preparate e intelligenti, semplicemente vivono online, e quella è diventata la loro giornata immediata, finalizzata a determinati scopi (e comunque questo vivere immediato e sincronizzato online sconfina anche in età più adulte, nell’uso della chat e dei social). La scuola segue e insegue. Le generazioni, i linguaggi e la vita cambiano a ogni ciclo scolastico. Chi insegna lo può osservare meglio di chi lavora altrove, magari in un ufficio, per quanto sia chiaro a tutti che pure l’insegnamento si è fortemente burocratizzato e sclerotizzato. (Sia detto tra parentesi che in alcuni passaggi del libro è spassoso osservare il pullulare di maiuscole che usa Villalta per richiamare i diversi organi e istituti della vita scolastica e colpisce invece che abbia evitato di esagerare con gli acronimi, che pure sono imperanti a scuola, tanto da far assomigliare certe conversazioni tra insegnanti al susseguirsi di onomatopee fumettistiche tipiche di Batman e Robin, quelle del telefilm). È questa mutazione che interessa l'autore di Scuola di felicità e il tentativo di descriverla è uno dei due principali motivi di interesse del romanzo. Ma in fondo, ci domandiamo, a cosa dovrebbe interessarsi uno scrittore se non al cambiamento e al divenire di qualcosa e a quello che pensa la gente del suo tempo, che non è necessariamente la risposta alla domandina “A cosa stai pensando?” che pone Facebook per invitarti a scrivere un nuovo post.

Dal punto di vista della tessitura, si scorgono gli elementi che sorreggono un pensiero preciso sul raccontare: dialoghi vaganti che vengono attribuiti a dei parlanti con un leggero ritardo, ellissi temporali frequenti, scostamenti irruenti da un filo consequenziale poi ricondotti in alveo, interruzioni della narrazione principale - ovvero il giallo scolastico attorno a cui si coagula la storia - con deviazioni frequenti su affluenti di narrazione che non si possono definire “secondari”. E poi va quantomeno menzionato il ritmo costruito con la modulazione di lunghezza dei periodi e il gioco curioso ed efficace attorno a un narratore che sembrerebbe onnisciente ma che in realtà non lo è affatto. Appare onnisciente finché è un narratore-etologo, che entra in classe e avverte la puzza e l’afrore e guarda le facce degli studenti, poi però deve procedere per altre vie a una personale costruzione di senso.

Infine la storia, senza eccessivo spoiler: il narratore è un professore sulla cinquantina, un ricco vedovo che non avrebbe bisogno di lavorare, ma che continua tra qualche frustrazione a insegnare, lasciando intuire tra i suoi pensieri il gigante processo inerziale di cui pare vittima la scuola italiana, che non ce la fa proprio a stimolare un cambiamento o una riforma degna del nome. La routine scolastica di un istituto di Pordenone subisce un’interruzione all’arrivo della nuova preside, tale Bardella, una persona motivata con passati in politica (dalle sue trovate viene il parametro della felicità dell’ironico titolo). La scuola si spacca in due fazioni, i Benesserini e i Marci, e tutto ciò ha ripercussioni nella routine extrascolastica del nostro professore, del suo rapporto coi ragazzi che iniziano a coinvolgerlo al di fuori della scuola, con la preside e persino con i genitori che incontra a ricevimento. Sullo sfondo insistono alcune riflessioni sull'essere e avere maestri.

We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep. Ad un certo punto del romanzo, in una delle già ricordate parentesi di riflessione e analisi, il professore parte da questo celeberrimo frammento di Shakespeare (altrove invece se la prende giustamente con Wikiquote che fa sembrare tutti gran lettori) per dire che il drammaturgo è stato profetico. Questa frase, che probabilmente nasceva dall’osservazione del rapporto tra vita e illusioni, è in realtà aderentissima ai risultati più attuali e fecondi delle neuroscienze. Su tutto, al di là del tema scolastico, è quindi il macrotema della memoria e del tempo a muovere Villalta. Il lavorio della memoria sulla materia celebrale infiltra tutto di noi, nulla va perduto nell’incessante scambio di materia-anima-tempo e sonno-risveglio-veglia. Davvero siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni e la nostra vita piccola è avvolta da un sonno.

domenica 25 settembre 2016

da "Yellow" di Antonio Porta (in morte di G.P. e sulle campane del Veneto)

Una "poesia" da #61


Rileggendo a distanza di molto tempo Yellow, libro postumo di Antonio Porta pubblicato da Mondadori nella collana Lo Specchio nel 2002 (pp. 172, a cura di Niva Lorenzini, note di Fabrizio Lombardo, difficile reperibilità, costava euro 9,40), mi sono imbattuto nella breve prosa datata 31.8.1986 che propongo di seguito. L'avevo dimenticata in quanto prosa legata alla morte di uno scrittore veneto, mentre qualcosa di questo discorrere sulle campane del Veneto era rimasto sottotraccia. A qualcuno la data avrà già suggerito qualcosa, e comunque non è passato molto tempo da quando, anche qui, abbiamo ricordato la morte di Goffredo Parise avvenuta quel giorno di tarda estate. Il brano che propongo di seguito è interessante perché insegue un fenomeno acustico che non possiamo credere segnatamente veneto ma che tuttavia si può ritenere particolarmente significativo in questa terra di campanili, i quali sicuramente attirano l'attenzione, non solo acustica (accompagnando per lavoro o piacere persone di diversa provenienza noto che, dagli USA alla Cina, restano tutti colpiti da queste torri campanarie che si susseguono ad ogni paesello del Veneto atomizzato). Allo stesso tempo, non credo sia un passo che interessa solo i veneti o chi ha una certa cognizione di campane venete oppure di campane e basta. Ricordo infine che, come Parise, Porta era nato a Vicenza (nel 1935). 




Sento alla radio che questa mattina alle 9 è morto uno scrittore (G.P.). La radio, sono le tre p.m., trasmette un'intervista di un paio d'anni fa. Sento le campane che suonano e per un momento credo che siano di una chiesa vicina. Ma il loro ritmo martellante, continuo mi riporta dentro la radio. Sono campane del Veneto, sullo sfondo dell'intervista a casa dello scrittore, vicino al Piave. Il linguaggio delle campane dei Veneto è per me inconfondibile. Che cosa dice? Ecco, per rispondere a questa domanda dovrei raccontare 15 anni della mia vita, una donna, due figli, una morte (mio fratello). Le campane del Veneto suonano monotone, sempre identiche, sullo sfondo. Non sono funebri, non parlano di morte piena, ma neppure di vita piena. Non so, non voglio, non posso sapere. Scrivo qui forse per dire che non voglio rispondere.
Il sonno come esperienza della morte quando il corpo si irrigidisce troppo nel sogno. La coscienza scompare resta la visione. 
Le campane del Veneto sono come il primo suono, lontano e vicino, ascoltato dall'uomo. Come il motore di un piccolo aereo vuol dire, per me, annuncio di estate e sabbia e luminosità, così le campane del Veneto significano eros, voglia ininterrotta d'amore. Il linguaggio di quelle campane è (univoco dunque) interpretabile all'infinito: ognuno può sovrapporci, come le parole di una canzone, la propria esperienza, ecc. ecc. 
31.8.1986 

giovedì 22 settembre 2016

I cambi di stagione: equinozio d'autunno


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno se non mi stufo prima, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi pigri post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.


CONTRO UN’ABITUDINE


Poche volte mi capita di correrla
via Grave in senso inverso.
Gli occhi rimbombano, sono spaesati.
Fa quasi male la testa, viene a rallentare.
Le case non le conosco più o, se
tutto si calma, rivedo solo alcune parti:
un terrazzo, il sotto di una scala
all’aperto. Magari una cuccia con le ciotole.
Il senso di marcia
non è indifferente.
Il senso ha spesso visto prima
di me che, nell’aria, ovunque i petti
in movimento
stanno raccogliendosi per uno scatto.
I colori delle ringhiere non sono mai chiari.

Un cane abbaia. Il suo padrone
si arrabbia: se lui è lì non deve.


(da Grave, Editrice Zona, 2008)

martedì 20 settembre 2016

"Madreperla, domani". Un'anticipazione delle poesie dedicate di Ophelia Borghesan

Capita persino che a seguito del post di ieri sulle liriche cinesi e le antologie odierne, mi venga dedicato un sonetto. Poiché è la prima volta che questo fatto succede e mi viene dedicata una poesia, tra l'altro di fattura pregevolissima, condivido la fresca gioia con voi. Si trova tutto nel file *.pdf raggiungile da qui, contenente un quartetto di sonetti che mi ha cortesissimamente inviato Ophelia Borghesan quale anticipazione del suo prossimo libro intitolato Madreperla, domani. Poesie dedicate. Assieme al sonetto a me dedicato ne troverete uno per Francesco Terzago, uno per Julian Zhara e uno per Alessandro Burbank. Ricordo che Ophelia Borghesan è nata nel 1991 a Lille. Nel 2012 ha pubblicato il saggio “The Queendom – la scrittura di genere oltre il web 2.0: verso la F/e-mail era”. Ha un tatuaggio che in lingua cherokee significa lust in translation. Nel 2015 ha pubblicato sul sito Poesia 2.0 l’e-book “Come il glicine, ti cerco”, su Poetarum Silva la raccolta di poesie “Jailhousy”, e su Critica Impura cinque poesie da “Mandalata”.

(Se questo blog rimarrà attivo, non mancherò di dare notizie sul completamento di questo libro quando sarà pronto.)

lunedì 19 settembre 2016

“Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.)” a cura di Giorgia Valensin (e qualche riflessione sull’antologismo e autoantologismo poetico odierno)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #31


Rileggere dopo quasi vent’anni Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.) (a cura di Giorgia Valensin, prefazione di Eugenio Montale, Einaudi, pp. 256, libro fuori catalogo) ha sortito due binari di riflessioni e effetti. Da un lato ritrovare queste liriche, alcune davvero memorabili, a distanza di tempo, porta a interrogarsi sull’intervallo in cui non si legge ma si ricorda di aver letto qualcosa. Dall’altro lato, con questo oggetto in mano, è partita una serie di riflessioni sullo statuto dell’antologia poetica di cui proverò a dar conto nel prossimo paragrafo, con un lungo inciso che tuttavia dovrebbe servire a mostrare, in modo contrastivo, i presupposti attuali del "fare antologie" se paragonati a pubblicazioni come questa einaudiana, tra l'altro rivolta a un passato lontanissimo e sprofondato. Mi è chiaro che i tempi sono cambiati di brutto, ma questo non significa che non possiamo interrogarci, ora come allora, sul concetto di "antologia poetica" e fare dei raffronti. La prima ragione per cui ricordo questo volume è perché tuttora rappresenta un libro di base per chi voglia avvicinare, per scansioni dinastiche, l’antica poesia cinese, da Il libro delle Odi, a Chu Yuan, fino a uno sventolio di dinastie (Han, T’ang, Sung) e i nomi più noti di Li Po, Tu Fu, Lu Yu e il grande corpus poetico di Po Chu-i. Il volume ebbe un discreto successo, per cui si può ancora trovare nei circuiti dell'usato. Lo scritto introduttivo di Montale poi si può leggere in tutte le pubblicazioni che radunano i suoi contributi critici sulla poesia.

Con il libro in mano ho provato a immaginare l’operazione editoriale che fece all’epoca Einaudi. Mi è parso di leggere tra le righe un “Caro Lettore, affido a una sinologa di valore la cura di un'antologia e la traduzione di un importante numero di testi poetici cinesi e al nostro poeta di spicco la prefazione del volume; inserisco il risultato dell'operazione nella prestigiosa collana NUE, quella con le righette rosse disegnata dal "nostro" Bruno Munari, confidando nella tua benevolenza”. Ecco, il volume che ho acquistato l’altro giorno da una bancarella a 12 euro è del 1963 (ma la prima edizione risale al 1943, mentre l'apposizione della nota montaliana è del 1952) e riporta la dicitura "undicesima edizione". Anche non conoscendo le tirature dell’epoca, "undicesima edizione" mi sembra un dato notevole, perché si tratta pur sempre di un’antologia poetica. Oggi cosa resta di questo costrutto di antologia poetica? Sorvolando sui casi fortunati che hanno lasciato il segno, come l'antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, e i casi meno fortunati ma pur sempre interessanti nell’impianto come quello di Dopo la lirica, antologia curata da Enrico Testa per Einaudi, le antologie collettive di poesia (contemporanea o antica) hanno via via perso importanza di pari passo con la marginalità della poesia e, al netto delle polemiche che ogni antologia solleva, si può dire che oggigiorno l’antologia collettiva di poesia rischia di diventare un libro che i) serve principalmente a rafforzare la posizione critica e curatoriale di chi la assembla; ii) cristallizza e fotografa un dato gruppo di lavoro e interessi e, nel migliore dei casi, iii) potrà interessare e solleticare il pensiero di qualche frequentatore di bancarella dei fuori catalogo di domani. Se le cose stanno circa così, qualsiasi discorso sulla militanza nell'atto di compilazione di una data antologia rimane per sempre nel retrobottega. Diverso è il caso di volumi antologici periodici come i Quaderni di poesia italiana di Marcos y Marcos, i quali, dopo un percorso pluridecennale meritorio, hanno mostrato una strana virata votata alla trasparenza, all’affissione di un tabellone dei playoff delle selezioni, all’insegna di un procedimento che si addice di più alla bacheca di un’amministrazione comunale chiamata alla trasparenza dai contribuenti e meno a un comitato editoriale chiamato a rispondere di un gesto critico e curatoriale coraggioso. Ne dobbiamo dedurre che la critica e la curatela sono diventate poco più che operazioni di normale amministrazione? Se così fosse, sarebbe inquietante, tanto più se le parole d’ordine che girano sono le perniciose “lealtà” e “onestà”. Preferisco di gran lunga chi dice di scommettere su un'opera o finanche su un autore, con tutto ciò che l'atto di scommessa comporta, perché l'editoria più vivace non mi sembra il terreno dove fare tanti calcoli o tatticismi buonisti (qui mi sono spostato a scrivere in generale). Quello che poi a me fa più impressione è l’autoantologismo. Mi spiego meglio: sempre più spesso, anche tra autori sotto i quarant’anni, troviamo libri che radunano testi già usciti in altri libri, con l’aggiunta di “qualche inedito”. Altre volte il sottotitolo recita un arco di tempo (solitamente un quindicennio). Si comprende bene che tale scelta può essere dettata da a) la necessità di mettere in circolazione dei testi divenuti irreperibili e b) la volontà di puntare il dito sulla parsimonia e la pazienza con cui si è gestito il proprio faldone nel cassetto. Io credo che se questa prassi aumenterà non farà altro che nuocere alla vita dei libri di poesia, proprio perché eroderà ulteriormente la possibilità del libro di poesia di essere libro e non raccolta, non autoantologia, non morettiano (Marino, non Nanni) diario in versi senza le date, insomma di essere un libro di cui si può parlare perché parla di qualcosa.

Tutta questa riflessione centrale sulle antologie a mio avviso ha a che fare anche con il libro einaudiano che ricordo oggi, perché nel suo essere antologia, Liriche cinesi è prima di tutto libro, con tutti i limiti linguistici che questo comporta sul versante della traduzione. Montale, nella sua nota introduttiva, sembra curiosamente lanciare un'anticipazione su un titolo futuro (“la lirica e la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura”). Allo stesso tempo, il non-sinologo Montale inanella una serie di riflessioni davvero coraggiose su un corpo poetico lontanissimo. Difficilmente ritroveremmo in poeti-critici contemporanei una simile capacità di sintesi. Ad esempio quando sostiene questo:
Limpidissime come sono, esse sfuggono a quel metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egiziana e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo.
Chiudo con un breve testo dalle poesie di Po Chu-i (772-846 D.C.):

Paralisi

Cari amici, non c’è ragione
Perché abbiate tanta pietà.
Certo, di tanto in tanto ancora
Farò qualche passeggiatina.
Quel che occorre è una mente lucida.
A che cosa servono i piedi?
Per terra si può andar anche in lettiga –
                 Sull’acqua si può vogare.

giovedì 15 settembre 2016

La strana assenza della marca nella narrativa e nella saggistica. Riflessioni a margine di un incontro con Filippo La Porta e Riccardo Staglianò

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #12


Questa mattina ho assistito a un incontro con Filippo La Porta e Riccardo Staglianò. Sulla scia dei loro recenti libri, rispettivamente Indaffarati (Bompiani, pp. 180, euro 12, un estratto qui) e Al posto tuo (Einaudi, pp. 246, euro 18, un estratto qui), si sono affrontati i temi caldi del lavoro, delle nuove generazioni, del rapporto con la tecnologia e finanche il caso di qualche intellettuale che solipsisticamente crede che dopo di sé ci sia soltanto il nulla. Il mondo però va avanti anche senza di questi intellettuali e finalmente si inizia a parlare di questi temi con qualche sovrastruttura mentale in meno, evitando quella facile sociologia che diventa presto l'anagramma "ciò lo so già". Non ho ancora letto i due libri per intero, per cui può benissimo succedere che smentiscano quella che è la riflessione centrale del post, però l'incontro è risultato interessante e ha stimolato la lettura, anche in virtù di due diversi sguardi su una materia magmatica e sfuggente come quella del lavoro e del muro di cambiamento radicale su cui andranno a sbattere le generazioni di chi ha meno (ma anche più) di vent'anni oggi. Il fatto che debba ancora leggere i libri non è così fondamentale ai fini di questo post, per ora basterà darne notizia e riprendere i discorsi della presentazione odierna. Così l'appuntamento è descritto nel sito di Pordenonelegge:
Web e robot, dopo globalizzazione e finanza, stanno uccidendo la classe media. Perché piú le macchine diventano a buon mercato, piú gli esseri umani sembrano cari in confronto. Ma nello stesso tempo ognuno di noi è "indaffarato": sia nell'ansioso tentativo di restare sempre connesso sia nel condividere, nello scambiarsi qualcosa. Le nuove generazioni chiedono alle idee di incarnarsi in pratiche di vita e tentano di rideclinare il concetto di intelligenza e quello di impegno.
Insomma, dopo le "famiglie di operai licenziate dai robot" de Gli altri siamo noi di Umberto Tozzi si arriva a falcidiare anche i colletti bianchi. Lo spunto dell'incontro verteva infatti su uno studio che afferma che circa la metà delle professioni oggi conosciute verrà meno nel giro di vent'anni (Staglianò ricordava che ci sono ad esempio software che scrivono automaticamente perfetti articoli di sport e finanza, vale a dire le materie giornalistiche più ricche di dati). L'incontro è risultato interessante anche perché ha saputo evitare i soliti binari di "apocalittici" contro "integrati" su cui si incanalano spesso discussioni che partono da simili premesse.


Si è quindi parlato di lavoro, economia, del rapporto col "tempo libero" e anche della cosiddetta ossimorica sharing economy. Si è discusso a lungo del caso di Uber, in Italia ancora non così noto o così dibattuto, ma che ha raggiunto ormai una capitalizzazione di borsa vertiginosa e si è parlato della commissione che Uber chiede ai suoi tassisti "free lance". Insomma, non sono mancati spunti. Se però qualcosa è mancato nella discussione è il rifarsi alle marche (o ai brand, se preferite la parola facile inglese). Troppo spesso, a mio avviso, questi dispositivi e questi "attori" sociali così pervasivi nel mondo (e anche tra le generazioni più giovani) restano fuori da letteratura, saggistica e dibattiti in generale. Ripeto: potrebbe essere che i due libri trattino diffusamente delle marche e lo scoprirò leggendo (diciamo che se ci fosse stato il tempo, una domanda sulle marche ci poteva stare sulla scia dei discorsi emersi). Uno studioso come Vanni Codeluppi, nelle sue analisi biocapitalistiche, non ha mancato di studiare alcune marche come fondamentali attori del mondo d'oggi. Tuttavia, al di là di studi specialistici, mancano dei contributi che sappiano parlare delle marche come generatori di senso, valore e esperienza (oppure, se vogliamo rovesciare la frittata, di insensatezza, disvalore e inesperienza). Resta incomprensibile la ritrosia che riscontriamo davanti alle marche in tanti scrittori contemporanei. Voglio anche aggiungere che citare una marca in un romanzo o racconto non può più essere solo il facile giochino di affibbiare uno status symbol a un dato personaggio di una storia (ad esempio "indossava un Rolex" oppure "calzava le All Star" oppure "beveva un succo Alce Nero" oppure "anziché prendere un taxi aprì la app di Uber"). Le marche sono organismi complessi che ovviamente hanno a che fare con l'economia. I social network, tutti quanti, sono brand, anche se dobbiamo considerarli dei brand con delle caratteristiche innovative. Le marche hanno una lunga storia ormai alle spalle (pensate a Disney). In linea teorica, in un mondo piatto, ultra-informato e trasparente ci sarebbe sempre meno bisogno di un dispositivo come la marca, perché l'informazione facilmente accessibile renderebbe meno significative le caratteristiche storiche di orientamento e attrazione esercitate dai brand. Detto diversamente, un mondo del genere dovrebbe condurci a valutare più la sostanza e le caratteristiche di certi prodotti, a svantaggio dei motivi più irrazionali. Eppure non è così e lo vediamo sempre più, nei tanti piccoli o giganti brand che ci circondano e nelle relazioni che intratteniamo con loro. Inoltre, gli stessi architetti sono brand, gli autori sono costruiti come brand dagli uffici stampa altrimenti faranno fatica a esistere, le stesse case editrici sognano di posizionarsi come brand. Non parliamo di certi artisti che spesso coincidono con un mero brand name. Insomma, chi voglia confrontarsi con queste tematiche del lavoro e del cambiamento sociale credo debba prendere maggiormente in considerazione i grandi attori globali, nuove "mani invisibili", che stanno dietro un nome e un logo. Rimanendo nel campo della letteratura, che è quello maggiormente coinvolto in questo blog, fa impressione la distanza a cui le marche sono ancora tenute, quasi fossero parole impure che vanno a contagiare la purezza di un testo. Naturalmente ci sono delle eccezioni e ora mi torna in mente qualche libro di Romolo Bugaro, tanto per citarne una.

martedì 13 settembre 2016

La risposta di Matteo Campagnoli di Babel Festival

Pubblico di seguito la risposta di Matteo Campagnoli di Babel Festival ai dubbi che sollevavo nel post di ieri.


Gentile Alberto, la scelta di Londra è dovuta a diversi motivi strettamente legati alle tematiche del festival. In genere tendiamo ad invitare una lingua o una nazione che contiene in sé quella lingua, ma il bacino dell’inglese è troppo ampio per un simile approccio. Già nel 2008, con un’edizione intitolata “Gli inglesi Uniti d’America”, avevamo ristretto il campo invitando scrittori di lingua inglese di varia provenienza a patto che vivessero o lavorassero negli Stati Uniti (tra questi Derek Walcott, Ha Jin, Jamaica Kincaid, Amitav Gosh, quindi di origine caraibica, cinese, indiana, ecc.). Allora l’idea era di guardare all’inglese come alla nuova lingua imperiale e agli Stati Uniti come al luogo in cui confluiscono gli scrittori delle “provincie dell’impero”, così come un tempo gli scrittori latini confluivano verso Roma. Era, tra le altre cose, un modo di mettere alla prova un’affermazione di Iosif Brodskij, che usando la stessa metafora sosteneva che sono sempre gli scrittori delle “province” quelli che rivitalizzano la “lingua imperiale” quando il centro cede).

Quest’anno, a giugno, abbiamo organizzato la nostra prima edizione di Babel fuori dalla Svizzera, a Londra. Ci sembrava quindi naturale e proficuo creare un dialogo tra la nuova edizione londinese e quella consueta di Bellinzona. Ancora l’inglese, dunque. Ma questa questa volta a Londra, altro importante centro di attrazione per scrittori e esseri umani di tutto il mondo. E in questo caso, come allora, la traduzione è centrale. Lo è sia in senso stretto sia in senso lato. In senso stretto – la traduzione letteraria, per intenderci –, come nei casi opposti di Xiaolu Guo, che nata in Cina e di madrelingua cinese ora scrive in inglese (e a volte si auto-traduce in cinese), o di Ma Jian, che sebbene risieda a Londra da più di trent’anni l’inglese non ha mai voluto impararlo, e i cui romanzi sono tradotti dalla moglie e pubblicati come originali, perché lui in Cina è uno scrittore bandito. In senso lato in quanto qualsiasi persona trapiantata in un contesto straniero deve continuamente tradursi e tradurre il mondo che la circonda, con gli scambi, gli scontri, le messe in relazione, le ibridazioni personali, linguistiche, culturali che ne conseguono. Da qui gli inviti a Saleh e Sulaiman Addonia, per esempio, scrittori profughi di origine etiope-eritrea che scrivono in inglese, o a  Annie Holmes che è andata ad ascoltare le storie dei profughi ammassati nella Giungla di Calais e dei francesi che lì vivono e lavorano. “Traduzione”, nel nome del nostro festival, è un concetto molto ampio che oltre a tutto questo comprende anche la traduzione tra generi: testi letterari messi in musica, traslati in arte figurativa, adattati per il cinema, e viceversa. Le nostre tematiche principali, in ogni edizione, sono sempre state queste.

Quando alla fine dello scorso anno abbiamo concepito l’edizione londinese di Babel e quella di Bellinzona dedicata a Londra, di Brexit non se ne parlava nemmeno. Non stiamo cavalcando l’attualità, siamo stati raggiunti dall’attualità, per puro caso, e non abbiamo voluto scansarla, perché pensiamo che la letteratura sia uno dei modi più efficaci di far presa sulla realtà. Compresa quella estremamente complessa delle persone “tradotte” o “auto-tradotte” nelle migrazioni o di chi per motivi politici o anche solo personali si è ritrovato a vivere lontano dal suo Paese di nascita.

Mi auguro di essere riuscito a chiarire i suoi dubbi, sebbene il tempo non sia dalla mia parte. Tra due giorni comincia il festival, e stiamo anche per lanciare una rivista. E questo, purtroppo, mi costringe a scrivere di fretta.

Matteo Campagnoli, Babel Festival.

lunedì 12 settembre 2016

Un festival sulla traduzione dedicato a scrittori che risiedono a Londra?

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #11


Pieter Bruegel il Vecchio, Grande Torre di Babele, 1563
Settembre e in generale l'autunno sono periodi ricchi di festival. Ognuno di questi è ispirato di solito a un tema principale: scienza, letteratura, filosofia, storia, economia, politica ecc. Può succedere che la direzione di un festival accosti al tema principale anche un motivo o una linea guida alla quale intitolare l'edizione di un anno. Tra tutti i festival, fortunatamente ne esiste anche uno dedicato alla traduzione: si chiama "Babel" e si tiene in settembre a Bellinzona da dieci anni. Ho letto ieri nel sito "Le parole e le cose" che l'edizione 2016 "è dedicata agli scrittori di ogni lingua e provenienza che risiedono a Londra". Mi ha subito lasciato perplesso la scelta della linea guida: è sensato improntare, anche ad un livello comunicativo e promozionale, un'edizione di un interessante festival dedicato alla traduzione attorno a un criterio di "residenza in una città"? Non mi è sfuggito quel "di ogni lingua e provenienza" (aspetti coerentemente in linea con il nome del festival), non mi è sfuggito che siamo ancora freschi di Brexit (e difatti alla Brexit si fa riferimento nel sito della manifestazione) e non mi è nemmeno sfuggito il fatto che la città in questione sia Londra, ovvero un nodo importante, fondamentale e sicuramente vitale come possono essere anche New York, Berlino, Shanghai ecc. (chi dipingeva un secolo fa passava per Parigi, sempre e comunque, e il peso di certe città nel gran giro di quella cosa che chiamiamo cultura e economia della cultura si registra ancora oggi). Insomma, chi vi scrive è senza ombra di dubbio un provinciale, anzi, un campagnolo che vive in un posto dove la sera si levano ancora odori di letame frammisti a quello del nylon surriscaldato delle serre, ma non è così sprovveduto da non provare a immaginare quale caleidoscopio e molteplicità di esperienze possa offrire una città come Londra; tuttavia non riesco proprio a capire il criterio unificatore di questa edizione e mi sorprende ancor più che tale criterio, basato sul parametro della "residenza londinese", venga adottato in un festival dedicato proprio alla traduzione. Per anni ho pensato che la traduzione fosse tutto fuorché qualcosa di legato a un parametro burocratico come il posto di residenza. 

(Probabilmente mi starà sfuggendo qualcosa e mi piacerebbe trovare un breve libro-guida o qualcuno che mi spieghi perché invece ha senso strutturare il palinsesto di un festival sulla traduzione attorno al criterio di residenza in una data città degli scrittori invitati.)

mercoledì 7 settembre 2016

"Il pubblico" di Federico García Lorca: una commedia impossibile, una poesia da fischiare

Il sillogismo fraudolento potrebbe essere circa questo: i) i vecchi amori sono grandemente tristi; ii) Federico García Lorca è un vecchio amore di chi scrive; iii) Federico García Lorca è grandemente triste per chi scrive e costui vi parlerà circa di questo, nonché della grande tristezza di oggi nella sua esperienza di lettore di Lorca. Fortunatamente le cose però non stanno così, perché qui si parla di vecchi amori di cose lette e non di vecchi amori tra persone. Qualche ostinata/o col piglio dell'originalità e del Bastian contrario potrà poi sostenere che non è affatto vero che i vecchi amori tra persone sono grandemente tristi, ma, oltre a non credere a costei/costui su una base quasi istintuale, le/gli opporremo il fatto che parliamo appunto di amori per opere e di amori di lettori, passando oltre. Anche perché vorrei che chi legge arrivasse alla fine e non s'interrompesse qui, e non tanto per me (tanto non so mai chi legge cosa e quanto e come di questi post), bensì per questo importante libro di cui provo a scrivere. E così come parliamo di lettori, parliamo ora di pubblico (e guarda caso di amore, visto che il dramma teatrale in questione di questo parla, di amore impossibile, amore-inganno e delle sue manifestazioni creatrici). Si intitola proprio Il pubblico un lavoro teatrale incompiuto e poco frequentato del poeta della generazione del 1898, fucilato a Víznar circa ottant'anni fa, al principio della Guerra civile spagnola (lo scorso agosto qualcuno ne ha ricordato l'anniversario tondo della morte, il 19). Ed è il titolo che mi ha avvicinato a questa opera proposta da Einaudi della sua storica collana "Collezione di teatro" (a cura di Glauco Felici, pp. XIV-56, euro 8). Non si tratta di una novità libraria, perché il volume è uscito in traduzione già nel 2006, ma stando alla vita strana eppure gloriosa di questa collana, non ci faremo scrupoli di natura temporale, rinviando, se proprio vogliamo trovare un pretesto temporale per scrivere, alla morte di Lorca, una di quelle che avrebbe senso ricordare ogni anno ("Federico è qui" titola perentoriamente un omaggio che gli dedicò Andrea Zanzotto in Fantasie di avvicinamento).
  
Per chi desidera confrontarsi con lo spagnolo, in rete gira anche qualche .pdf col testo dell'originale, ad esempio qui o qui. Proprio della storia del testo dattiloscritto sarà opportuno dare qualche coordinata, ma non troppe. Il manoscritto sul quale si basa anche la prima edizione oxoniense del testo del 1976 vede la luce a Cuba nell'estate del 1930 e porta come ultima data il 22 agosto 1930. Abbiamo notizia di due letture pubbliche del testo di lì alla morte del poeta. Nel 1933 due atti uscirono sulla rivista "Los cuatro vientos" e nel 1936 Lorca ne diede lettura all'Hôtel Buenavista di Madrid, affidando un altro manoscritto pieno di correzioni a un ignoto amico. A ogni modo, la collazione tra manoscritto cubano e le pochissime varianti non consente di uscire con un'edizione stabile, perché questo dramma, che nelle intenzioni dell'autore andava distrutto in caso di un suo destino tragico, rimane un testo altamente precario. Chi si avvicina oggi al libro che da questo precario manoscritto è stato ricavato o anche alle rappresentazioni che, pur rarissime, ci sono state (come quella del 12 dicembre 1986 a Milano per la regia di Lluís Pasqual e di cui qui si può vedere qualche interessante foto di scena) può inciampare ad ogni passo, tanta è infatti l'enigmaticità e la scabrosità delle situazioni e dei temi, nonché la densità simbolica riversata qui dal poeta (tra tutti i simboli spiccano parmenidei cavalli, ora bianchi ora neri). Esempio di metateatro sperimentale - il dramma è ambientato in un teatro dove si sta mettendo in scena Romeo e Giulietta che si scopriranno non essere un uomo e una donna, bensì due uomini di età diverse-, Il pubblico si sporge verso di noi nel solco del contrasto tra verità intima e maschera pubblica, ma allo stesso tempo sconquassa, nella sua incompletezza e audacia, le caratteristiche del teatro novecentesco, ponendo dentro e fuori dal palco un'emozione introdotta con logica e metodo. Qui Lorca, che sicuramente frequentò la scrittura automatica del Surrealismo, mostrò la libertà di uscire da quegli schemi (per quanto automatica quella scrittura potrebbe dirsi fin troppo "schematica") e osò un ventaglio di soluzioni che il lettore potrà verificare pagina dopo pagina, giocando con tutti gli elementi e riferimenti in suo possesso, metateatrali, teatrali e reali, sotto la guida di una "tremenda logica poetica" di cui aveva parlato già sul finire degli anni Venti e dalla quale si sentiva guidato. L'andamento per "quadri" è anche un andamento per maschere. Un armadio su ruote pieno di maschere diverse appese appare nella prima scena dell'opera, mentre un magico paravento rivelerà le relazioni tra i personaggi. Questo per dare qualche idea degli "arredi".


Punto importante delle "comedias imposibles" assieme a La comedia sin título, questo dramma irrappresentabile e quasi coevo del "teatro della crudeltà" di Antonin Artaud va letto e visto nei suoi quadri sciamanici. Raccontarne la trama o le figure che s'alternano nei vari quadri sarebbe azione stucchevole e deprimente. Questi quadri, fra l'altro, agiscono come diversi muri di realtà, ingaggiando un peculiare gioco di doppi fondi nella scatola teatrale di un testo e della sua messa in scena. Per chi cerca dei pretesti nobili per ricordare qualcosa e qualcuno, in quest'anno shakespeariano potremmo mettere in programma anche la riconsiderazione di questo lavoro, magari assieme agli scritti di Auden su Shakespeare. Nel dramma lorchiano, il personaggio del direttore è inizialmente il portavoce di un teatro che non vuole urtare la sensibilità comune, ma passando dietro un portentoso paravento verrà smascherato nella propria intimità, assieme agli altri personaggi. E alla fine ritroveremo il direttore come sostenitore della necessità di rompere ogni barriera architettonica del teatro e del dramma, quest'ultimo finalmente inteso come "un circo di archi attraverso i quali il vento e la luna e le creature entrano ed escono senza trovare un posto dove riposare". La logica di gestione della materia per quadri consente una perlustrazione degli andamenti paralleli sulla scena, dei confini spaziali mai dati una volta per tutte e dei risultati perseguibili con una mancata sincronizzazione dei ruoli. Il tutto si combina con una potente fantasia visionaria nei cambi dei costumi e delle ambientazioni e per questo ci si augura qualche nuova proposizione della finzione scenica di questo dramma incompleto. Nel frattempo, una lettura può risultare molto stimolante, anche nella direzione dell'interrogazione su quel pubblico che presta il titolo all'opera.

Di questo lavoro incompiuto lo stesso Lorca ebbe a dire delle parole che appaiono imperdibili e che il curatore Glauco Felici non ha mancato di riportare:
È lo specchio del pubblico. Significa far sfilare sulla scena i drammi personali che ognuno degli spettatori sta pensando, mentre guarda, spesso senza concentrarsi su di essa, la rappresentazione. E poiché il dramma di ognuno a volte è molto acuto e generalmente tutt'altro che onorevole, ebbene, subito gli spettatori si alzerebbero indignati e impedirebbero di continuare la rappresentazione. Sì: il mio testo non è un'opera da rappresentare; è, come l'ho già definito, "una poesia che deve essere fischiata".

sabato 3 settembre 2016

"A questa vertigine" di Pietro Russo: una recensione di Davide Castiglione

Ospito di seguito una recensione di A questa vertigine di Pietro Russo uscito per Italic Pequod quest'anno. Ringrazio l'autore del contributo, Davide Castiglione, per averla inviata.


Dei libri d’esordio ci si stupisce quando dimostrano una padronanza tecnica (ritmica, lessicale, versale) e una pregnanza tematica degna di autori affermati e tuttavia ancora vigili contro l’innamoramento di sé, contro le tentazioni dell’auto-manierismo – inconfessata nostalgia per un originale che si cerca cocciutamente di riportare in vita attraverso copie progressivamente più sbiadite. A questa vertigine, del catanese Pietro Russo, non solo appartiene al sopracitato novero dei libri d’esordio meritevoli, ma è portatore di una qualità ancora più rara nei giovani – una sorta di connubio che collega disciplina etica e rimozione chirurgica di ogni sovrappiù discorsivo, senza al tempo stesso rinunciare a una (ma sorvegliata, non vorace) apertura alla molteplicità sensibile e conoscitiva con cui il soggetto poetante è chiamato a misurarsi. La parola chiave è fedeltà, e l’autore di riferimento – caro tanto a Russo quanto al sottoscritto – Vittorio Sereni, forse più quello del Diario d’Algeria che degli Strumenti umani (quest’ultimo forse troppo compromesso nel suo tempo per servire da modello stilistico per i contemporanei).
Dopo questo preambolo inizio la mia lettura, con ben poca originalità ma molta pragmaticità, dal titolo, di forte ascendenza ermetica. Nel sintagma preposizionale “a questa vertigine” infatti, così decontestualizzato e assolutizzato (in realtà proviene dalla poesia a p. 41), risaltano: 1. la preposizione adall’ampio spettro semantico (dativo o locativo) e marcatore ermetico secondo un noto studio di Mengaldo; 2. il deittico questa, a rimarcare l’urgenza, la drammatica vicinanza del sostantivo 3. vertigine, parola lirica quant’altre mai, e non lontana da quell’abisso di ungarettiana memoria. Eppure, il sospetto di una letterarietà assunta per vezzo si dissolve non appena, procedendo nella lettura, ci si rende conto che “A questa vertigine” va interpretato letteralmente, e cioè che la raccolta è un tributo, quasi sacrificale, a quell’istante “unico e irripetibile, all’interno del fluire incessante del tempo (krònos) ma che dal dominio di questo, in un certo modo, si sottraeva”, come si legge nella quarta di copertina.
Non si può allora fare a meno di notare l’accorta consapevolezza macrostrutturale del libro, dall’epigrafe da Lev I. Šestov, che reca in sé il sinonimo (forse più fisico che esistenziale) precipizio, al tempo 00.00 della prima poesia, con il suo istante assoluto / tra palla e polpastrelli. Non è, denotativamente, la mezzanotte a contare, ma simbolicamente l’azzeramento suggerito dalle pur meno liriche cifre digitali. In questi primi versi già si coglie anche l’altra voce decisiva, quella tragica di De Angelis, a cui rimandano anche le scorciate immagini di allarme e violenza (lo schiaffo / del nylon quandro entra) e parole-chiave come millenni e gioia (quest’ultima, tanto sereniana quanto deangelisiana). Il tema del tempo percorre come una spina dorsale le poesie successive: in Centochiodi (p. 10) omaggio al film di Olmi citato nella poesia, ecco la paradossale nostalgia del futuro (la nostalgia dei novantanove chiodi / di là a venire), specularmente rovesciata nella poesia a p. 15: una volta questo era un futuro. C’è anche il trascorrere di un tempo sociale e antropologico, nella notazione del mutamento urbanistico (il libro / comprato dove ora c’è un outlet); l’immagine cristologica del chiodo ritorna nelle poesie a p. 17 (schioderemo il freddo dalle ossa), a p. 49 (A settembre, non ora, schioderemo le assi) e p. 58 (diventa chiodo, se puoi, fedeltà senza rimedio; e per inciso è possibile ricordare il titolo La virtù del chiodo del coetaneo e conterraneo Giuseppe Carracchia). In Un 25 novembre, circa (p. 11) il tempo è invece l’idea di una ciclicità animistica che ci precede (dal balzo dell’antilope al centro vivo / della rosa), e prende spunto dalla nascita del figlio, in versi bellissimi che occorre citare per intero:

Il giorno: quello
che ti avrebbe strappato (non bruscamente
spero) dal buio che eri per intrecciarti
a queste latitudini e longitudini
in un tempo che attecchisce sul nostro.

Ma tu c’eri da prima e sapendo ogni cosa,
dal balzo dell’antilope al centro vivo
della rosa.

L’operazione di mostrare analiticamente, in poesie diverse, le varie sfaccettature del concetto di tempo viene svelata nella poesia successiva: c’è tempo e tempo e per ognuno / un nome diverso (p. 12). Questa poesia contiene, fra l’altro, il frammento-frase come quello che non avremo che dà il titolo alla prima sezione, e che richiama la cupa rassegnazione della generazione dei trentenni alla quale l’autore così come il sottoscritto appartengono. La salvezza dallo scacco non si dà in una qualche fede trascendente, ma piuttosto nel movimento che vanifica la mira della bellissima Motrice (p. 16), con le sue allusioni ai raid che sono ahimè parte della nostra cronaca (i droni che danzano sulle nostre teste), il suo tono esortativo e soprattutto il suo unico periodo sintattico e i continui enjambement a rilanciare il movimento di sopravvivenza, che è anche – su un piano filosofico esistenziale – una celebrazione del flusso e un argine alla definizione, alla ipostatizzazione di quello che siamo.
La sezione successiva ripropone il frammento-frase come modulo stilistico e il tempo come ossessione tematica (gli anni non invano). Nell’omonima poesia ci sono chiari accenti biblici (perché così si adempia la promessa, p. 22), e coerentemente nel poemetto per testimonianza e linea di basso che costituisce la terza sezione del libro c’è una allusione ai Re Magi, cui il narratore dà parola (Ma la stella, la stella non l’abbiamo vista), raggiungendo alcuni tra i versi più memorabili del libro:

Non credevamo, in coscienza, di fissarlo
il nostro accampamento con gli anni
allargato, solo che abbiamo scordato
la stella e i muscoli del collo
hanno fatto presto a adattarsi di conseguenza.

Parte dell’efficacia di questi versi risiede nella naturalezza sostenuta del dettato, dovuta al fatto che la parola è ceduta dall’io poetante ai Re Magi – che potrebbero benissimo essere i migranti con il loro dramma quotidiano. In questi versi Russo si libera di quelle ancora troppo evidenti spie lessicali e strutturali sereniane e deangelisiane cui ho già accennato – ma altri esempi si potrebbero fare, per esempio l’arrendersi in un metro quadro nella poesia Eravamo splendidi (p. 14), chiara allusione agli anni che si cercano in un metro quadro della deangelisiana Cartina muta. Le poesie successive propongono altre scene bibliche, dagli apostoli pescatori (per cui si risignificano in prospettiva cristiana anche le montaliane maglie rotte, p. 28) alla persecuzione dei cristiani negli anfiteatri, con riferimenti da montaggio concettuale all’attualità dello spettacolo e dei talk-show (Largo alla star, al mito, alla celebrità / riconosciuta all’unisono, osanna / intanto che avanza con già addosso il sudario). Il rifarsi a scene bibliche, il dare la parola a Pietro o ai Re Magi-migranti sembra inoltre ripercorrere l’esempio del Raboni di Gesta romanorum, specialmente la poesia Tradimento di Pietro (Meglio fingerci amici, / stranieri o troppo vili). Non deve pertanto stupire che Russo riprenda l’argomento nella poesia Pietra (Trenta volte avrei dovuto rinnegarti / strozzare il gallo con le mie mani), che gioca anche con il nome dell’autore e chiude con una esplicita citazione corsivata dal Posto di vacanza di Sereni (dirama in sé una cattedrale, riferito in Sereni a un sasso).

Ritornando per un momento, e senza troppa soluzione di continuità, alla seconda sezione, occorre menzionare almeno la poesia Maria, perché intelligentemente rovescia la situazione montaliana di Nuove Stanze: entrambe le poesie infatti mettono in scena una partita a scacchi tra una figura femminile e l’io, ma mentre Montale chiude letteralmente con uno scacco (gli occhi d’acciaio dell’amata Clizia), Russo dà agenza e volizione alla figlia Maria che legge il poeta negli occhi e gli dice “sì, ce la faccio. È possibile”. Serve progettazione a questo tempo, suggerisce Russo, quella di chi non gioca / a dadi, non si affida al caso e all’azzardo. Dunque, strategie di guerriglia e sopravvivenza sono il movimento di Motrice e la lucidità di Maria, nonché il gioco di libertà della fuga delle mattonelle nella poesia a p. 35 dove il poeta incontra il sé bambino. Mi soffermo ulteriormente su questa poesia per esemplificare un aspetto che finora non ho affrontato, e che concerne la cura fonetica della composizione – in particolar modo il ricorso alle assonanze. Qui troviamo la serie adEssO-conoscEvO-lEttO-frEscO, sOlE-precisiOnE-attenziOnE e stIpItE-possIbilE. Queste assonanze sono tanto pervasive (nessun verso ne è esente) quanto discrete, accompagnano senza imperiosità melodica il discorso sul modello del Leopardi di All’infinito. Nella poesia a p. 40 il gioco del calcio (impossibile non pensare a Saba e Sereni) diventa una obliqua dichiarazione di poetica, un omaggio a chi lavora senza appariscenze, dietro le quinte: se tiene è per i chilometri del terzino / alla periferia della giocata. La fuga delle mattonelle diventa poi fuga barocca nel testo La lunga fuga, che ancora e diversamente riflette sullo scorrere del tempo, che non tutto intacca: è facile / immaginarsi turisti un sabato mattina di sole / a novembre, sessant’anni fa come ora (p. 45).

La sezione Tra due possibili, da cui è tratta quest’ultima poesia, ha un più concreto ancoraggio nei luoghi, nei toponimi: Catania e l’Etna in Con questa distanza, dove fra l’altro c’à un raffinato quanto discreto anagramma fra lenta e l’Etna in fine verso; i nomi di Dublino, Pisa, Bordeaux e altri letti sul terminale dell’aeroporto, che offre l’occasione per riproporre e mutar di segno il motivo montaliano del rimanere a terra. Infatti, nella poesia dedicata a Esterina, Montale  strive: ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra; Russo fa invece di questa condizione una scelta di coraggio:

E puoi vedere anche noi da questa parte
che agitiamo una mano, attenti
a non staccare i piedi da terra, non
prendere il volo per nessuna ragione.

L’ultima sezione, Dove chiami, è altrettanto intensa che le precedenti ma forse a tratti meno risolta, e certamente più lirica. C’è accelerazione analogica e tendenza all’astrazione in versi come Di puro volere i giorni / farli pietra angolare / del fiato a perdere (p. 55), l’uso del verbo potere come verbo lessicale transitivo anziché come ausiliare (non posso il buio che mi rendi, p. 58), qua e là un sovrattono lievemente melodrammatico (sono queste mani / che non porto più agli occhi, padre, p. 60). Continua, tra richiamo esplicito e influsso inconscio, il confronto coi padri letterari: Sbarbaro sul versante esplicito (e le case sono case / non hanno scelta, p. 59), Sereni su quello inconscio (l’incipit A quest’ora si ferma l’aria, p. 63, a richiamare l’incipit A quest’ora / innaffiano i giardini in tutta Europa, da Concerto in giardino, Frontiera). Prima di trasformare la recensione lunga in saggio breve, conviene chiudere questa campionatura con l’intensa poesia conclusiva, dedicata ad Aldo, il secondogenito del poeta:


Ora che sei buio, fissione di istante
salvati il prodigio delle cellule
salva quei venti millimetri che ora sei
quel puntino
che palpita nel centro del monitor: il cuore
hanno detto, e io l’ho visto.


La memoria intertestuale qui va macrotestualmente all’Andrea De Alberti di Basta che io non ci sia del 2010 (che a suo tempo recensii), che chiude il suo libro con una poesia dedicata al figlio Giacomo; a livello di spunto e immaginario, però, è più vicino il Luca Benassi che in L’onore della polvere (2009) segue il figlio dal monitor prima della nascita e scrive un puntino / era ancora nostro figlio. In sostanza, come credo di aver mostrato, quest’opera prima di Pietro Russo è sostanziosa e necessaria nella sua densa esattezza, nella fitta rete di richiami intra e inter-testuali, nell’autenticità dolorosa ma talvolta anche fiduciosa che emana. Nelle prove future – questo è il mio personale augurio – mi aspetto una maggiore libertà dai maestri, una loro presenza più benigna (per dirla con Harold Bloom), nel solco di poesie come Motrice o di altre che ho citato; e magari anche una maggiore indipendenza dall’impostazione elegiaca o tragica ma sempre “grave” o “seriosa” del soggetto, esplorando più compiutamente humour, ironia, satira e tutte quelle attitudini che fanno parte delle nostre vite ma che la nostra grande tradizione lirica ha in qualche modo messo alla porta.

Davide Castiglione