Questa mattina ho assistito a un incontro con Filippo La Porta e Riccardo Staglianò. Sulla scia dei loro recenti libri, rispettivamente Indaffarati (Bompiani, pp. 180, euro 12, un estratto qui) e Al posto tuo (Einaudi, pp. 246, euro 18, un estratto qui), si sono affrontati i temi caldi del lavoro, delle nuove generazioni, del rapporto con la tecnologia e finanche il caso di qualche intellettuale che solipsisticamente crede che dopo di sé ci sia soltanto il nulla. Il mondo però va avanti anche senza di questi intellettuali e finalmente si inizia a parlare di questi temi con qualche sovrastruttura mentale in meno, evitando quella facile sociologia che diventa presto l'anagramma "ciò lo so già". Non ho ancora letto i due libri per intero, per cui può benissimo succedere che smentiscano quella che è la riflessione centrale del post, però l'incontro è risultato interessante e ha stimolato la lettura, anche in virtù di due diversi sguardi su una materia magmatica e sfuggente come quella del lavoro e del muro di cambiamento radicale su cui andranno a sbattere le generazioni di chi ha meno (ma anche più) di vent'anni oggi. Il fatto che debba ancora leggere i libri non è così fondamentale ai fini di questo post, per ora basterà darne notizia e riprendere i discorsi della presentazione odierna. Così l'appuntamento è descritto nel sito di Pordenonelegge:
Web e robot, dopo globalizzazione e finanza, stanno uccidendo la classe media. Perché piú le macchine diventano a buon mercato, piú gli esseri umani sembrano cari in confronto. Ma nello stesso tempo ognuno di noi è "indaffarato": sia nell'ansioso tentativo di restare sempre connesso sia nel condividere, nello scambiarsi qualcosa. Le nuove generazioni chiedono alle idee di incarnarsi in pratiche di vita e tentano di rideclinare il concetto di intelligenza e quello di impegno.Insomma, dopo le "famiglie di operai licenziate dai robot" de Gli altri siamo noi di Umberto Tozzi si arriva a falcidiare anche i colletti bianchi. Lo spunto dell'incontro verteva infatti su uno studio che afferma che circa la metà delle professioni oggi conosciute verrà meno nel giro di vent'anni (Staglianò ricordava che ci sono ad esempio software che scrivono automaticamente perfetti articoli di sport e finanza, vale a dire le materie giornalistiche più ricche di dati). L'incontro è risultato interessante anche perché ha saputo evitare i soliti binari di "apocalittici" contro "integrati" su cui si incanalano spesso discussioni che partono da simili premesse.
Si è quindi parlato di lavoro, economia, del rapporto col "tempo libero" e anche della cosiddetta ossimorica sharing economy. Si è discusso a lungo del caso di Uber, in Italia ancora non così noto o così dibattuto, ma che ha raggiunto ormai una capitalizzazione di borsa vertiginosa e si è parlato della commissione che Uber chiede ai suoi tassisti "free lance". Insomma, non sono mancati spunti. Se però qualcosa è mancato nella discussione è il rifarsi alle marche (o ai brand, se preferite la parola facile inglese). Troppo spesso, a mio avviso, questi dispositivi e questi "attori" sociali così pervasivi nel mondo (e anche tra le generazioni più giovani) restano fuori da letteratura, saggistica e dibattiti in generale. Ripeto: potrebbe essere che i due libri trattino diffusamente delle marche e lo scoprirò leggendo (diciamo che se ci fosse stato il tempo, una domanda sulle marche ci poteva stare sulla scia dei discorsi emersi). Uno studioso come Vanni Codeluppi, nelle sue analisi biocapitalistiche, non ha mancato di studiare alcune marche come fondamentali attori del mondo d'oggi. Tuttavia, al di là di studi specialistici, mancano dei contributi che sappiano parlare delle marche come generatori di senso, valore e esperienza (oppure, se vogliamo rovesciare la frittata, di insensatezza, disvalore e inesperienza). Resta incomprensibile la ritrosia che riscontriamo davanti alle marche in tanti scrittori contemporanei. Voglio anche aggiungere che citare una marca in un romanzo o racconto non può più essere solo il facile giochino di affibbiare uno status symbol a un dato personaggio di una storia (ad esempio "indossava un Rolex" oppure "calzava le All Star" oppure "beveva un succo Alce Nero" oppure "anziché prendere un taxi aprì la app di Uber"). Le marche sono organismi complessi che ovviamente hanno a che fare con l'economia. I social network, tutti quanti, sono brand, anche se dobbiamo considerarli dei brand con delle caratteristiche innovative. Le marche hanno una lunga storia ormai alle spalle (pensate a Disney). In linea teorica, in un mondo piatto, ultra-informato e trasparente ci sarebbe sempre meno bisogno di un dispositivo come la marca, perché l'informazione facilmente accessibile renderebbe meno significative le caratteristiche storiche di orientamento e attrazione esercitate dai brand. Detto diversamente, un mondo del genere dovrebbe condurci a valutare più la sostanza e le caratteristiche di certi prodotti, a svantaggio dei motivi più irrazionali. Eppure non è così e lo vediamo sempre più, nei tanti piccoli o giganti brand che ci circondano e nelle relazioni che intratteniamo con loro. Inoltre, gli stessi architetti sono brand, gli autori sono costruiti come brand dagli uffici stampa altrimenti faranno fatica a esistere, le stesse case editrici sognano di posizionarsi come brand. Non parliamo di certi artisti che spesso coincidono con un mero brand name. Insomma, chi voglia confrontarsi con queste tematiche del lavoro e del cambiamento sociale credo debba prendere maggiormente in considerazione i grandi attori globali, nuove "mani invisibili", che stanno dietro un nome e un logo. Rimanendo nel campo della letteratura, che è quello maggiormente coinvolto in questo blog, fa impressione la distanza a cui le marche sono ancora tenute, quasi fossero parole impure che vanno a contagiare la purezza di un testo. Naturalmente ci sono delle eccezioni e ora mi torna in mente qualche libro di Romolo Bugaro, tanto per citarne una.
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