venerdì 31 marzo 2017

7x7 con Cristina Alziati: "Come non piangenti" in una lettura di Alessandra Conte (settima puntata)


7x7 è una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.


Sono rimasta in un piccolo 
vento impigliata, fra un nespolo 
un ciliegio un fico. La bellezza
degli alberi è impressionante,
te lo dico ora così.
Tornerò a sciogliermi, più tardi
dentro il tempo archimedico, del mondo
presso la rosa, che non è la rosa
che è diventare una rosa.




Nello spazio della poesia pensante di Cristina Alziati ci sono pagine e versi anche per la sola bellezza. Il testo che inaugura la sezione Breviario propone la cartolina di un’estasi percettiva, un attimo immobile in cui tutto è fermo ed eterno e rivela bellezza impressionante, che l’autrice contempla tra gli alberi. Si tratta della stessa bellezza “che può e deve”, secondo l’Alziati, “tornare anche nel movimento delle cose e nel mondo”[1]. Il testo, compatto in nove versi di media misura compresi tra l’ottonario – in maggioranza – e l’endecasillabo, racchiude molto del panorama e dell’immaginario letterario di formazione dell’autrice, a cominciare dalla figura dell’albero. In tre periodi giustapposti asindeticamente, si condensa inoltre il tempo – nella forma di passato, presente e futuro – tema trasversale nel libro e cruciale per il messaggio complessivo affidato all’opera, che qui trova però sospensione. Si tratta del tempo di un momento, esperito come tempo magico e non storico, dimensione incantata che apre la sezione dedicata allo stupore dell’Alziati di essere “proprio qui e proprio noi, ma anche collegati ai secoli, che tutti ci stanno attorno”[2]. Al passato prossimo l’autrice propone se stessa come novus-novello angelo, forse l’Angelo Smemorato della sezione attigua precedente – che riesce a scordare “ciò che ha il potere di annientarci” – e che rimane impigliata, con figura di trasformazione allegorica, non in una tempesta, ma in un piccolo vento che la trattiene fra i rami. Ciò è l’indizio di una metamorfosi. Una buona quota del messaggio del libro è affidata alle figure della natura la quale, con gli esseri umani, condivide il destino di caducità dettato dallo scorrere cronologico.

Oltre a ciò è inevitabile, dato il contesto e le grida della storia che in altri luoghi del libro emergono, chiedersi come trovi ragione un passo similmente impostato, e quale ne sia il valore, al di là dell’apparente puro e semplice piacere della meditazione idilliaca.

Nonostante Brecht, molto amato dall’autrice, in A coloro che verranno, scriva che in tempi bui sia «quasi un delitto» «discorrere d’alberi» «perché su troppe stragi comporta il silenzio», egli stesso – in anni di esilio e fuga dal nazismo – nei versi di quel periodo, densi di senso della catastrofe, non esaurisce in essa lo spettro di ciò di cui vuol lasciare traccia. Anche l’Alziati scrive della bellezza, “quella che deve poter essere costruita nei rapporti e di quella che esiste, anche quando si parla di violenza esercitata dall’uomo sull’uomo”[3]. Come Brecht, uno degli autori di riferimento, Alziati compie il delitto-miracolo e accoglie tra i versi la gratuità della bellezza, specialmente della natura, e introduce nella poesia una sequenza arborea non interrotta da virgole: un nespolo / un ciliegio un fico, tre alberi, a sommarsi, che l’hanno trattenuta. Il verbo del primo periodo è, non casualmente, al passato (prossimo). Se pensassimo all’Angelus Novus di Benjamin, che la sezione precedente evoca tra le reminiscenze, ricorderemmo che esso è volto al passato e una tempesta impedisce il dispiegarsi delle sue ali. Lì, però, è soprattutto l’Angelo Smemorato di Klee.

In questo passo si tratta, oltre che di immagine, anche di ritmo. I primi due versi ottonari – tra i quali riesce a collocarsi una rima imperfetta sulle parole sdrucciole piccolo : nespolo, e un’assonanza interna tra i participi passati rimAsTA : impigliATA – attaccano cantilenanti con ritmo dattilico uguale: tre dattili in successione per ciascun verso. Il cambiamento ritmico del terzo verso, leggermente più lungo (decasillabo), con lo slittamento d’accenti e con la conclusione della serie con il punto fermo, frangono la regolarità dattilica iniziale, rallentano la sequenza, e pongono risalto sulla bellezza, parola isolata a fine verso. 


Sono rimAsTA in un piccOLO
vento impigliATA, fra un nespOLO
un ciliegio un fico. La bellezza


Il secondo periodo, al tempo presente, è il cuore dell’estasi contemplativa, segnalata da un certo balbettamento allitterativo di sillabe che lega tra loro i versi 4-5 e le parole che li compongono; come se la pienezza del momento fosse difficile da comunicare all’interlocutore-lettore con semplici parole umane.  Avviene così che acquisti rilievo la parola che esprime stupore, impressionante, la più lunga all’interno della frase e dei due versi, tanto più che è seguita dal breve respiro della virgola e dal v. 5, che sembra il più corto – caratterizzato da parole brevi e grammaticali monosillabiche – e che termina tronco con pausa forte del punto fermo.


[…] La bellezza
degli alberi è impressionanTE,
TE lo diCO ora COsì.


Un ulteriore segno del legame tra i primi quattro versi proviene dalle inarcature, che suggeriscono una lievissima soppressione della pausa alla fine dei versi in piccolo / vento, nell’enumerazione, tra un nespolo / un ciliegio, e in La bellezza / degli alberi.

Il terzo periodo, il cui inizio al vs 6, e parte del 7, coincidono con un tessuto fonico di ritorni leggermente più fitto, 

ToRneRò a scioglieRmi, più TaRdi
denTRo il Tempo aRchimedico


utilizza la forma del tempo futuro semplice per comunicare che non ora, nel momento di meraviglia, ma più in là, l’autrice stessa ritornerà a farsi corpo, invece, con il mondo, del mondo, ridiventerà non identificabile, entità confusa nel tempo umano, assumendone in sé i destini. Un’altra metamorfosi, dunque, fortuita e quasi casuale come il rimanere impigliati in qualcosa. Avviene la fusione del corpo della poetessa con gli elementi della natura e del paesaggio. E come nel corso della trattazione, il tempo è parola tematica e multiforme, non semplice accessorio. Due endecasillabi (i versi 7-8) concentrano dense riflessioni filosofiche e memorie letterarie. La rosa, proposta in poliptoto e come rima identica, rappresenta il topos per eccellenza di bellezza e amore a cui si aggiunge il tempo, come divenire indeterminato rispetto alle identità individuali. Qui le figure della ripetizione fanno rimbalzare il senso tra allusione, citazione ed eco di Brecht, Goethe, Celan e – per altri versi – Stein, solo per citarne alcuni. Brecht che, all’evidenza inattesa di una rosa, non sa come dirne («Come schedarla, la piccola rosa»), così come Goethe per il quale «sempre impossibile appare la rosa»[4], o La Rosa di Nessuno di Celan.

L’ultimo verso, ottonario, si ricollega a quanto già detto, ossia alla “bellezza che si manifesta anche nel movimento delle cose del mondo, le quali debbono poter essere trasformate in essa”[5]; con la quale, facendosene carico, si può forse salvare il mondo, come potrebbe suggerire implicitamente l’autrice nella poesia Viandanti (p. 65):

Vedi, ti domandavo, che questa vista
a me pare che tremi, chè fragile
la tengo fra le mani, e piango; dimmi
volge a noi forse, bellezza, una preghiera? 

Il finale diventare una rosa riconduce alle riflessioni generali e di portata più gnomica sul tempo, al divenire indeterminato rispetto all’identità individuale, che appartiene alla sfera del mutamento come esigenza che le figure della bellezza siano in connessione con il dovere della trasformazione e del cambiamento, oltre la dimensione della visione meravigliosa. Volendo infine annotare ulteriori considerazioni, si accolga una suggestione. Il breve quadro naturale descritto coinvolge il senso della vista in un fermo immagine, dove l’udito trova ricezione, eventualmente, nel fruscio della brezza, quasi un gracchiare di vecchio nastro audiovisivo nell’immobilità: bellezza antica che è qui da sempre e per sempre, rumore bianco come risposta affascinante all’epigrafe – posta immediatamente prima della poesia ad inizio sezione – e che contiene la coralità di tutte le voci evocate nel libro.






[1] Incontro Testo, “Incontrotesto – Incontro con Cristina Alziati”, cit., p. 12.
[2] Ibidem.
[3] “Chiodo fisso”, Rai Radio 3, intervista a Cristina Alziati, marzo 2012
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-919321d7-2d99-4db9-9373-abe3d1da5612.html
[4]  Ibidem.
[5] MONICA D’ONOFRIO, “Radio 3 Suite”, intervista a Cristina Alziati. http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-1d911a45-44d2-4fe3-a4dc-d36edf3ce755.html

Per visualizzare tutte le sette puntate di
"7x7 con Cristina Alziati"
potete cliccare qui.

mercoledì 29 marzo 2017

Più che la fame poté la fama: brama di fama e assenza di fame nel discorso letterario odierno

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #13

Cesare Ripa, iconologia della fama chiara
Chiediamocelo chiaramente: chi tra quelli che hanno avvicinato la scrittura di libri, siano questi di testi saggistica, prosa o poesia, non ha accarezzato almeno per qualche istante l'idea che qualcosa di queste opere rimanesse oltre il dissolversi degli amminoacidi che costituiscono le membra? Quella della sopravvivenza dell'opera dopo la morte è una questione antica, tuttavia permane sotto nuove spoglie in quest'epoca contrassegnata dall'effimero di Snapchat e degli altri social media, con nuove pieghe tutte da capire. Qualche inguaribile pura/o direbbe che lei/lui certo che no, che lei/lui manco ci pensa, che scrive solo per il presente e che non bada ai posteri, alla fama, al venir ricordato, che per lei/lui la scrittura è prima di tutto il tentativo di creare i presupposti per un confronto che risponda a una precisa necessità e a una fame di conoscenza che sta nel limbo collocato nella terra di nessuno, tra il distacco di un'opera dal suo autore e la circolazione e fruizione di questa (l'editoria allora non sarà mai sullo sfondo, ma sempre centrale). Facciamo che per praticità e soprattutto per profonda simpatia non le/gli crediamo (il perché di questa profonda simpatia emergerà nella seconda parte di questa riflessione). Facciamo anche che per questa volta l'andare a promuoversi da Fabio Fazio non c'entra (come se in televisione si potessero usare soltanto i format già pronti e bolliti senza pensare a sperimentarne di nuovi, in fondo è un mezzo così interessante e ancora inesplorato). L'invidia - pardon, il "rosicare" per usare un gergo più gradito alla capitale - qui non c'entra. Può c'entrare semmai l'agonismo, e soprattutto la vicenda della poesia è andata di pari passo col concetto di agone (e si pensi allora ai vari premi). Qui però sto provando a fare un discorso scisso tra assenza di fame e disperata, annaspante ricerca di fama e si tratta purtroppo di un discorso sbilanciato tutto a favore di quest'ultima.

Il punto è circa questo: più che la fame poté la fama e le sue brame. E come stanno le cose allora? Non so esattamente come stiano, perché ci sono sempre diversi casi, però proviamo con un esempio e prendiamo uno scrittore tra tanti possibili: Goffredo Parise. Parise è morto trent'anni fa e i suoi libri, tutto sommato, si trovano ancora. Ha avuto una discreta fortuna in vita, con alti e bassi come tutti, e la sua opera rimane abbastanza presente a trent'anni dalla morte. Ma cosa vuol dire "abbastanza presente"? Ogni tanto mi pongo domande come le seguenti e non so se sono domande utili: quanti in questa settimana dell'anno 2017 avranno letto in Italia una sua opera? Qualche decina o centinaia di persone? Migliaia addirittura? Quale capacità ha l'opera di Parise di provocare e sostenere una riflessione o una polemica utile alla contemporaneità, quantomeno a quella dell'Italia (tralasciamo qui gli aspetti legati alla traduzione e alla diffusione di un'opera scritta in una data lingua fuori dai territori in cui quella lingua è letta e capita). Quale la capacità di incidere? So bene che il destino dei libri è incalcolabile e so che mi si può obiettare che tante opere hanno i tempi lunghi della permanenza nei cataloghi editoriali o, per usare un'altra parola, nei canoni e nelle traduzioni (se opere di lingua). So che tante opere sono un tesoro per i pochi che le scoprono e questa cosa va benissimo. I classici poi non nascono a tavolino, per fortuna, anche se certe novità editoriali recenti come Le otto montagne di Paolo Cognetti sono state salutate sin dall'uscita come "classici" (a prescidendere dal valore dell'opera di Cognetti, questa fuffa di marketing va denunciata a tutti i livelli della filiera editoriale). Tutto questo per dire che, foscolianamente, pochissimo resta e ogni secolo produce pochissime opere durature. Una forza operosa le affatica di moto in moto e le opere e gli sforzi dei nostri giorni sono così digeriti e espulsi attraverso retto e ano dalla peristalsi del consumo. Ad alimentare e a contribuire alla formazione di nuovi amminoacidi di pensiero e azione resta ben poco, anche se è quel poco che diventa di volta in volta importante. Ora come ora non sappiamo se il caso di Parise, preso qui a mero esempio, rientrerà in queste poche opere di cui si parlerà tra settant'anni e più oppure se sparirà, ma serviva a ribadire che pochissimo resta. L'effimero ha varie gradazioni e poche sfumature in quanto è esso stesso ciò che sfuma.

E allora? Perché questi pensieri? Mi viene da dire che tutto il pensiero (e arrière-pensée) che riguarda la fama e i tentativi di indurla, magari con i moderni gratuiti strumenti di promozione, dovrebbe soccombere sotto il peso e la necessità di qualcosa di più concreto e immediato: la fame. Intendo fame di confronto e fame di leggere per rielaborare e interrogare, fame di nuovi dubbi e polemiche, di nuovi dossier che riguardino l'umano, il post-umano e l'extra-umano. La brama di fama, che oggi trova humus puzzolente nelle bacheche virtuali, è davvero il grande nulla con cui quotidianamente facciamo i conti ed è quello che ci sta divorando.

Sgomberato il campo da questi ostacoli e strutture d'impiccio - se mai sarà possibile lo sgombero - potrebbe diventare più facile parlare più o meno serenamente di temi plausibili e reali come la scarsità di risorse quali tempo e attenzione, la promozione (che non dovrebbe solo coincidere con l'autopromozione o col suddetto Fazio), i soldi, le vendite di un libro e la notorietà, che comunque resta necessariamente legata a una parentesi temporale circoscritta nella stragrande maggioranza dei casi. E potrebbe diventare più facile parlare dei temi e degli scopi che ci interessano quando sviluppiamo un progetto legato ancora alla forma del libro. Se le cose stanno circa così, perché non sfruttare le occasioni che la scrittura, la lettura e l'editoria offrono per riportarne il discorso su quello che ci interessa veramente fare, leggere, approfondire e possibilmente capire? Prima di tutto è un discorso di economia e igiene degli sforzi che profondiamo nei nostri giorni. Quanta energia viene quotidianamente profusa e sprecata nel tentativo di veicolare un qualche germe di fama o popolarità? Questo desiderio è trasversale e prende sia i giovani sia i più vecchi, ormai preoccupati (ossessionati?) dall'idea di poter in qualche modo gestire e veicolare la loro eredità letteraria. Si dimenticano però che l'eredità, se c'è qualcosa da ereditare, non apparterrà al morto ma da lui proverrà soltanto
.  

Riassumendo: le opere che non sono nate da una qualche necessità e da una qualche fame hanno avuto le gambe corte nei sentieri della chiara fama. Tutto il resto è noia (non ho detto gioia, ma noia).

domenica 26 marzo 2017

"Appartamenti o stanze" di Carmen Gallo: sull'ordinario e sull'alterità

Questo libro è un dossier in poesia sull'ordinario. Sgombriamo però il campo da conclusioni affrettate: parliamo di un certo ordinario, straniato eppure presentissimo e fisso, il quale non è solo dato della quotidianità e tantomeno è dato di quella quotidianità poco interessante e persino rozza che ha popolato, fino quasi a infestarli, molti tentativi di poesia recenti. Il contrario dell’ordinario poi non è lo straordinario o il fantastico. Nemmeno i sentimenti hanno esatti contrari, figuriamoci certe definizioni che riguardano “la realtà”. A quest'autrice le sensazioni d'ubriacatura o stordimento riconducibili all'ordinario e alle sue pressioni epidermiche sono note, riguardano il suo pensiero continuo e il suo porsi fra luoghi appartati, scene, persone e superfici che molto spesso si toccanoSi è scritto di ubriacatura, ma questo libro è estremamente lucido, persino liscio. Qui, come nei versi più duraturi delle epoche moderna e contemporanea, allignano relazioni e situazioni minimali appartenenti a un regno di mezzo situato proprio fra ordinario e ordinario, tra stanza e stanza, corridoio e corridoio, dentro o fuori. Il più delle volte riconosciamo questo regno come spazio murato (e il soffitto è un altro muro da cui guardare, qui come nel precedente libro Paura degli occhi), del quale si traccia nella scrittura una planimetria più o meno abitata. Ma abitata da chi? Dipende. In questo vago interregno vediamo sgattaiolare i fantasmi della mente coi loro passi felpati, le loro scene senza audio o i loro rumori senza immagini da abbinare, e poi allucinazioni, intervalli di suoni e silenzio. La rivelazione e le sovrastimate "epifanie" - se ha ancora senso nominarle in un contesto come la poesia che si regge sonoramente sull'immagine - sono un fatto acustico prima ancora che visivo? Sempre in sede di introduzione si può ricordare che la poesia di Emily Dickinson ha introdotto a questi temi meglio di ogni altro discorso, sancendo un legame quasi indissolubile tra la mente e gli spazi che questa percorre. Anzi, quella è la poesia degli spazi che la mente stessa diventa e occupa.

Interpreta questo prepotente desiderio d’essere e di registrazione della scrittura il breve libro proposto dalla seconda serie de “i miosotìs” delle edizioni d’if, un'opera che si srotola fra l'altro sotto un'epigrafe dickinsoniana. Per il passo "ONE need not be a chamber to be haunted, / One need not be a house; / The brain has corridors surpassing / Material place", l'autrice - che si occupa anche di traduzione, soprattutto del Seicento metafisico inglese - ha scelto "mente" e non con la più facile opzione di "cervello". Appartamenti o stanze di Carmen Gallo (pp. 56, euro 16) si pronuncia quindi mentre visita gli interregni che abbiamo nominato e sfronda in poche pagine e pochi testi una delle più intricate questioni aperte: la presenza delle persone singolari/plurali nel testo poetico (rimaniamo ai fantasmi pertanto). Nella fruizione e nell’analisi critica di un testo di poesia fanno quasi sempre capolino le persone: dall’"io" (quasi sempre passato per "io lirico"), al "tu" ormai passato per essere "montaliano", dal "noi" al "voi" isolato persino in un titolo di un libro di Umberto Fiori, il ragionamento su persone e pronomi non dà giustamente tregua. Non la deve dare. Queste persone sono i personaggi della poesia quando non è epica, e poco o nulla hanno a che vedere coi personaggi del romanzo, del teatro o degli schermi. Questo è anche però un libro di molte terze persone, che magari si rimpiccioliscono e poi si ingrandiscono enigmaticamente nel giro di uno stesso frammento.


Leggiamo, prima ancora di soffermarsi sui testi, una parte dell'utile nota apposta dall’autrice:

A certe storie basta una scena sola, ad altre ne servono di più per spingersi nel tempo. Nella prima sezione siamo noi a descrivere i personaggi. Noi siamo la terza persona. Quando non riusciamo più a vedere cosa succede, diventiamo una prima persona plurale, ma dura poco. Nell’ultima sezione c’è una donna che parla in prima persona, e prova a rivolgersi a un tu. L’ultima voce è sua.
Certe scene sono sinestesie di secondo grado, come nei versi "Solo le labbra continuano / a guardarci e a domandare." Si legge e si ricava a tutta prima un'impressione di sordità che ascolta ("[...] L'aria adesso / sale dal pavimento, l'uomo sparge i passi...") e di cecità che vede qualcosa che sarebbe impossibile vedere con occhi normali ("Le persone intorno ai tavoli / sono andate ad abitare / uno spazio chiuso, laterale."). A certe storie si allude soltanto, fra labbra che possiamo immaginare, e forse è opportuno riportare almeno un testo per intero, per dar conto della tenuta complessiva di uno dei frantumi che compongono l'opera:
L’uomo è rientrato in casa
rompendo il vetro con il gomito.
Ha sistemato i tavoli e ha preparato un caffè
alle donne che dormono in un angolo.
Appena sveglie hanno raccontato
la storia dell’uomo accuratamente lacerato.
L’uomo ha fatto a pezzi il giornale
e ha pianto. Le donne hanno urlato
e sono diventate piccolissime.
L’uomo le sistema una sopra l’altra
e chiude la porta della stanza.
La donna bianca sente le voci
ma non distingue i giorni.
Quando arriva nella stanza
le donne tornano grandi e urlano più forte.
Noi le chiudiamo tutte a chiave
e non si sente più nessun rumore.
In francese un anagramma di “storie” è “sortie”, "uscita". Le storie di Appartamenti o stanze non pensano alla loro uscita o alla loro fine. Questo è paradossale in un'opera così riuscita, poiché ogni opera ha incorporata la propria fine. Ma l’accrescimento di vibrazioni che si instaura alla lettura e soprattutto con le riletture (e l'invito è quello di leggere ma soprattutto di rileggere questo libro assai breve per provarne l'effetto del ritorno sulle parole), è tratteggiato con figure di ripetizione. I testi iniziano quasi tutti con "L'uomo", "La donna" che fanno o hanno già fatto qualcosa: "L'uomo ha accompagnato il vetro / in una linea gonfia e verticale" oppure "L'uomo ha ballato e ha sudato / per tutto il tempo della festa", "La donna bianca annuisce o trema", "La donna con i capelli neri / ha sceso le scale con le braccia vuote." o apparenti nonsense come "La donna bianca adesso è una sedia". Il tempo è presente, l'enigma è il punto di vista, gli interni hanno molti vetri. Quest'ultima, al plurale o al singolare "vetro", è una parola che ricorre, dall'inizio alla fine, dove compare nell'ultima strofa della poesia conclusiva ("di giorno diresti che è solo vento / tutti i vetri che ci parlano / ma nella notte non si contano / le montagne che vedevi e che di colpo / scompaiono"). Quest'ultima poesia appartiene alla sezione "La caduta più del salto" dove letteralmente scompare il punto fermo, dove si cade più di una volta, dove il nonsense smette di essere tale e l'accesso al brain/mente di cui si diceva diventa paradossalmente più agile. Così si era aperta la poesia con la poesia intitolata "quelli cadono": "ho provato a raccontarlo il lancio la caduta / ma poi lui è caduto e cade ancora / ed è caduto lontano e io non l'ho visto / e nemmeno questo so raccontarlo".

Ecco, raccontare. Per tutto il libro quello che davvero funziona (per usare un verbo in voga nella critica, anche se non si sa mai quale accezione dare al funzionamento) è la tentazione di raccontare e descrivere spostando continuamente il punto di vista, con una creazione che potrebbe mettere in crisi qualsiasi riflessione narratologica. Si ha alla fine l'impressione di un narratore dalla testa franta che si ricompone in qualcosa che è il testo poetico, ma che continuamente rifugge la propria creazione. Nella sezione intitolata "noi siamo qui", laddove il verso si dilata in prosa, l'imbroglio pare essere già nel titolo che indica il punto di presenza, eppure leggiamo:
Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno paura, scompaiono. L’uomo che vive con lei ogni tanto apre la porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma noi siamo soltanto incrostazioni nell’intonaco e non sappiamo come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto che mi somiglia. L’altro sente quello che sento io, vede quello che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo. 
Per la cronaca il testo successivo incomincia con la proposizione "Non siamo spariti". Sempre nella sua nota l’autrice ha scritto:
Questo libro racconta una storia. Le scene di questa storia si svolgono dentro e fuori spazi che somigliano a stanze, e a volte sono appartamenti. Nella stanza gli uomini e le donne agiscono, ragionano, decidono, parlano con i loro fantasmi. Raramente sono soli. A volte è possibile immaginare che ci siano altre stanze accanto a quella, e che queste insieme costituiscano mondi appartati, universi di relazioni minime.
In apertura si è parlato di ordinario. Arrivati qui si potrà anche dire che questo libro così ben congegnato è anche un libro sull'alterità e sul suo scandalo. Non si intende qui l'alterità in senso sociologico, bensì l'opposto di identità. Si ragionava all'inizio sull'ordinario e sul suo contrario e ora proviamo a tirare in ballo il contrario dell'identità, il non-io, l'oggettività o la "realtà". Ma nemmeno qui l'opposizione è netta e in questo limbo di alterità lavorano questi versi, tanto più alle successive riletture. Vi è inoltre un dolore profondo che si può percepire a non essere X o Y o Z, altre persone insomma, ed è un dolore che in alcune poesie trova spazio. Torniamo alle persone e le loro scene, tra le quali questo libro mette in opera relazioni minime. Ciò che veicola Appartamenti o stanze di Carmen Gallo è allora il disegno di una planimetria coraggiosa del brain/mente, un colloquio coi fantasmi e persino il dolore di non essere, quasi una scottatura originale, che non è il contrario del piacere di essere (o esserci). E la scrittura prova in queste pagine molte posizioni: è distesa, in piedi, sorvola una stanza o passa all'essere accoccolata. Si entra ed esce tra muri, in ambienti nei quali volteggiando si frantumano e si ricompongono "le voci sul fondo della piazza / fatta più alta dagli alberi tagliati" (dalla poesia iniziale, che potete leggere per intero qui e dedicata a chi pensa che non abbia più senso nominare gli alberi in poesia).

venerdì 24 marzo 2017

7x7 con Cristina Alziati: "Come non piangenti" in una lettura di Alessandra Conte (sesta puntata)


7x7 è una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.

 

Ricapitolazione

In una notte come questa, e lontana
qualcosa mi aveva inciso nella mente
come elenchi i nomi. lo da allora
quando chiamo la terra e la casa
la dolcezza il pane, e dentro
c'è una notte come questa, io
quando dico terra,
è disfarla, dico, la terra - è farla

- quando dico mattina ed è questa
in cui guardo Sofia andare a scuola
con altri bambini, e domando
dove ora saranno i bambini dei fuochi
i soldati bambini, quando dico
mattina, e quegli altri, con i loro
giocattoli-mina quando dico bambini - 


                                                                                              

Il significato del titolo di questa poesia, Ricapitolazione, ne anticipa il tenore sia in termini di espressione che di contenuto. Il testo infatti ridice e riscrive uno dei caratteri essenziali della poesia dell’Alziati, già esposto implicitamente nella trattazione, e lo fa avvalendosi della figura della ripetizione. Questa si realizza nell’ossessiva riproposizione di frammenti di discorso volti alla precisazione, come quando chiamo, quando dico (ripetuto quattro volte, più una quinta con dico solamente) e dell’espressione deittica come questa, che riconduce alla realtà. Il primo verso indica al lettore una situazione notturna – simile ad una che l’autrice ha già vissuto nel passato – in cui presumibilmente sia coinvolto ed immerso: infatti è indicata con l’espressione come questa. Potrebbe sembrare un’apertura classica e cantabile, che ad orecchio richiami una sera leopardiana, per la posposizione dell’aggettivo che la qualifica, lontana, tramite la congiunzione coordinante e («In una notte come questa, e lontana»). È una situazione non nuova, quella notturna, in cui spesso l’Alziati stessa si trova nelle sue poesie, specie nella prima sezione Vicoli, ed è nella notte che si sente il grido di un istrice e l’aculeo di una storia si conficca, che vanno al suicidio i piccoli, che si muove quella domanda d’inferno, che si è soli e, infine, si scrive. Anche in quest’occasione si ribadisce che qualcosa si è inciso: nella carne o nella mente non importa, poiché i piani slittano. Si parla di parole, di nomi che si incidono. Potrebbero essere anche gli elenchi dei nomi delle vittime di stermini celebri, ma il caso specifico non è importante ai fini del messaggio. Ciò che conta è la riflessione sui destini che le parole comuni assommano in sé. Ciò di cui si parla, esplicitato nella seconda strofa, è dell’infanzia, racchiusa nel nome bambini e, con essa, di tutta la parte di umanità offesa. È di fatto sulla condizione degli esseri inermi su cui si posa lo sguardo qui. E una volta feriti, resi inermi – per il macigno che grava sulla mente a causa di fatti biografici, che scivolando simboleggiano tutte le ferite del mondo – il quotidiano nasconde sempre tra le sue pieghe dei punti di buio, un lato oscuro. Così usare parole semplici e medie non è più facile perché, dice l’autrice,
  
dentro c’è una notte come questa, io
quando dico terra,
è disfarla, dico, la terra – è farla
 

È come dire che ogni volta che si usa una parola la si mette in discussione, se ne vedono gli antri oscuri dietro al senso comune pieno e positivo, come di «la casa / la dolcezza il pane»: un elenco asindetico di parole medie che si accumulano con facilità, ma non così scontate per l’autrice. Dunque considerare tutte le variabili di realizzazione delle parole, significa anche guardare la pervasività del male, farlo emergere – come in altre poesie – inaspettatamente contiguo alla vita di tutti i giorni. Di conseguenza la mattina della seconda strofa paradossalmente è la notte, e con un azzardo si potrebbe ricostruire a ritroso il discorso così: «quando dico mattina» «c’è una notte come questa», e da qui di nuovo si pensa alla mattina dell’esordio. E’ come dire: quando vedo Sofia, vedo anche i bambini soldato e i bambini morti nelle guerre, come succede a Sereni che, guardando la figlia, vede «l’angelo nero dello sterminio» e «il bambinetto ebreo» invitato «al gioco del massacro» (nella raccolta Stella variabile),[1]o a Pusterla, che associa l’immagine della figlioletta felice a quella «della bambina schiacciata da un panzer a Gaza»[2].

La forma segue il contenuto: solo il primo periodo è segnato dalla chiusura del punto fermo, il resto del testo si articola in brachilogie frammentarie coordinate in una continua iterazione di espressioni, quasi fosse un continuo ragionare e riportare i pensieri della mente. Le due strofe sono apparentemente simili per numero di versi (la prima di 8, la seconda di 7), i quali presentano ampiezza medio-lunga. Tre di questi sono significativamente degli endecasillabi: il verso 8, frazionato con lieve pathos dai segni di punteggiatura, in cui si pone la questione di pensiero del fare e disfare le parole, cioè di mettere in discussione i nomi («è disfarla, dico, la terra – è farla»); il verso 10, dove si colloca la serena e prosaica immagine della figlia che va a scuola («in cui guardo Sofia andare a scuola»); il verso 13 che nomina esplicitamente l’altro lato della medaglia, i soldati bambini, invertendo la posizione di testa e usando due plurali al posto della sequenza ordinaria del sintagma “bambini soldato”, usato comunemente per indicare il fenomeno. Vengono qui sottolineate due diverse prospettive, una più “occidentale”, per la quale dei bambini vengono sfruttati nella guerra, e una più propria della vita di questi bambini, che in altre latitudini geografiche sono attributo secondario all’essere principalmente soldati. Lo stesso procedimento d’inversione, per sottolineare l’aberrante realtà, l’Alziati usa con l’espressione giocattoli – mina in luogo di “mine giocattolo”, per sottolineare che il diritto dell’infanzia inerme sarebbe quello di essere spensierata e di giocare senza rischiare la vita.

In questo contesto è palese lo stordimento che il linguaggio, che nomina con leggerezza, genera nell’autrice, che è costretta a ribadire io perché non riesce a capacitarsi di una tale semplicità, e si chiede dove siano tutte le vite che una sola parola racchiude. Ancora una volta, il mondo descritto e nominato con nomi comuni è segnato dall’instabilità e dalla labilità, che è anche stilisticamente presente. 


[1] VITTORIO SERENI, Sarà la noia, in Poesie e prose, Milano, Mondadori, 2013, p. 264. 
[2] FABIO PUSTERLA, Le prime fragole, in Folla Sommersa, Milano, Marcos y Marcos, 2004.

mercoledì 22 marzo 2017

Il terremoto di Lisbona secondo Voltaire

Il terremoto di Lisbona, che si verificò il primo novembre 1755, fu una catastrofe tra le più impressionanti dell’epoca moderna. Colpì il giorno di Ognissanti la capitale di un paese (impero) cattolico e la devastò, causando la morte di quasi 100.000 persone. Lo sciame di discussioni e dibattiti che fece scaturire fu di portata mondiale e registriamo per quella circostanza quasi una sorta di anticipo di un’odierna breaking news planetaria. Si interessarono ovviamente scienziati e filosofi, letterati e artisti. Insomma, fu un avvenimento epocale che scosse le coscienze delle menti dell’epoca e che tuttora continua a sollecitare i nostri immaginari, soprattutto quelli più attirati dagli eventi catastrofici, molto più di quanto faccia l’epidemia di influenza spagnola, solo per fare un esempio più recente e più letale di soli cent’anni fa. L’editore Mattioli 1885, per la cura di un attivissimo Livio Crescenzi, porta in libreria la traduzione in prosa del poemetto che all’avvenimento dedicò Voltaire. Il volume intitolato Il terremoto di Lisbona (pp. 85, euro 8,90) contiene anche una lunga lettera di lettera di Jean-Jacques Rousseau e la stringata replica di Voltaire.

Si verificarono anche in quei frangenti i discorsi che, a intervalli regolari, si sono ripetuti in occasione dei grandi sismi: la natura e il rapporto dell’uomo con questa, l’antropizzazione, la riflessione attorno al bene e al male. Sono tutti discorsi che potrebbero essere liquidati da una mentalità scientifica che contempla il terremoto, di qualsiasi entità, come un avvenimento possibile e, in quanto tale, qualcosa che pone all’uomo dei “normali” problemi di adeguamento e prevenzione. Anche un paese come il Giappone, che come tutti sanno convive ormai abbastanza serenamente coi terremoti dal punto di vista delle costruzioni, ha comunque dovuto affrontare un disastro come quello di Fukushima che da un terremoto e maremoto è stato causato. La situazione italiana presenta altre fragilità, parimenti note, e questo librino ha oggi il sapore di un instant-book giocato sul nome di un classico, Voltaire per l'appunto, e non su un giornalista o anchor man di grido. I dibattiti a seguito di determinati fenomeni naturali esistono da secoli e l'epoca dei lumi fu per tanti versi un'epoca di globalizzazione ante litteram, completata sicuramente dagli sviluppi infrastrutturali mondiali dell'Ottocento. C’è una componente di riflessione e di rimbalzo che ogni terremoto porta con sé, a prescindere dal grado di “freddezza scientifica” con cui affrontiamo il tema. Che poi i continui richiami al pensare la fragilità funzionino prevalentemente al cospetto dei movimenti della terra non è una cosa positiva.
 
All’epoca di Voltaire si può dire che la sismologia come scienza non esisteva ancora e anzi, come ha ricordato Walter Benjamin, si può far risalire il suo atto di nascita alla riflessione che il terremoto di Lisbona iniettò nel giovane Immanuel Kant. Oggi, più che rinverdire dibattiti sull’ottimismo o sul pessimismo o sul problema del bene e del male sulla terra, e più che dar seguito a derive green e new age del pensiero cosmico, ogni nuovo terremoto dovrebbe interrogare radicalmente sul rapporto uomo e ambiente. Ad un livello diverso poi, potremmo spingerci a ragionare attorno ai disastri e alle catastrofi, aspetti che nelle società contemporanee hanno assunto gradi di visibilità ad altissima propagazione, fino a porci davanti a una sempre nuova estetica della catastrofe che ridifinisce passo passo, nelle nostre vite, il senso dei luoghi e dei tempi sui quali proviamo a collocarci. Catastrofe e sublime, concetti portanti, sono quindi ancora qui a ridefinirci, anche nella più straziante monotonia del giorno.