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venerdì 12 ottobre 2018

Su Vitaliano Brancati. Un'intervista con Valeria Giannetti

Librobreve intervista #83


È uscito quest'anno per Nino Aragno Editore il saggio Vitaliano Brancati di Valeria Giannetti, docente di lingua e letteratura italiana all'Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Nell'intervista che segue, l'autrice ripercorre alcuni aspetti rilevanti dell'opera brancatiana e alcune dinamiche relative alla ricezione di questa. Ringrazio Valeria Giannetti per le risposte, dense e scorrevoli ad un tempo, che davvero possono invitare alla lettura o alla rilettura dei libri dello scrittore di Pachino.


Vitaliano Brancati
(Pachino, 1907 – Torino, 1954)
LB: Partirei da un'apparente dimenticanza (dico apparente perché questi su e giù dell'interesse per un autore e la sua opera ormai sono noti e non devono più di tanto sorprendere). Le chiedo comunque perché secondo lei non sono anni "su" per Brancati e la sua presenza nelle grandi linee di forza del dibattito culturale. C'è da dire che, a un livello di pubblicazioni, Mondadori, proprio da quest'anno, sta riproponendo nei più fruibili Oscar diversi suoi titoli e che il suo saggio, assieme a pochi altri, fa eccezione. L'impressione è comunque quella di una strana mancanza di Brancati nel dibattito, oserei dire quasi una rimozione. Ma forse esagero e lei saprà correggere il tiro...
R: Brancati è stato nel suo tempo un intellettuale spregiudicatamente “inorganico”, come ha sottolineato Giulio Ferroni; critico nei confronti degli “ismi” contemporanei, vale a dire delle mode culturali e delle codificazioni ideologiche del secondo dopoguerra – profondismo, freudismo, ibsenismo, intimismo, realismo sociale, materialismo – subentrate, con effetti anch’essi negativi sulla società e la cultura italiana, ai precedenti “ismi” del regime fascista – anticomunismo, antiparlamentarismo, anticonvenzionalismo, nazionalismo, attivismo, “niccismo”. Droghe gratissime ai cervelli stanchi, le definiva Brancati. Questo spiega in parte la tiepida accoglienza che gli fu riservata dai critici, i quali lo considerarono come un moralista, o lo relegarono nella categoria degli scrittori rappresentanti di tematiche regionali, per i suoi romanzi e racconti ambientati in Sicilia. Un’interpretazione riduttiva, se si pensa che Brancati aveva affrontato anche temi scabrosi per l’epoca, come l’omosessualità, incorrendo peraltro nella censura, e che partecipava attivamente al dibattito culturale, attraverso i suoi numerosi interventi giornalistici. Anche il suo rifiuto della letteratura di ispirazione ‘metafisica’, denigrato da Alberto Savinio per esempio, aveva in realtà ragioni poetiche profonde, rimaste incomprese, che ho voluto restituire, insieme ad altri aspetti della sua opera. C’è da dire che non vi era ancora stato Sciascia, in quegli anni, a illuminare il senso profondo della “sicilitudine”, tanto discusso in seguito.
Oggi poi può parere difficile riuscire ad avvicinare i lettori a un’opera percorsa da una grande tensione morale e civile. I nostri sono anni in cui anche gli spazi del discorso culturale e sociale sono spesso colonizzati da dichiarazioni malintenzionate, destinate a influenzare masse disorientate; anni in cui il pensiero si trova a doversi dispiegare nelle forme rapide e superficiali della comunicazione odierna che, apparentemente libere, dirette, nascondono invece nuove e complesse insidie, nuove distorsioni e condizionamenti.
Proprio per questo però, mi pare importante riscoprire e rileggere uno scrittore come Brancati. Uno scrittore che con coraggio e dignità, in anni difficili, aveva scelto la strada della libertà e dell’autonomia intellettuale, della lucidità critica, dell’impegno e della militanza intesi come conquiste della coscienza civile, e non come acquiescenza a logiche partitocratiche o mediatiche. I suoi scritti possono ancora parlarci oggi, e indurci a pensare.

LB: L'apparente dimenticanza - qualora sia confermata - cozza con il lascito di uno scrittore la cui opera è probabilmente una chiave d'accesso privilegiata al carattere "italiano" largamente inteso e a decenni fondamentali della storia del nostro paese, il Fascismo in primis. Secondo lei, le due cose potrebbero in realtà essere più legate di quanto crediamo?
R: La nostra, ci è chiaro, non è l’epoca dell’autocritica costruttiva, della riflessione, del progetto. È piuttosto l’epoca delle certezze ostentate, della hỳbris, dell’altercazione sguaiata, del frastuono mediatico, di una demagogia enfatica che, più che farsi espressione della volontà del popolo, rivela i condizionamenti su di esso esercitati. Il dibattito politico attuale ne è un esempio. Gli intellettuali del Risorgimento italiano avevano mostrato che il popolo, se la parte “illuminata” di esso non lo aiuta a ritrovare coscienza di sé, della propria storia, della propria cultura, diventa una massa amorfa, dominata e sedata da élites che perseguono i propri interessi economici e politici, o degenera invece in massa riottosa, pronta ad obbedire a nuovi tribuni.
Brancati scriveva che le aberrazioni del fascismo non erano scomparse con la fine del regime, che piuttosto si erano incarnate in nuove forme ideologiche, perché insite nella natura umana, che è inclinata verso gli istinti bruti. Ma la cultura, l’arte, la letteratura, il lavoro intellettuale, possono costantemente sublimare la natura umana. La nostra visione, oggi, è meno pessimista di quella di Brancati, perché la società, rispetto agli anni del dopoguerra, ha conosciuto globalmente conquiste importanti, insieme naturalmente a nuove sfide, nuovi pericoli, e insidiosi arretramenti. Anche oggi, allora, la letteratura può e deve riaprire gli spazi del pensiero perduti, minacciati, o dimenticati. Il dovere di memoria è stato la forza dei nostri grandi scrittori; a loro dobbiamo almeno di ricordare quello che ci hanno insegnato.

LB: Poniamoci nei panni di un lettore digiuno di Brancati. Si sentirebbe di consigliare un ordine di avvicinamento alle sue opere? Da quale consiglierebbe di iniziare? Che cosa consiglierebbe di lasciare alla fine?
R: Comincerei senz’altro dai racconti, e poi dai romanzi degli anni Trenta, Sogno di un valzer e Anni perduti, nei quali la scrittura si fa dialettica del reale e dell’immaginario, tra illusione della realtà e realtà dell’illusione. Sono opere che nascono da quel “sentimento comico” che Brancati identificava come la chiave della sua apprensione e scrittura del mondo, in un’accezione tuttavia complessa, che difatti non esclude affatto un’accentuazione drammatica, e persino tragica. Gli antieroi comici di Brancati nascono come figure di un desiderio che produce illusioni, e che si consuma comicamente nel rapporto impossibile all’azione. La forza del desiderio rende la loro esperienza della realtà intermittente, o radicalmente assente, o potentemente alterata. Essi vivono del “non essere qualcuno”; e in ciò rinviano all’instabilità ontologica dell’essere, alla sua labilità, incompiutezza, discontinuità. Sciascia, per il quale Brancati era stato un riferimento importante, considerava la Sicilia come metafora del mondo. Ma già per Brancati, come per altri grandi scrittori siciliani, l’habitus antropologico dei propri personaggi è specchio di una condizione esistenziale. Il “gallismo” degli uomini del sud Italia, neologismo da lui creato, ha, come il dongiovannismo del Don Giovanni in Sicilia, un senso ontologico che eccede quello socio-culturale. Il desiderio nei romanzi di Brancati è il solo indizio reale della ‘persona’, ed esso invia dei segnali inquietanti, di dissoluzione e fuga. È il tema dei due romanzi successivi, Il bell’Antonio e Paolo il caldo, in cui alcune interrogazioni aperte dalle teorie dell’inconscio sono elaborate con esiti narrativi di una complessità molto più intensa rispetto ad altri romanzi italiani che se ne ispirano. In questa prospettiva, Paolo il caldo andrebbe letto dopo gli altri romanzi che ho citato. È un approdo ulteriore della riflessione di Brancati sulla condizione umana – e la morte prematura dello scrittore ha fatto sì che esso restasse l’ultimo. Il discorso del corpo, attraverso il quale si esprimono i personaggi di Brancati, è illustrazione del conflitto insolubile tra la materia organica e le produzioni dello spirito, tra il meccanicismo delle funzioni fisiologiche e l’astrazione intimista del pensiero. Nell’ultimo romanzo però tra l’istanza riflessiva della coscienza e l’opacità degli istinti, delle pulsioni, non vi è più che un’osmosi incessante e automatica. La coscienza si arrende alle incursioni dei sensi, imprigionata nelle cavità oscure della carne; le facoltà razionali sprofondano in esse, e si confondono con la materia organica, che le riassorbe trionfante. Il corpo allora diviene il mondo del soggetto; un mondo non più abitato da cose e persone, ma da pulsioni e “oscuri fermenti”.
Il percorso iniziatico si concluderebbe però con le prose dei Piaceri, per il loro felice equilibrio compositivo, per la loro “precisione epigrammatica”. Brancati le aveva definite come «un misto di fatti e moralità, quasi dei racconti avventurosi», con allusione alla loro natura di avventure dell’animo, secondo un modello leopardiano, e alla tensione gnoseologica che in esse si esprime. In esse l’esercizio dell’ironia critica perviene ad esorcizzare le alterazioni della realtà, a riannodare i frammenti sparsi dell’esperienza sensibile, e a ristabilire la comunicazione tra le fantasmagorie dell’immaginazione e il lavoro critico della ragione. Non è una raccolta che conclude, tutt’altro, e per questo la suggerirei alla fine del percorso.

LB: Lei insegna in Francia. Ha avuto modo di registrare diverse attenzioni nei confronti dell'opera di Brancati fuori dai confini nazionali, in Francia ma anche in altri paesi?
R: In Francia Brancati è tradotto, ma non si può certo dire che sia un autore molto conosciuto. La questione dell’italianismo all’estero è complessa; certamente legata alle politiche istituzionali in questo ambito, più o meno felici.

LB: Vorrei aprire due parentesi che esulano dal romanziere: il continente della saggistica brancatiana e la sua presenza nel cinema. Quali sono secondo lei le maggiori eredità in questi due ambiti?
R: Gli scritti saggistici di Brancati si iscrivono nella grande tradizione di letteratura morale e civile italiana. Il pensiero ‘civile’ di Leopardi – ma l’influenza leopardiana in generale è molto presente nelle opere di Brancati – ne è un riferimento teorico essenziale. Esso orienta il liberalismo e il ‘moralismo’ dello scrittore, la sua concezione dell’arte, l’interesse che egli porta alla lingua italiana, e l’interrogazione sulla condizione umana, nella sua dimensione intima e privata e nei suoi rapporti con la Storia. Di Leopardi Brancati aveva curato un’antologia, con il titolo Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), che si apre con il Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani, nel quale, ricorda Brancati, Leopardi si interroga sulla società e sulla natura delle istituzioni civili. Nel testo leopardiano Brancati identifica i presupposti di una critica del nazionalismo e dell’attivismo, alla quale egli si ispira. Dal Leopardi ‘civile’ egli desume anche le premesse per una riflessione sul rapporto degli individui con la società, e il fondamento teorico della critica del mito del progresso e del carattere perfettibile della realtà. La forza della posizione leopardiana consiste per lui nella rivendicazione dell’autonomia intellettuale degli individui e nel rifiuto della loro identificazione col sistema sociale. È in questa prospettiva che lo scrittore dichiara di non amare la propria epoca, e di non condividerne gli orientamenti ideologici e intellettuali. La scrittura saggistica di Brancati esprime il disagio provocato dalla crisi del fondamento morale dell’impegno politico. Un tema di grande attualità. Si esprime nei saggi di Brancati il monito a fare della coscienza morale il motore della vita sociale, e il suo principio di coesione; a ritrovare la sintesi di morale e vita, di sentimenti e impegno civile, di storia privata e storia pubblica, nella quale si è riconosciuta, in alcuni momenti storici determinati, la civiltà europea.
Complesso è il rapporto di Brancati col cinema, nel quale lavorava come sceneggiatore. Un lavoro che non lo soddisfaceva, percepito come alienato o alienante, e che definiva persino odioso; forse perché l’espressione artistica e la creatività nel cinema gli apparivano troppo condizionate da fattori esterni, economici, sociali, ideologici, da criteri collettivi, da mode e esigenze di mercato. Ad esso preferiva l’intensità e l’indipendenza della scrittura narrativa, essa sì sentita come vivifica e libera, perché in essa, osservava, il « cervello vive ancora di vita propria”.

LB: Dalla Sicilia al mondo: le chiedo infine di tracciare brevemente le principali traiettorie di collegamento tra l'intellettuale di Pachino e i contemporanei scrittori e intellettuali della sua epoca. 
R. Brancati è stato un grande interprete del suo tempo, e questo anche perché, come tutti i grandi scrittori, teneva attraverso le sue opere un dialogo costante con i suoi autori prediletti, italiani e stranieri. Il suo confronto critico con quei modelli fu sempre originale, e per questo spesso più interessante rispetto a quello che stabilivano altri scrittori italiani, anche di maggior successo. Il dissenso dal fascismo lo aveva indotto a una lettura di alcuni autori del Novecento – da Mann a Freud, a Einstein, Bergson, Ortega y Gasset – finalmente libera da fraintendimenti critici e distorsioni ideologiche, e destinata a dare un orientamento nuovo al suo progetto di scrittura. A Freud, per esempio, Brancati arriva attraverso La montagna incantata di Thomas Mann - lo si comprende dal suo primo romanzo, Singolare avventura di viaggio. E nel segno del “realismo assoluto”, egli accosta Gogol a De Roberto, poi a Flaubert, infine a Gide, uno degli scrittori contemporanei più ammirati, e che più hanno più contato per lui. Ai Journaux intimes di Baudelaire si era avvicinato forse perché ne era uscita un’edizione recente, curata da Sartre; ma aveva poi detestato l’introduzione di Sartre, affascinato invece dalla profondità di Baudelaire. L’eco dei Journaux intimes, e non se ne sono mai accorti i critici, percorre l’ultimo romanzo di Brancati; in Paolo il caldo la lacerazione devastante tra l’invocazione a Dio, desiderio di elevazione, e l’invocazione a Satana, piacere della degradazione, che travolge l’essere e lo precipita infine nel delirio, è quella a cui dà voce Baudelaire in Mon coeur mis à nu.

martedì 10 aprile 2018

"Il sipario era alzato. Uno sguardo sul teatro" di Charles Baudelaire

Prima ancora di addentrarci in questo libro che raccoglie scritti di Charles Baudelaire sul teatro e per il teatro, vale la pena spendere qualche parola sul contenitore abbastanza recente che lo ospita. Lemma Press è una casa editrice internazionale di Bergamo, fondata nel 2015 da Nicola Baudo, nipote del poeta francese Jean Tardieu. Uno sguardo al sito potrà introdurre meglio di tante parole un catalogo che in meno di tre anni si è popolato di pubblicazioni rilevanti come L'ombra di Huma di Ivan Bunin o Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij di Konstantin Baršt. Il libro dedicato a Baudelaire e intitolato Il sipario era alzato. Uno sguardo sul teatro (pp. 352, 27,50 euro) è curato da Federica Locatelli e contiene i contributi di Federica Locatelli stessa, di Chiara Nifosi e di Marina Spreafico. Appartiene a una collana che si chiama "Arsenale" la quale, in modo del tutto necessario, pone sotto la lente di ingrandimento non solo i problemi della traduzione letteraria, ma in particolar modo i problemi della traduzione dei testi legati al teatro. Se tutti sappiamo che le traduzioni invecchiano, sappiamo anche che quelle per il teatro rischiano di invecchiare prima di tutte le altre traduzioni: il palco in questo è implacabile, poiché sancisce in maniera inesorabile e immediata la decadenza e inaccettabilità di una traduzione oppure il suo valore e tenuta. La collana ha anche l'ambizione di esportare la tradizione italiana e importare altre letterature. Peculiarmente si pone anche la pubblicazione di testi nati sulla scena, invertendo l'ordine canonico e passando quindi a una parola che sia prima detta e poi scritta. Marina Spreafico, curatrice di collana assieme a Federica Locatelli, è direttrice del Teatro Arsenale (così capiamo da dove viene il nome di questa serie di titoli che ci auguriamo di poter osservare allungarsi negli anni a venire).

A 150 anni dalla scomparsa di Baudelaire (il libro è uscito nel 2017), il volume offre un avvicinamento inedito all'opera del poeta del cuore messo a nudo. Non mancano certo sue traduzioni italiane, ma ma mancavano traduzioni così pensate. La sua attenzione costante per il teatro, ravvisabile in tanti testi poetici e critici o nelle lettere, è qui radunata in un libro specifico che si rifà alla centralità del teatro, all'uso del testo che si può fare in teatro. E se è vero che l'immaginario teatrale ha popolato l'immaginario poetico di Baudelaire saldamente, è anche vero che davvero molti scritti paralleli alla poesia risentono di un pensiero costante che riguarda le arti sceniche. Qui il discorso si salda anche con la necessità della nuova traduzione offerta in queste pagine. Per addentrarci meglio nel volume è utile leggere la nota della traduttrice Federica Locatelli, docente di letteratura francese all'Università Cattolica di Milano. Dopo alcune considerazioni su metrica, ritmo, rima, oscillazioni sintattiche, si legge quanto segue:
La nostra traduzione ha un intento diverso e per questo volge uno sguardo al teatro. Riteniamo che la poesia debba essere letta o recitata a voce alta, affinché essa risuoni con tutto il suo trasporto e venga compresa, giungendo direttamente al cuore di chi l'ascolta. Abbiamo dunque voluto optare per una lingua scorrevole nella pronuncia, il più possibile musicale, dotata di sonorità riconoscibili siano queste rime, allitterazioni, richiami sonori, e che fornisse una resa immediata e semplice delle immagini baudelairiane. Allo spettatore di teatro, parole immagini giungono una volta soltanto, senza che possa né soffermarsi né indietreggiare come nella solitudine della lettura. Questa è stata la prospettiva che ha diretto le nostre scelte.
E quali sono dunque queste scelte? Si parte con "Al lettore", componimento liminare de I fiori del male, quindi si ritrova una cospicua selezione da Spleen e Ideale, da I Quadri parigini, da Il vino, da I fiori del male, da La Rivolta e da La morte. Si procede con la poesia "Il coperchio", databile all'altezza del 1861 e aggiunta alla terza edizione de I fiori del male del 1868 ("Le Ciel! couvercle noir de la grande marmite / Où bout l'imperceptible et vaste Humanité"), con i versi ritrovati di "A una giovane acrobata" e diversi brani da Lo Spleen di Parigi. Il cuore teorico del volume s'attesta all'altezza della pubblicazione, sempre con testo a fronte, di Dell'essenza del riso e generalmente del comico nelle arti plastiche e si conclude insospettabilmente con la pubblicazione di una lunga lettera a Hippolyte Tisserant, attore drammatico, protagonista del teatro Odéon di cui fu anche direttore. Nella lettera si fa riferimento a Ivrogne ("Ubriacone"), pièce baudelairiana che pone al centro la figura di un operaio di segheria. Quest'opera che per Georges Bataille rappresenta una vetta del pensiero del poeta mai vide la luce.