È uscito quest'anno per Nino Aragno Editore il saggio Vitaliano Brancati di Valeria Giannetti, docente di lingua e letteratura italiana all'Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Nell'intervista che segue, l'autrice ripercorre alcuni aspetti rilevanti dell'opera brancatiana e alcune dinamiche relative alla ricezione di questa. Ringrazio Valeria Giannetti per le risposte, dense e scorrevoli ad un tempo, che davvero possono invitare alla lettura o alla rilettura dei libri dello scrittore di Pachino.
Vitaliano Brancati (Pachino, 1907 – Torino, 1954) |
R: Brancati è stato
nel suo tempo un intellettuale spregiudicatamente “inorganico”, come ha
sottolineato Giulio Ferroni; critico nei confronti degli “ismi” contemporanei,
vale a dire delle mode culturali e delle codificazioni ideologiche del secondo dopoguerra
– profondismo, freudismo, ibsenismo, intimismo, realismo sociale, materialismo
– subentrate, con effetti anch’essi negativi sulla società e la cultura
italiana, ai precedenti “ismi” del regime fascista – anticomunismo,
antiparlamentarismo, anticonvenzionalismo, nazionalismo, attivismo, “niccismo”.
Droghe gratissime ai cervelli stanchi, le definiva Brancati. Questo spiega in
parte la tiepida accoglienza che gli fu riservata dai critici, i quali lo
considerarono come un moralista, o lo relegarono nella categoria degli
scrittori rappresentanti di tematiche regionali, per i suoi romanzi e racconti
ambientati in Sicilia. Un’interpretazione riduttiva, se si pensa che Brancati
aveva affrontato anche temi scabrosi per l’epoca, come l’omosessualità,
incorrendo peraltro nella censura, e che partecipava attivamente al dibattito
culturale, attraverso i suoi numerosi interventi giornalistici. Anche il suo
rifiuto della letteratura di ispirazione ‘metafisica’, denigrato da Alberto
Savinio per esempio, aveva in realtà ragioni poetiche profonde, rimaste
incomprese, che ho voluto restituire, insieme ad altri aspetti della sua opera.
C’è da dire che non vi era ancora stato Sciascia, in quegli anni, a illuminare
il senso profondo della “sicilitudine”, tanto discusso in seguito.
Oggi poi può
parere difficile riuscire ad avvicinare i lettori a un’opera percorsa da una
grande tensione morale e civile. I nostri sono anni in cui anche gli spazi del
discorso culturale e sociale sono spesso colonizzati da dichiarazioni malintenzionate,
destinate a influenzare masse disorientate; anni in cui il pensiero si trova a
doversi dispiegare nelle forme rapide e superficiali della comunicazione
odierna che, apparentemente libere, dirette, nascondono invece nuove e complesse
insidie, nuove distorsioni e condizionamenti.
Proprio
per questo però, mi pare importante riscoprire e rileggere uno scrittore come
Brancati. Uno scrittore che con coraggio e dignità, in anni difficili, aveva
scelto la strada della libertà e dell’autonomia intellettuale, della lucidità
critica, dell’impegno e della militanza intesi come conquiste della coscienza
civile, e non come acquiescenza a logiche partitocratiche o mediatiche. I suoi scritti possono ancora parlarci
oggi, e indurci a pensare.
LB: L'apparente dimenticanza - qualora sia confermata -
cozza con il lascito di uno scrittore la cui opera è probabilmente una chiave
d'accesso privilegiata al carattere "italiano" largamente inteso e a
decenni fondamentali della storia del nostro paese, il Fascismo in primis. Secondo lei, le
due cose potrebbero in realtà essere più legate di quanto crediamo?
R: La nostra, ci è
chiaro, non è l’epoca dell’autocritica costruttiva, della riflessione, del
progetto. È piuttosto l’epoca delle certezze ostentate, della hỳbris, dell’altercazione sguaiata, del
frastuono mediatico, di una demagogia enfatica che, più che farsi espressione
della volontà del popolo, rivela i condizionamenti su di esso esercitati. Il
dibattito politico attuale ne è un esempio. Gli intellettuali del Risorgimento
italiano avevano mostrato che il popolo, se la parte “illuminata” di esso non
lo aiuta a ritrovare coscienza di sé, della propria storia, della propria
cultura, diventa una massa amorfa, dominata e sedata da élites che perseguono i propri interessi economici e politici, o degenera
invece in massa riottosa, pronta ad obbedire a nuovi tribuni.
Brancati scriveva
che le aberrazioni del fascismo non erano scomparse con la fine del regime, che
piuttosto si erano incarnate in nuove forme ideologiche, perché insite nella
natura umana, che è inclinata verso gli istinti bruti. Ma la cultura, l’arte,
la letteratura, il lavoro intellettuale, possono costantemente sublimare la
natura umana. La nostra visione, oggi, è meno pessimista di quella di Brancati,
perché la società, rispetto agli anni del dopoguerra, ha conosciuto globalmente
conquiste importanti, insieme naturalmente a nuove sfide, nuovi pericoli, e
insidiosi arretramenti. Anche oggi, allora, la letteratura può e deve riaprire
gli spazi del pensiero perduti, minacciati, o dimenticati. Il
dovere di memoria è stato la forza dei nostri grandi scrittori; a loro dobbiamo
almeno di ricordare quello che ci hanno insegnato.
LB: Poniamoci nei panni di un lettore digiuno di Brancati.
Si sentirebbe di consigliare un ordine di avvicinamento alle sue opere? Da quale consiglierebbe di iniziare? Che cosa consiglierebbe di lasciare alla fine?
R: Comincerei
senz’altro dai racconti, e poi dai romanzi degli anni Trenta, Sogno di un valzer e Anni perduti, nei quali la scrittura si fa dialettica del
reale e dell’immaginario, tra illusione della realtà e realtà dell’illusione.
Sono opere che nascono da quel “sentimento
comico” che Brancati identificava come la chiave della sua apprensione e
scrittura del mondo, in un’accezione tuttavia complessa, che difatti non
esclude affatto un’accentuazione drammatica, e persino tragica. Gli antieroi
comici di Brancati nascono come figure di un desiderio che produce illusioni, e
che si consuma comicamente nel rapporto impossibile all’azione. La forza del
desiderio rende la loro esperienza della realtà intermittente, o radicalmente assente,
o potentemente alterata. Essi vivono del “non essere qualcuno”; e in ciò
rinviano all’instabilità ontologica dell’essere, alla sua labilità,
incompiutezza, discontinuità. Sciascia,
per il quale Brancati era stato un riferimento importante, considerava la
Sicilia come metafora del mondo. Ma già per Brancati, come per altri grandi
scrittori siciliani, l’habitus antropologico dei propri personaggi è specchio
di una condizione esistenziale. Il “gallismo” degli uomini del sud Italia,
neologismo da lui creato, ha, come il dongiovannismo del Don Giovanni in Sicilia, un senso ontologico che eccede quello
socio-culturale. Il desiderio nei romanzi di Brancati è il solo indizio reale
della ‘persona’, ed esso invia dei segnali inquietanti, di dissoluzione e fuga.
È il tema dei due romanzi successivi, Il
bell’Antonio e Paolo il caldo, in
cui alcune interrogazioni aperte dalle teorie dell’inconscio sono elaborate con
esiti narrativi di una complessità molto più intensa rispetto ad altri romanzi
italiani che se ne ispirano. In questa prospettiva, Paolo il caldo andrebbe letto dopo gli altri romanzi che ho citato.
È un approdo ulteriore della riflessione di Brancati sulla condizione umana – e
la morte prematura dello scrittore ha fatto sì che esso restasse l’ultimo. Il
discorso del corpo, attraverso il quale si esprimono i personaggi di Brancati, è
illustrazione del conflitto insolubile tra la materia organica e le produzioni
dello spirito, tra il meccanicismo delle funzioni fisiologiche e l’astrazione
intimista del pensiero. Nell’ultimo romanzo però tra l’istanza riflessiva della
coscienza e l’opacità degli istinti, delle pulsioni, non vi è più che un’osmosi
incessante e automatica. La coscienza si arrende alle incursioni dei sensi,
imprigionata nelle cavità oscure della carne; le facoltà razionali sprofondano
in esse, e si confondono con la materia organica, che le riassorbe trionfante. Il
corpo allora diviene il mondo del soggetto; un mondo non più abitato da cose e
persone, ma da pulsioni e “oscuri fermenti”.
Il percorso
iniziatico si concluderebbe però con le prose dei Piaceri, per il loro felice equilibrio compositivo, per la loro
“precisione epigrammatica”. Brancati le aveva definite come «un misto di fatti
e moralità, quasi dei racconti avventurosi», con allusione alla loro natura di
avventure dell’animo, secondo un modello leopardiano, e alla tensione
gnoseologica che in esse si esprime. In esse l’esercizio dell’ironia critica
perviene ad esorcizzare le alterazioni della realtà, a riannodare i frammenti
sparsi dell’esperienza sensibile, e a ristabilire la comunicazione tra le
fantasmagorie dell’immaginazione e il lavoro critico della ragione. Non è una
raccolta che conclude, tutt’altro, e per questo la suggerirei alla fine del
percorso.
LB: Lei insegna in Francia. Ha avuto modo di registrare
diverse attenzioni nei confronti dell'opera di Brancati fuori dai confini
nazionali, in Francia ma anche in altri paesi?
R: In Francia Brancati
è tradotto, ma non si può certo dire che sia un autore molto conosciuto. La
questione dell’italianismo all’estero è complessa; certamente legata alle politiche
istituzionali in questo ambito, più o meno felici.
LB: Vorrei aprire due parentesi che esulano dal
romanziere: il continente della saggistica brancatiana e la sua presenza nel
cinema. Quali sono secondo lei le maggiori eredità in questi due ambiti?
R: Gli scritti saggistici di Brancati si iscrivono nella grande tradizione di
letteratura morale e civile italiana. Il pensiero ‘civile’ di Leopardi – ma
l’influenza leopardiana in generale è molto presente nelle opere di Brancati – ne
è un riferimento teorico essenziale. Esso orienta il liberalismo e il ‘moralismo’
dello scrittore, la sua concezione dell’arte, l’interesse che egli porta alla
lingua italiana, e l’interrogazione sulla condizione umana, nella sua
dimensione intima e privata e nei suoi rapporti con la Storia. Di Leopardi
Brancati aveva curato un’antologia, con il titolo Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), che si apre con
il Discorso sullo stato presente dei
costumi degl’Italiani, nel quale, ricorda Brancati, Leopardi si interroga
sulla società e sulla natura delle istituzioni civili. Nel testo leopardiano Brancati identifica i presupposti di una
critica del nazionalismo e dell’attivismo, alla quale egli si ispira. Dal Leopardi ‘civile’ egli desume anche le premesse per una riflessione sul
rapporto degli individui con la società, e il fondamento teorico della critica
del mito del progresso e del carattere perfettibile della realtà. La forza
della posizione leopardiana consiste per lui nella rivendicazione
dell’autonomia intellettuale degli individui e nel rifiuto della loro identificazione
col sistema sociale. È in questa prospettiva che lo scrittore dichiara di non amare
la propria epoca, e di non condividerne gli orientamenti ideologici e
intellettuali. La scrittura saggistica di Brancati esprime il disagio
provocato dalla crisi del fondamento morale dell’impegno politico. Un tema di
grande attualità. Si esprime nei saggi di Brancati il monito a fare della
coscienza morale il motore della vita sociale, e il suo principio di coesione;
a ritrovare la sintesi di morale e vita, di sentimenti e impegno civile, di
storia privata e storia pubblica, nella quale si è riconosciuta, in alcuni
momenti storici determinati, la civiltà europea.
Complesso
è il rapporto di Brancati col cinema, nel quale lavorava come sceneggiatore. Un
lavoro che non lo soddisfaceva, percepito come alienato o alienante, e che
definiva persino odioso; forse perché l’espressione artistica e la creatività
nel cinema gli apparivano troppo condizionate da fattori esterni, economici,
sociali, ideologici, da criteri collettivi, da mode e esigenze di mercato. Ad
esso preferiva l’intensità e l’indipendenza della scrittura narrativa, essa sì
sentita come vivifica e libera, perché in essa, osservava, il « cervello
vive ancora di vita propria”.
LB: Dalla Sicilia al mondo: le chiedo infine di tracciare
brevemente le principali traiettorie di collegamento tra l'intellettuale di
Pachino e i contemporanei scrittori e intellettuali della sua epoca.
R. Brancati è
stato un grande interprete del suo tempo, e questo anche perché, come tutti i
grandi scrittori, teneva attraverso le sue opere un dialogo costante con i suoi
autori prediletti, italiani e stranieri. Il suo confronto critico con quei
modelli fu sempre originale, e per questo spesso più
interessante rispetto a quello che stabilivano altri scrittori italiani, anche
di maggior successo. Il dissenso dal fascismo lo aveva indotto a una lettura di
alcuni autori del Novecento – da Mann a Freud, a Einstein, Bergson, Ortega y
Gasset – finalmente libera da fraintendimenti critici e distorsioni
ideologiche, e destinata a dare un orientamento nuovo al suo progetto di
scrittura. A Freud, per esempio, Brancati arriva attraverso La montagna incantata di Thomas Mann -
lo si comprende dal suo primo romanzo, Singolare
avventura di viaggio. E nel segno del “realismo assoluto”, egli accosta
Gogol a De Roberto, poi a Flaubert, infine a Gide, uno degli scrittori
contemporanei più ammirati, e che più hanno più contato per lui. Ai Journaux intimes di Baudelaire si era
avvicinato forse perché ne era uscita un’edizione recente, curata da Sartre; ma
aveva poi detestato l’introduzione di Sartre, affascinato invece dalla
profondità di Baudelaire. L’eco dei Journaux
intimes, e non se ne sono mai accorti i critici, percorre l’ultimo romanzo
di Brancati; in Paolo il caldo la
lacerazione devastante tra l’invocazione a Dio, desiderio di elevazione, e
l’invocazione a Satana, piacere della degradazione, che travolge l’essere e lo
precipita infine nel delirio, è quella a cui dà voce Baudelaire in Mon coeur mis à nu.
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