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giovedì 9 novembre 2017

"Gli scomparsi. Storie da Chi l'ha visto?" di Maria Grazia Calandrone. Una nota di Luca Pasello

Anche quest'anno si pubblicano in sequenza le note di lettura relative a sillogi e libri finalisti del Premio letterario "Anna Osti" di Costa di Rovigo. Ringrazio la giuria del premio per la collaborazione. Il libro di Maria Grazia Calandrone Gli scomparsi. Storie da Chi l'ha visto? è una delle due segnalazioni con menzione d'onore.


Piove fitto e leggero; docilmente | macera e divaga | il mondo in questa gabbia atrocissima | sul blu spartano delle serrande – sull’ordine | cartesiano delle autostrade | sferraglianti e luttuose.
È questione cruciale, a nostro avviso, se una così felice mano necessiti, per fare della scrittura opera e di questa senso e pensiero, di apporti tanto prepotentemente dichiarati, dal paratesto all’occasione per quanto sanguinante, questa, di dolorosa memoria personale.
Sul trattamento da riservare all’occasione Novecento dixit, definitivamente; ne deriva che ogni novitas è problematica, almeno quanto irrisolto, qui, lo spiattellamento di un medium di massa, in pieno titolo e poi nelle note e inevitabilmente, di riflesso, sin dentro i testi, così (pre)potente da trasvalutare anche la più sofferta materia.
Doloroso è, per chi legge, registrare lo iato che allontana la materia/espressione da un’operazione editoriale forse opinabile, lasciandole scollate: se la scrittura, come crediamo, è scavo nel vivo di qualcosa e lavoro sui codici, la si dovrebbe preservare con maggiore cura dalla mano di Mida dei mezzi pop e delle loro finalità cosmetiche e sedative (ideologicamente tali!).
La Giuria del Premio Anna Osti apprezza ed elogia la penna di Maria Grazia Calandrone segnalandone il libro, la cui problematicità lo dice meritevole di lettura e riflessione.

Luca Pasello


I muschi pavimentano le primavere

Era buio, quella sera – un buio
molto lento e tranquillo – dal quale apparve
la vecchia con lo scialle e la lunga gonna
nera. Disse se vuoi salvare
la tua bambina, lasciala digiuna
tutto il giorno, e la notte le devi
solamente parlare
della grande distanza del paradiso.

Di lei mi resta
il lapsus sulla lingua tra figlia e vita mia. 

mercoledì 24 dicembre 2014

"Avaro nel tuo pensiero" di Lorenzo Calogero

Nel 2011 Donzelli aveva mandato in libreria Parole del tempo, primo movimento di un percorso di riproposta della poesia di Lorenzo Calogero. In questo 2014 il catalogo e la collana si arricchiscono di Avaro nel tuo pensiero (pp. XXVI-200, € 24, a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro, autrice quest'ultima de I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero uscito per le Edizioni ETS nel 2011). Si prova sempre in questi casi a riesumare le vecchie categorie del "poeta dimenticato" e dell'"emarginazione letteraria", senza ricordarsi che queste si stanno svuotando progressivamente di senso, se mai ne hanno avuto uno. Ma ben si capisce, visto che sono umani tentativi di attrarre attenzione verso una poesia che in realtà attenzione la merita comunque, solo per quello che offre e per come si dà e per tutto quello che lascia nel non detto, per come sa porsi ai nostri occhi di lettori di oltre mezzo secolo più tardi. Voglio dire che non occorre arrampicarsi su questi stratagemmi, spesso accademici, per scoprire la bellezza di una poesia come questa: "A rilento le stesse sostanze/ vedi. Non è mancanza di sole/ la luce che vien meno, la calma piena, il bosco,/ una gocciola, una luce, una casa,/ la cara sembianza di persone morte,/ com’è solido il sapore, il frutto del limone/e in altro giorno attiguo il tuo gelido sopore./ Sopra le ossa, su le medesime cose/ è opaco assiduo, in un fiore,/ deserto il batticuore."

Avaro nel tuo pensiero è il libro del 1955 rimasto inedito sino a ora, nonostante si presenti come libro di poesia già strutturato e organico, pronto per la pubblicazione. In realtà poteva uscire per Lerici, curato proprio da Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi ad inizio degli anni Sessanta dopo la morte di Calogero, ma non se ne fece nulla. Fu Amelia Rosselli, nel 1980, che tentò di rimettere in circolo i suoi versi, pubblicando un'ampia silloge sulla rivista "Tabula". Prendiamo il semplice dato annuale e facciamo un esperimento utilizzando la cronaca letteraria. Siamo nel 1955. Per rimanere al nostro paese troviamo un Montale prossimo a pubblicare La bufera e altro (1956), Alda Merini che pubblica Paura di Dio, Zanzotto è tra l'esordio di Dietro il paesaggio (1951) e Vocativo (1957). Vittorio Sereni sta nella lunga pausa tra Diario d'Algeria e la sua terza fondamentale opera, Gli strumenti umani, e si appresta a diventare direttore editoriale di Mondadori. Nel 1955 escono per Vallecchi le Poesie di un corrispondente di Calogero, Carlo Betocchi. L'anno successivo, il 1956, è quello di Laborintus di Sanguineti pubblicato per volere di Luciano Anceschi e quello di una grande prova di Nelo Risi, Polso teso. Una collana come Lo Specchio in quegli anni pubblica autori come Lucio Piccolo, Rocco Scotellaro, Maria Luisa Spaziani, Leonardo Sinisgalli ma anche poeti oggi non più frequentati come Gaetano Arcangeli, Stefano Terra, Gian Piero Bona e Orazio Napoli (è facile ricostruire queste informazioni, basta consultare il catalogo storico di Mondadori agilmente interrogabile online tramite dei filtri). Tutto questo spaccato per dire cosa? Magari anche per dire nulla, ma forse per suggerire che le questioni che fanno la memoria e l'oblio sono spesso i casi della vita da un lato e le fregnacce dall'altro, come sempre, e che finché ci appassioniamo troppo alle "riscoperte" e "alle misteriose cadute nell'oblio", che spesso combaciano più con dispute d'accademia e d'editoria che con questioni riguardanti la vita vera della poesia, non succhieremo mai la polpa di un poeta. E poi per sostenere che a noi, oggi, la poesia di Calogero interessa forse per la riscossione che la lingua compie nei testi, mentre leggiamo. C'è davvero un senso di riscossione e risarcimento che attrae verso la lettura di questi componimenti assolati e nivali, un ardere e osare che si riscontrano raramente altrove:

Sopra mormorii quadrati,
di onda in onda, sopra una vetta antica
perduta, di gennaio, i tuoi sogni
sono oggi esigui.
         Nubi dense appaiono
e non fu più che sogno,
una vanità che lievemente oscilla
dentro le tue mani modiche.
         Un sapore
esse avevano di neve
che teneramente internamente brilla.


Maria Grazia Calandrone,  in uno squarcio di felice abbrivio critico, ha scritto che in questo libro "[...] veniamo avvolti dalle nebbie di una perdita: dalle pagine esala malinconia sovrannaturale. Qualcosa che era non è più. Il mondo vero è decaduto e decaduto è il tempo. La terra è fantasmatica, fatta di ombre lacustri e baci perduti, gioie che non tornano, cose concluse. È terra fatta dal suono delle parole, che la descrivono con assonanze e allitterazioni soprattutto in r e in v: trilli e fischi di uccelli boschivi. Muoviamo in un silenzio post apocalittico, mosso da «euritmie». L’autore stesso è tutto sguardo e memoria, piaga di nostalgia per qualcosa che inverava il mondo, se prima «vergine e distesa tu potevi tutto ricoprire» e ora «tutto riverso sono dentro un mio pensiero»". Leggere Calogero è primariamente un'iniziazione acustico-fonica installata, built-in, all'interno di una scrittura divenuta gesto quotidiano (il fondo Calogero prevede 800 quaderni manoscritti) e disperazione solidificata in un passo, in un volto o una postura, tanto che il già citato Montale concluse il suo articolo Attesa per Calogero, uscito sul "Corriere della Sera" del 14 agosto 1962, sostenendo che "se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo."

Lorenzo Calogero (1910 - 1961)
Vi è in Calogero uno scorrere sotterraneo e una scossa tellurica, un mancamento che da provvisorio tende a farsi definitivo e che aggancia le altre e alte forme della poesia mondiale di quei tempi, a testimonianza che certe risorse degli artisti e del cervello vivono in tempi di limbi comuni e si sfiorano, agglutinano, pur rimanendo a distanze enormi nello spazio, in un tempo che non è più quello degli orologi e che non è mai stato quel tempo. Il nostro poeta era nato nel 1910 a Melicuccà, paesino in provincia Reggio Calabria, lo stesso anno di un altro scrittore che fu interessato e attraversato dai temi della cosiddetta "salute mentale". Mi riferisco a Mario Tobino e mi riferisco ovviamente ai Quaderni di Villa Nuccia per Calogero. Fece studi di ingegneria e poi di medicina a Napoli, si laureò nel 1937. Fino al 1955, l'anno di questo Avaro nel tuo pensiero, esercitò a sprazzi la professione di medico. La morte, avvenuta nel 1961, è ancora avvolta dal cosiddetto alone di mistero. Sembra condannato, in ugual misura, a un destino diviso tra roboante caso letterario e ricaduta nell'oblio, ma il modo migliore per salvare la sua poesia rimane uno solo: leggerla finché si è vivi. Non ci sono davvero altri metodi, funziona solo così, al di là di tutti i discorsi che riguardino il canone, la memoria e l'oblio. Si sa che il desiderio più o meno conscio di tanti scrittori è accaparrarsi un frammento di eternità, un prolungamento di memoria, ma la prospettiva di un destino di dimenticanza non deve mai abbandonarci del tutto, e non lo dico perché oggi mi sento foscoliano. Allora si legge finché si è vivi e la letteratura mi interessa perché mi serve oggi. Punto. Spesso è accaduto che ogni generazione (quello di generazione è un concetto che ha dentro parimenti vita e morte, è un concetto giusto quindi) abbia fatto le proprie scoperte e allora per la mia generazione e non solo dico che è venuta l'ora di provare a leggere Lorenzo Calogero.


AVARO NEL TUO PENSIERO


Se, da diverse parti, sottintesi i segni
divengono quel che sogni e non sai
più quale curva lena sia rosea una linea
tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella
e, senza percorso, più sopra un pensiero
ti sporgi nella medesima ora
che improvvisa si rinnovella
e ti dette le nudità del sogno,

l’anima sempre uguale era senza mistero
o l’anima puoi perdere alle radici
o la semplice nudità era un assolo.

Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.

Erme cinte di cose
appaiono già tutte le rose.

giovedì 1 settembre 2011

L'infinito mélo, pseudoromanzo di Maria Grazia Calandrone

Approda alla narrativa colei che è la voce più interessante della poesia italiana degli ultimi anni. Maria Grazia Calandrone ha compiuto il passo con un certo coraggio, anche dal punto di vista editoriale. Il libro (pag. 80, euro 12, con allegato CD audio molto bello) inaugura infatti la collana Vivavox di Luca Sossella, nuova propaggine di un editore che sulla base di metafore dei nostri sensi sta costruendo l'architettura del proprio catalogo. Molto del buono che sta uscendo negli ultimi anni sta passando per questa sigla editoriale e sarebbe interessante approfondire quest'aspetto.
Scrivevo "voce più interessante". Importante è notare cosa scrive nell'introduzione riguardo il rapporto con la voce la stessa Calandrone:
"In me e nei poeti della mia generazione la voce è stata una scoperta tarda e di occasione. Nel cominciare a leggere in pubblico, ho istintivamente scelto di scomparire come essere umano sentimentale. Altrimenti mi sarei messa a piangere. Di amore, non di pena. E di riconoscenza per chi mi stava a sentire. Per voi che in quel momento condividevate l’assoluto silenzio del mio io."
Un consiglio: leggete il libretto dopo aver ascoltato la sua voce dal CD. Vi sembrerà che la stessa storia sulla pagina prenda fiato da ciò che avete ascoltato prima. E con quello si arricchisca.

Primo pensiero: quando si legge un'opera di Maria Grazia Calandrone, sia essa poesia o prosa, è davvero lecito porsi una domanda: che cosa può una lingua? E che cosa può l'italiano? Credo davvero che nelle sue pagine troviamo distesa la profonda vitalità della nostra lingua nella sua forma più smagliante.

Secondo pensiero: in questa storia d'amore tra la protagonista e Ludo, figura maieutica, ermeneutica, enigmatica e... ludica, si ha la sensazione di una realtà che trafigge il soggetto senziente, di una realtà "data" nel sentire, anche quando non pienamente appresa (smarrimento e incomprensione avvolgono la protagonista), la stessa sensazione che in poesia può venire dalla lettura di Mario Benedetti. La produzione di Maria Grazia Calandrone pare poggiare su quella "razón vital" che ci hanno così ben illustrato un filosofo straordinario come José Ortega y Gasset e la sua altrettanto straordinaria allieva María Zambrano e nella sua scrittura troviamo un nuovo legame (alleanza?) tra io e le cose, l'anticipo della realtà e della circostanza sull'idea, il senso di una materia linguistica che è dato empirico con il resto. Non sarà un caso che in questo libro possa riemergere, delicatamente ma con vigore, quella eccezionale e forse irripetibile riflessione sul sogno, segnatamente spagnola (un fiume carsico che passa per Calderón, Cervantes, Unamuno e la stessa Zambrano), che viene restituita in una rilettura aggiornata, davvero all'altezza del nostro tempo. Che cosa vuol dire vivere, sognare, scrivere e morire (ancora "vita e scrittura", quel binomio che la Calandrone avvicina con un'intonazione inedita, così come aveva fatto, molto prima di lei, Amelia Rosselli) all'altezza del nostro tempo? Il percorso di Maria Grazia Calandrone ci interessa perché pare che conduca, libro dopo libro, a un tentativo credibile di risposta a questa domanda.

Terzi pensieri: il "mélo" del titolo è, a mio avviso, un'allusione neanche troppo celata anche alla nostra fascinazione tecnologica (nulla mi vieta di pensare a... Apple), ad una realtà che purtroppo ci sta inesorabilmente trasformando in bi-dimensional men, è il rapporto con le altre arti che Maria Grazia Calandrone conosce e perlustra attentamente, l'ossessione pittorica della voce narrante, è finanche - io credo - una rivisitazione del "melòs" greco e forse del melodramma, un melodramma circolare, un loop. Gli esiti di questo breve libro, costruito con capitoli-frammento, sono tutt'altro che tragici e tendono invece a situazioni che pendolano tra l'umoristico e l'onirico, tra il comico e l'orrore da commedia. Ecco allora che il rapporto tra poesia e prosa (lo pseudoromanzo) si salda.

Conclusione, quarto pensiero: un libro questo che, come il braccio di una gru, ci preleva senza mezze misure dal territorio periferico delle discussioni a vuoto e senza senso e ci lascia cadere nel mezzo dell'arena dove è in atto la trasformazione/adattamento della pratica della scrittura. Che ci piaccia o no, un'arena dove dobbiamo tornare a stare.