venerdì 28 agosto 2015

"On Immunity. An Inoculation" di Eula Biss: vaccini, virus e altre immunità

Avvistamenti #1

Poche righe su libri che faremmo bene a tradurre o che stanno finalmente arrivando.

Non è esagerato affermare che ci decide di non vaccinare i propri figli li "ripara" sostanzialmente nelle scelte di tanti altri genitori che decidono invece di inoculare i vaccini ai propri figli. Siamo davvero tutti legati e il mito dell'indipendenza del nostro corpo e della nostra vita, a ben vedere, non dovrebbe nemmeno essere sfatato, tanto è evidente come siano le mani di altri su di noi a darci vita e a conservarla, talvolta, e come sussista una continuità e contiguità nel vivente (sarà per quest'idea di interconnessione e di "web", intesa come ragnatela, che questo libro è stato salutato positivamente da Zuckerberg e Gates? Probabile). Proprio il tema dei vaccini, preso come punto di partenza da Eula Biss per un'analisi molto più allargata, è notoriamente caldo: lo spauracchio dell'autismo provocato dai vaccini campeggia ancora in un mondo che inizia a essere avvinghiato in una pericolosa presa antiscientifica, la quale si va rafforzando e che avrebbe molti più motivi di turbare il sonno rispetto a "Big pharma" o OGM. A diversi mesi di distanza dall'uscita di On Immunity. An Inoculation (Graywolf Press, pp. 205), che non ho letto ma di cui ho avuto sotto gli occhi almeno tre recensioni interessanti, ho scoperto che il libro è quasi pronto per Ponte alla Grazie. Il titolo? Vaccini, virus e altre immunità. Una riflessione sul contagio (in uscita a fine settembre). Mi pare un po' troppo descrittivo e sicuramente meno forte del titolo originale. Inoltre, il sottotitolo scelto quasi inverte subdolamente il titolo originale. Ad ogni modo è soltanto un titolo tradotto, anche se molto dice e diventa già una spia di un sistema di pensieri, nonché di un tentativo di rendere il titolo più commerciale. Interessante notare anche la diversa chiave scelta per la copertina, confrontando l'edizione hardcover originale e l'anteprima della copertina di Ponte alle Grazie. (Qui la recensione apparsa su "The New York Times".)

mercoledì 26 agosto 2015

da "e allora?" di Carlo Crosato

Una poesia da #52

Pubblico due testi del ventisettenne trevigiano Carlo Crosato, tratti dal libro e allora? uscito nel 2014 per Editrice Zona. L'autore si è presentato direttamente con una mail, ormai diversi mesi fa, e questa presentazione spontanea unita alla lettura del suo libro è stata una sorpresa, non soltanto per motivi di vicinanza geografica (e linguistica). Ho scelto un testo in dialetto e uno in lingua, perché entrambi coabitano nel libro. L'autore presenta questi componimenti come "elogio della spontaneità". Una parola subdola e difficile "spontaneità", tanto più in poesia. Se c'è spontaneità nell'arte deve allora per forza avere a che fare con quanto in Nietzsche coincideva con la volontà di potenza e l'eterno ritorno. Ma chi può dirsi davvero spontaneo? Eppure c'è un movimento volontario verso l'altro e gli altri, in questi versi ricolmi di persone che sembrano andare da qualche parte, proprio come le teste e i colli ripresi nella foto di copertina (resta comunque un gran peccato che Editrice Zona non si sia mai troppo preoccupata in questi anni dell'aspetto grafico e materiale dei propri libri, spesso importanti, come quando era il solo editore a offrire in lettura Giuliano Mesa). E c'è timore e pure quella necessaria "violenza" che si instaura in ogni rapporto umano, quando questo inizia (alcuni pensieri a riguardo sono finiti in questa nota che scrissi tempo fa su Le voci di Claudio Magris). E allora il problema è anche questo: quando inizia un contatto, un rapporto, dove sta la spontaneità, la volontà (compresa quella "di potenza"), e dove stanno sovrastrutture di pensiero e relazionali, pregresse e nuove, che trasciniamo all'interno di un nuovo rapporto? Me lo chiedo, lo chiedo a voi. (A me fra l'altro è capitato quello che Crosato descrive nella seconda poesia qui riportata. A voi no?) Buona lettura.


Vardando basso (18 giugno)


Quéo che parchégia
fòra dàe strìsse
e st’altro che ghe dìse drìo.

A vècia che spacca
a botìlia de l’azéo:
un odór dentro pa’ e finestre...

Del to can
che patìsse el caldo
non me ne frega gnénte.

A siòra che xe restàa vedova,
e a vièn in botéga, ma
no a desmònta dàea màchina.

El postìn che riva de corsa,
sensa gnànca el casco indòsso,
e’l’assa el motorìn impissà.

A tósa, do ore al teèfono,
a se tocca i cavéi
e dopo a se nàsa i déi.

El vècio che va dentro,
postàndose a camìsa
e controeàndose el cavàeo dée bràghe.

El tosàto che ghe córe drìo
ai pómi dea vèccia,
che li gà pèrsi dàea casséta.

D’ogni tanto un putèo,
coe gambe fòra
pa’i bùsi del carèo.

Màre e fìa in botéga insieme:
xe pì bèa so màre
de so fìa che a gà vìnti ani.

A fémena che sbèrega
co’ ’na vóse che me pàr
quéa de un’aquila inrabiàda.

L’òmo che contròea el scontrìn
sentà sóra ’na fiorièra.
A paróna che ghe crìa.

Marìo e mojèr,
i va dentro ciapài par man,
i vièn fòra sbarufàndo.

El móna co’ l’aràdio alto,
el vièn fòra dàea màchina,
ma l’aràdio no’ lo stùa.

Cossa ve metìo l’alàrme,
che co’l sóna no’ ghe sì pa’ sentirlo,
e gà da sorbìrseo st’altri?

Paré formìghe da qua insìma,
che córe, parla, ride e piànze. E mi,
stamatìna, no’ gò combinà gnénte.

’na matìna a vardàrli.
Tàsi che xe mèrcore
e dopo magnà i sèra.




Con vista sul parcheggio (18 giugno)


Quello che parcheggia/ fuori dalle strisce/ e l’altro che lo sgrida.// La vecchia che rompe/ la bottiglia dell’aceto:/ un odore dalle finestre...// Del tuo cane/ che soffre il caldo/ non me ne frega niente.// La signora che è rimasta vedova/ e viene al negozio, ma/ non scende dall’auto.// Il postino che arriva di corsa,/ senza nemmeno indossare il casco,/ e lascia il motorino acceso.// La ragazza, due ore al telefono,/ si tocca i capelli/ e dopo si annusa le dita.// Il vecchio che entra,/ aggiustandosi la camicia/ e controllandosi il cavallo dei pantaloni.// Il ragazzo che rincorre/ le mele della vecchia,/ che le ha perse dalla cassetta.// Ogni tanto un bambino,/ con le gambe a penzoloni/ dai buchi del carrello.// Madre e figlia nel negozio assieme:/ è più bella la madre/ della figlia che ha vent’anni.// La signora che urla/ con una voce che mi sembra/ quella di un’aquila arrabbiata.// L’uomo che controlla lo scontrino/ seduto su una fioriera./ La padrona che lo rimprovera.// Marito e moglie,/ entrano presi per mano,/ escono litigando.// L’insulso con la radio alta,/ esce dall’auto,/ ma la radio non la spegne.// Perché vi mettete l’allarme,/ se quando suona voi non ci siete per poterlo sentire,/ e devono sopportarlo gli altri?// Sembrate formiche da qui sopra,/ che corrono, parlano, ridono, piangono. E io,/ stamattina, non ho combinato niente.// Una mattina a guardarli./ Per fortuna che è mercoledì/ e dopo pranzo chiudono.



Amare per distrazione


Mi ha sempre divertito il ricordo
di quel giorno, in cui mi hai confessato
che lo amavi perché ti aveva detto
certe parole.
E quelle certe parole, invece,
erano mie, le avevo parlate io.

Ho sempre trovato curioso
che si possa amare una persona
per sbaglio,
per interpolazione delle fonti
se così si può dire.
Amare per dimenticanza, insomma.

lunedì 24 agosto 2015

Poesie di Audre Lorde nella traduzione di Maria Luisa Vezzali/WIT (Women In Translation)

 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


Poesie da Cables to rage di Audre Lorde nella traduzione di Maria Luisa Vezzali/WIT (Women In Translation)


Parto di sangue


Ciò che dentro di me urla
sbatte per uscire o entrare
nomina il vento, dei venti vuole la voce
dei venti vuole il potere
non è il mio cuore
e sto cercando di dirtelo
senza artifici o abbellimenti
con schegge di me che volano in ogni direzione
urli ricordi vecchi pezzi di carne
eliminati come corteccia secca
da un albero abbattuto, sopportando
o confermando
trattenendo o dando alla luce
bambino o demone
è questa nascita o esorcismo o
progettazione iniziale di me stessa
che abbozza richiama
gli affari di mio padre – ciò che dovrei
trattare – facendo
gli affari miei?

Dovrò spaccarmi
o essere abbattuta
dal colore di una parola o dalla sua mancanza?
E da quale direzione
sarà aperta la breccia
per mostrare il vero volto di me
inerme nudo e insieme
i miei figli i vostri figli i loro figli
intenti ai nostri affari comuni?


In una notte di luna piena



I

Dalla mia carne affamata
dalla mia bocca esperta
esce la forma che sto cercando
a ragione.
La curva del tuo corpo
si modella nella mia mano in attesa
la tua carne calda come luce del sole
le tue labbra rapide come uccellini
tra le tue cosce il dolce
acuto gusto dei lime

Così ti tengo
proprio nel centro del cuore
nell’esperienza della pelle
mentre le mie dita creano la tua carne
sento il tuo ventre
curvarsi sul mio.

Prima che la luna tramonti ancora
noi verremo insieme.



II

E io ero la luna
detta sulla tua carne invitante
rompevo le riserve
il pensiero arenato
le mie mani pronte alla tua alta marea
sopra e sotto dentro di te
e il passaggio della fame
presente, dimenticata.

Sorta oscura
la luna parla
i miei occhi
soppesano la tue rotondità
deliziose.


Riti di iniziazione
                      per MLK jr



Ora culla la barca all’addio.

Un tempo abbiamo sopportato di sognare
in un luogo dove i bambini giocano
i loro giochi da bambino
dove bambini sperano
che la conoscenza sopravviva
se ignari seguono il gioco
senza vincere.

I loro padri muoiono
tornati alla libertà di bambini saggi che giocano
al sapere
i loro padri muoiono
né la morte li libererà
dal crescere attraverso la conoscenza
dal sapere
quando il gioco diventa stupido
una supplica pericolosa
per un tempo senza più potere. 


Rapidi
bambini ci baciano
noi cresciamo nel sogno.



Bloodbirth
 


That which is inside of me screaming
beating about for exit or entry
names the wind, wanting winds’ voice
wanting winds’ power
it is not my heart
and I am trying to tell this
without art or embellishment
with bits of me flying out in all directions
screams memories old pieces of flesh
struck off like dry bark
from a felled tree, bearing
up or out
holding or bring forth
child or demon
is this birth or exorcism or
the beginning machinery of myself
outlining recalling
my father's business - what I must be
about - my own business
minding.

Shall I split
or be cut down
by a word's complexion or the lack of it
and from what direction
will the opening be made
to show the true face of me
lying exposed and together
my children your children their children
bent on our conjugating business.


On A Night of The Full Moon


I

Out of my flesh that hungers
and my mouth that knows
comes the shape I am seeking
for reason.
The curve of your body
fits my waiting hand
your flesh warm as sunlight
your lips quick as young birds
between your thighs the sweet
sharp taste of limes


Thus I hold you
frank in my heart's eye
in my skin's knowing
as my fingers conceive your flesh
I feel your stomach
curving against mine

Before the moon wanes again
we shall come together.


II



And I would be the moon
spoken over your beckoning flesh
breaking against reservations
beaching thought
my hands at your high tide
over and under inside you
and the passing of hungers
attended, forgotten.

Darkly risen
the moon speaks
my eyes
judging your roundness
delightful.


Rites of passage
    to MLK jr



Now rock the boat to a fare-thee-well.
Once we suffered dreaming
into a place where the children are playing
their child’s games
where children are hoping
knowledge survives
if unknowing they follow the game
without winning.

Their fathers are dying
back to the freedom of wise children playing
at knowing
their fathers are dying
whose deaths will not free them
of growing from knowledge
of knowing
when the game becomes foolish
a dangerous pleading
for time out of power.

Quick
children kiss us
we are growing through dream.

venerdì 21 agosto 2015

"Non è un paese per poeti" di Klaus Miser: fallire la mia vita / è stata la mia ambizione più riuscita

Fin troppo facile pensare al titolo del libro di McCarthy, portato sullo schermo dai fratelli Coen. E nessuno infatti vi vieta di farlo, anche se il tutto vi porterebbe piacevolmente fuori strada. Non è un paese per poeti di Klaus Miser, pubblicato da Prufrock spa (pp. 70, euro 12) in tempi assai recenti, costituisce il primo vero libro di poesia di un'autrice ha fatto della dispersione versuale, del mutamento continuo e delle situazioni policrome in cui la poesia accade il momento per dire i propri versi. Potreste incamminarvi in questo libro scegliendo più tagli obliqui: gli alberi, ad esempio, con tutte quelle betulle, i faggi ("dei faggi al sole che vivono fuori dal cerchio del tempo") o le sequoie, oppure disponendo topograficamente i rigagnoli, i fossi e i canali di scolo, potreste immaginare triangolazioni geografiche che dalle nuvole britanniche vi riportino giù in Pianura Padana, alle "pozze adriatiche" e poi fino alla città natale, Pescara, seguendo le indicazioni precise di versi che spesso ricorrono ai singoli punti cardinali ("il collo a ovest / occhi chiusi a sud"). Potreste credervi a bordo di un'astronave che vi trasporta in neri buchi siderei e fra molte vocali e consonanti rimaste isolate, date, mesi e numeri, con un rinnovato gusto per l'acrostico e per il numero espresso in cifre che percorre l'intera opera (non sarà una coincidenza che la poesia a pagina 38 inizi così: "38 miglia a est del tuo addio / tutto mi parve più leggero"). Potreste anche decidere di volta in volta quale colore prevale nella tavolozza (pantone?) di Klaus Miser, chiedervi perché la macchina da presa si soffermi sugli sterni degli uccelli, su sigarette che terminano, oppure potreste passare del tempo a scoprire come si sparpagliano i moltissimi rimandi letterari inchiodati nel testo (nella nota iniziale si legge "Nel testo scintillano isolati versi di T. S. Eliot, J. Dos Passos, M. Foucault, A. Ginsberg, J. Kerouac, P. Vicinelli e E. Villa"). Insomma, potreste davvero divertirvi a leggere questo libro frugando molteplici traiettorie ma nessuno di questi percorsi, cavalcavia, bivi, sottopassi esaurirebbe la sorpresa di una proposta che s'affaccia sul panorama poetico italiano del 2015 con la contagiosa e progressiva vertigine di un libro pienamente centrato.

Il sacco delle parole di Klaus Miser svuota immagini trattenute nel viaggiare, vegetazione ("che resta del vigore di erbe infestanti / dei canti bronzei del tradimento / del cuore di una fornace"), elementi spesso orizzontali e liquidi dei paesaggi italo-britannici incrociati alla verticalità della vegetazione e del già citato albero, un "parlar per numeri" che come accennato ritorna sovente ("3 pappagalli alla sbarra / estasi di tabacco e samovar di antichi riti / 2 cugine di nome Heather / 5 metri quadrati di soffitti pieni di preludi e di muffa / i cieli del 27 aprile oltre i vetri"), frequenti inserti dalla lingua inglese (si arriva al floydiano "goodbye blue sky goodbye" o "day after day love turns grey" di "One Of My Turns"), frequenti ricorsi alla ripetizione (la similitudine introdotta da "come" è una presenza densa e fitta, ben distinta da quella che abbiamo imparato a riconoscere in Umberto Fiori, visto che qui è spesso anaforica e martellante), variazioni quasi fumettistiche come "[...] a come bocca come noia / come baiaaa inondataaa dalla mareaaa / come sergey che si ficca in negozio / avevo solo 17 anni quando annegai nel desiderio / della terra di ermione o semplicemente delle tue gambe [...]". Affiora un paesaggio derelitto, eppure traguardato da un occhio che ridisegna la bellezza che va cercando, come nella bellissima poesia di pagina 39 ("[...] mi regalavo sulla soglia del lago / prima del rigore dell’inverno alla pensione gabriella / in una vasca arrugginita credendomi fassbinder / e invece ero solo una lampadina avvitata male / e un cane a chiazze mangiato d’amore / o una sequenza palustre di nulla / tirata a lucido per questo film [...]"). Quel che accresce mano a mano che ci addentriamo nella lettura e nell'acrostico (le iniziali di un determinato gruppo di testi vanno a formare il titolo dell'opera) è la presa di coscienza di un fatto unico e stupefacente già per la mente di chi dice e scrive: accade infatti che il ricordo viene al mondo con la poesia e non accade che un ricordo sia, più genericamente, il punto di partenza di una poesia (che poi, a ben interrogarci, dove stia il "punto di partenza" di una poesia è un aspetto davvero misterioso e non necessariamente legato a discorsi di ispirazione ma appunto, più concretamente, di "punto di partenza"). Specularmente, nella già citata dispersione e variazione versuale di questi testi, vorremmo capire dove sta la parola FINE al lavoro di revisione e cambiamento, come nella pellicola di un film. Sono questi due aspetti, a mio avviso, i punti su cui questo libro posiziona bene il proprio tentativo d'esistenza. E se un ricordo viene al mondo con la poesia, significa allora che parlare, come spesso si fa, di "necessità della poesia" non è solo un modo di dire, bensì un modo di vivere. Ritornerò su questo aspetto tra non molto.


In questi testi popolati di facchini e greti, grembi e parietarie, in cui "eternità" si elide nel passo brevissimo di un verso in "eternit", l'ipermetro assume spesso una funzione di centralità, non solo topologica ma anche di senso ("già stato scritto de rerum natura allora la notte a rimini", il già citato "dei faggi al sole che vivono fuori dal cerchio del tempo") e senz'altro spicca il cromatismo insistente, continuamente ricercato, a volte ripetuto (la saliva ad esempio è sempre gialla). Colpisce davvero la tavolozza (o pantone), in alcuni casi ogni verso contiene un colore (succede ad esempio nella poesia di pagina 59, che non a caso incomincia e termina con "P delle mie miserie pantone"). Ciò che colpisce in seconda battuta, almeno ad un livello d'analisi successivo alla lettura, è il fatto che questi stacchi e scacchi cromatici convivono in testi che poi non risultano "carichi", tantomeno "pittorici". Il colore, le variazioni sul celeste, il pervinca o il porpora, sono allora agnizione privata di un personaggio o di un paesaggio più che epifania, apparizione più che scoperta ("morfologie fluviali del blu / orbitanti nel nulla e nel bianco"; "esecuzione random di celesti seriali / morti immolati / per salvare il pervinca"). A tal proposito va segnalata 
la consonanza con l'opera di copertina di Antonio Maria Zambianchi, racchiusa in un progetto grafico convincente nel suo complesso.

Naturalmente quel ricordo riaffiorante assieme alla poesia di cui si diceva ci parla di un sincronismo mentale capace di agguantare la memoria già all'interno di una forma, quindi all'interno di un passo metrico e linguistico caratterizzato da un continuo dialogo tra io e cosmo (si prendano anche solo le "stelle", qui "stelle invecchiate", e l'occorrenza di questa parola ed emblematica allora diventa allora la poesia di pagina 43). I nomi e le visioni di Emilio Villa e Patrizia Vicinelli citati in apertura dall'autrice sono allora più  che un'affermazione di debito e amore, ma un senso di nutrizione continua, e venga davvero l'ora che si leggano sia uno che l'altra. Ho scoperto da poco la poesia di Patrizia Vicinelli, quasi in contemporanea con quella di Klaus Miser e prima di iniziare a leggere questo libro. Quel che arriva parimenti da entrambe le fonti assomiglia molto al desiderio di porre la poesia al centro della vita o quantomeno trasformarla in ciò per cui permane un senso, farne letteralmente la cosa ("solo le donne e la poesia sono gli occhi di dio"), quella più importante, al di là del discorso performativo che effettivamente le accomuna. La poesia di Klaus Miser, ora emergente in forma di libro per Prufrock spa dopo anni di oralità autodistruttiva, pone anche un interrogativo violento a tanto versificare e al "dettato" (parola ambigua nonché fraudolenta) che si incontra oggi in lingua italiana: dove si mette il rischio? Chi rischia davvero? Dove sta l'audacia e dove una sfida che sia degna di questo nome? Il libro che Klaus Miser finalmente impagina mette in riga, più o meno direttamente, un modernissimo montaggio di haiku, disperati e palpitanti, e una serie di interrogativi che è bene iniziare a rivolgere e rivolgersi, con una naturalezza che potrebbe essere la stessa che ci riconduce a prendere in mano le poesie dei succitati Villa e Vicinelli. Lì e qui il mistero, in tutto il suo vorticare onirico, giace per chi s'appresta a leggere, in un flusso testuale che sta davvero nel mondo e non solo nei confini angusti di una "lirica nazionale".

Una suggestione per chiudere, in termini scolastici si potrebbe parlare anche di "collegamento": "L'indifferenza è una maledizione legata al collo di tutti quelli che non hanno avuto il tempo di trasformare il fallimento in una svolta affascinante e temporanea della propria esistenza." Questo appunto si può leggere ne L'ultimo dio di Emidio Clementi. "epilessie da samovar e sdoppiamenti / di filiformi mattini dentro la vecchiezza delle città / e mai più i soffi di aprile dell’82 / io che non ho mai avuto respiri oceanici / ma solo pozze adriatiche / al massimo un ventolin nei jeans // una sinfonia struggente per avere tutto / e non avere niente / io sono la vita sprecata di klaus / fallire la mia vita / è stata la mia ambizione più riuscita". Questa poesia si trova invece a pagina 34.

E questa invece è per concludere, con la poesia e basta:

È nel purgatorio delle parole che marcisce la sera
è nel purgatorio delle parole che marcisce la sera
è nel purgatorio delle parole che marcisce la sera
stelle invecchiate mentre imperversa il riso
poi è
ma non so più quanto tempo dopo
rintoccava quasi la sera sulla statale per Ravenna
è nell’atavico pudore dei grembi che marcisce la sera
liquefazione dentro una sola nuca gialla
ronza nelle mie orecchie il lamento epico
di chi varcò il fiume
di chi accese il fuoco
di chi vinse il millenario pudore di un grembo su un greto
gialle s’arenavano nella tarda sera le rovine di mura
quasi a forma bizantina di E
che ci vedevano in quel parcheggio

martedì 18 agosto 2015

"La canzone teatrale di Piero Ciampi. Congetture e conversazioni sul poeta cantautore livornese" di Eugenio Ripepi

Musicali pretesti #7

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Eugenio Ripepi ha da poco pubblicato per Zem edizioni La canzone teatrale di Piero Ciampi. Congetture e conversazioni sul poeta cantautore livornese (pp. 122, euro 12). Il libro raccoglie diversi contributi, primo fra tutti quello di colui che riconobbe nel cantautore livornese il “più poeta di tutti noi", ovvero Gino Paoli. Vi troverete poi i pensieri di Enrico De Angelis, Gian Piero Alloisio, Nada, Giuseppe De Grassi, Gianmaria Testa, Max Manfredi, Pino Pavone e Arnaldo Bagnasco. Il volume si propone di analizzare l'aspetto letterario di Ciampi e, sin dal titolo, vira fortemente verso il teatro. Il libro si pone con delle congetture, come se quest'ipotesi teatrale di fondo fosse ancora tutta da dimostrare. Non è facile, non so nemmeno se sia necessario. La contiguità fra teatro e canzone è stata sancita nella formula gaberiana di teatro-canzone (più chiaro di così). Ciampi non è estraneo a questo ma resta un artista che si libera continuamente di qualsiasi briglia. Poeta, certo, anche. Cantautore, sì, come no. Ciò che lo fa grande è arrivare veloce come la luce, intenso e spiraliforme come il tungsteno di una lampadina, secco come una pacca tra le scapole di chiunque voglia aprirsi alle sue canzoni. Quale canzone scegliere allora? Questa, tra molte altre possibili.


mercoledì 12 agosto 2015

da "Emblemi" di Mario Pomilio

Una poesia da #51

Il libro Emblemi di Mario Pomilio (pp. 80, euro 7,75, a cura di Tommaso Pomilio e con una Postfazione di Tommaso Ottonieri) fu pubblicato dall'editore Cronopio nell'anno 2000. Contiene le poesie scritte dall'autore de Il quinto evangelio tra gli anni 1949 e 1953 ed è costituito da due sezioni, "Emblemi" che data 1953 e "Improvvisi" del 1949. Oltre alla ricca postfazione di Ottonieri, ogni testo è corredato di un'accurata ricostruzione della comparsa e delle differenti edizioni della manciata di testi che compongono il volume. Accanto alla riproposta dell'autore di romanzi - ricordo che Il quinto evangelio da poco è uscito per la collana "Fuoriformato. Nuova serie" de L'Orma a cura di Wanda Santini - credo possa trovar posto anche quella del poeta. Il testo che molti mesi fa scelsi per questa rubrica appartiene alla sezione "Emblemi" e apparve la prima il 21 ottobre 1956 ne "Il giornale d'Italia della domenica". 



La baia


Più tardi sarà ancora questo scialbo
odore di risacca
della curva ove spicca
di sbieco la voluta
rocciosa della baia; sarà ancora
quest'adusto ronzio d'insetti e crolli
di ghiaia e lente frante
di sangue che s'impiglia
di vena in vena e putrido
sciabordio di rottami
ritravolti dall'acqua.
E ogni insetto che scava
la vita tra i sassi,
ogni striscia di sole che disgrega
la terra tra le pietre,
o la morte che piega
gli steli tra le crepe, tutto crolla
in quest'attesa che risucchia
il letto bianco del torrente
e la vita del monte
verso l'ansa scoscesa della baia,
verso il lido di ghiaia,
verso l'onda che scava il suo smeriglio,
verso il letto di pomice ove rotola
da secoli il detritico 
silenzio di quest'ora.
Ma il cuore non s'affranca
dall'angustia sottile che ribalta
di minuto in minuto
il sentito in pensato,
il futuro in passato,
la schiuma che s'impenna nello scroscio
della risacca
in eco risospinta
di vena in vena
fino al cieco rottame che s'impiglia
ancora all'onda, al sangue, all'arso
fiottare che scompiglia
nel suo sordo risucchio
inconscio e conoscenza.

sabato 8 agosto 2015

Quote e orizzonti. Carlo Scarpa e i paesaggi veneti nella ricostruzione di Gianluca Frediani

"Infinito assente, infinito accoglimento". Così Andrea Zanzotto si appellava al paesaggio in un verso di Sovrimpressioni. Tre versi sopra però aveva tirato una riga proprio sulla parola "paesaggio" e l'aveva collocata tra stagne parentesi quadre. Probabile che simili pensieri si frapponessero tra quelli prettamente architettonici in Carlo Scarpa, dal buen retiro di Asolo in via Browning, al cospetto degli Asolani bembiani e delle Prealpi (le stesse del poeta di Pieve di Soligo), magari durante la contemplazione di quell'infinito assente/accoglimento, appoggiato a quel terrazzo da lui stesso disegnato. Per l'architetto e professore veneziano, nemmeno patentato, quel paesaggio guadagnato verso nord nella casa asolana è stato perenne punto di contemplazione e partenza di tutta una serie di progetti, a lungo meditati e soprattutto radunati nel disegno di dettagli. Scarpa, almeno inizialmente, proveniva da una formazione più pittorica che architettonica, com'era in uso all'epoca. Oggi sentiamo la lacuna pittorica nel "piano formativo" dei nuovi architetti e immagino che uno studente di architettura di Venezia possa benissimo arrivare a laurearsi senza conoscere (e meditare sul perché abbia senso studiarli) almeno un'opera di Giorgione o di Cima da Conegliano. In questi pensieri non intende esserci un rigurgito nostalgico del paesaggio che è stato, ma la consapevolezza che l'architettura debba affondare le proprie mani anche nell'arte pittorica e plastica e in un irrinunciabile ricorso all'inquadratura. I numerosissimi disegni di Scarpa erano calati nella progettazione generale, della quale il nostro era tuttavia meno "avido". E un aspetto singolare che emerge nel volume di cui scrivo ora è proprio il sostanziale pudore scarpiano per il progetto generale e l'indugiare invece sul particolare che dà profondità alla sinfonia architettonica e alla sua meravigliosa macchina degli sguardi. Gli archivi scarpiani, molteplici e frammentati e quindi di difficile accesso per i ricercatori di tutto il mondo, denunciano proprio questa cifra dell'architetto che partiva forse prima da Bellini che da Vitruvio. Quote e orizzonti. Carlo Scarpa e i paesaggi veneti di Gianluca Frediani, volume che Quodlibet propone nella collana DiAP PRINT (pp. 144, euro 18), è un appassionato scandaglio di tutto il materiale preparatorio - per molti versi squisitamente pittorico - di due degli interventi più noti dell'architetto veneziano, morto accidentalmente durante un viaggio in Giappone nel 1978: l'ampliamento della Gipsoteca canoviana di Possagno, non lontana da Asolo, collocato nel triennio 1955-57 e successivamente, negli anni Settanta, la lunga gestazione della celebre Tomba Brion a San Vito di Altivole, il monumento funebre commissionato dall'omonima famiglia (da cui il marchio Brionvega).

Il lavoro di Frediani coincide con un'approfondita perlustrazione di materiale d'archivio e arriva a confermare come il sovrabbondante disegno fosse per questo architetto italiano, oggi tra i più studiati al mondo, una via maestra e consustanziale del pensiero. L'intento dell'autore è anche quello di portare Scarpa laddove è sostanzialmente arrivato con le proprie opere, ovvero nel cuore della modernità e del dibattito architettonico assieme a Le Corbusier, Frank Lloyd Wright e Ludwig Mies van der Rohe. L'architetto-pittore si trovò per quasi tutta la vita a operare in contesti preesistenti. E anche i due lavori asolani sui quali il libro indugia non fanno eccezione: la Tomba Brion è situata al confine del piccolo cimitero dalla località trevigiana, mentre la Gispoteca canoviana di Possagno, adiacente alla casa dello scultore, è un edificio che vede la propria origine nella prima metà dell'Ottocento. L'intervento di Scarpa nella gipsoteca è duplice, da un lato sul corpo esistente e dall'altro nel paesaggio che circonda. Lo stesso dicasi per il monumento funebre di San Vito di Altivole (dove lo stesso Scarpa è sepolto). Elemento  guida dello studio di Frediani è il concetto di quota: nella casa museo dello scultore la quota +1,37 m segna il livello dei piedi mentre nella Tomba Brion la quota +1,62 m fissa il livello degli occhi. A queste linee e queste altezze Carlo Scarpa concepisce il proprio intervento architettonico nel paesaggio con cerchi, modanature, propilei, cortili, vasche e altri mirabili congegni per gettare molti sguardi sul paesaggio da posizioni di intimità, quasi uno scorgere senza essere visti. Sono queste quote a segnare l'orizzonte, una linea costantemente presente e trapuntata dai saliscendi di ogni suo disegnato pensiero.

Due link per approfondire i lavori trevigiani di Scarpa presi in esame dal libro:
- Gipsoteca canoviana di Possagno;
- Tomba Brion a San Vito di Altivole.


mercoledì 5 agosto 2015

Poesie inedite di Maria Luisa Vezzali




"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Due poesie inedite di Maria Luisa Vezzali


una voce

notte stimma
stame seme chi
il tempo ha pigiato nell’occhio
come uva nel tino
nell’orecchio un blu frusciante
che vorrebbe fiorire
e concresce
serie su serie di giorni contorti
stanze su stanze
infinite
è difficile dire
pronunciare il primo
pronome singolare
che posto è questo
che seme è

quando sale la falce di luna
quando la mente è satura
e il cuore è tutto sulle dita
e i bambini sono tutti
nei loro petali di carne
e tutte le vesti
sono sulle sedie
tutte le impronte fuori
e tutto intorno sa
di serratura

quando sapeva di mare
si poteva parlare
ma ora tutto sa di stagnola
tutto il mare
sta nella mia testa
e se parlo viene
risucchiato 



nell’ospizio del cranio

nell’unica durata nell’unico
qui possibile dimoriamo
cantando

per niente nei viali convergenti
nella madre di respiro niente
ascolto

nell’agio delle mani d’amarsi
per niente e niente seggiole intorno
al tavolo

piuttosto nella sete piuttosto
nella fame sete nella fossa
di svaso

come di notte giorno si sente
da finestre variamente aperte
nel cranio

rotolare i cibi sui ripiani
urtare le pareti del frigo
ronzando

e le porte pulsare di carne
aprire chiudere via la luce
nel fango

e le voci maturare organiche
trasudare dilatare umori
lontano

questa fitta l’abbiamo sentita
di notte giorno sentita tutta
più dentro

il nome della materia è anima
l’abbiamo sfarinata per questo
per questo


lunedì 3 agosto 2015

"Il fantasma dell'universo. Che cos'è il neutrino" di Lucia Votano

Il sisgmografo, inventato all'inizio del diciottesimo secolo dall'abate francese Jean de Hautefeuille, è stato lo strumento principe della geofisica, il nostro Virgilio nella perlustrazione di ciò che sta sotto i nostri piedi. Forse è un paradosso, ma per certi aspetti sembra essersi evoluta molto di più la conoscenza di quanto sta sopra le nostre teste che quella che va oltre i 12 chilometri carotabili in direzione centro della Terra. Insomma, come in ogni campo del sapere scientifico, anche ciò che è tutto sommato molto vicino a noi trattiene ancora molti aspetti da svelare. Del resto non era un mistero nemmeno per Eraclito: la natura ama nascondersi. Ad affiancare il sismografo sono arrivati i neutrini - e in particolar modo i geoneutrini - e non è folle confidare che nel giro di qualche decennio la nostra conoscenza di mantello e nucleo possa accrescersi grazie all'"applicazione" geofisica del geoneutrino e alla capacità di queste particelle, un miliardo di volte più numerose dei protoni e neutroni, capaci di attraversare la materia con una scarsa propensione all'interazione (è l'azzurra "luce di Čerenkov" che riesce a catturare il loro passaggio). Questa proprietà li rende delle sonde, dei messaggeri degli spazi remoti, dei quali sono in grado di fornire preziosissime informazioni ai ricercatori. Specularmente alle loro applicazioni geofisiche, sta consolidandosi un nuovo campo di ricerca di "astronomia neutrinica". Insomma, pur essendo ancora agli albori dell'epoca del neutrino, da un ventennio si sono accresciute le aspettative attorno a questa particella e la messa in opera di grandi strutture sperimentali in zone proibitive o comunque remote della terra (montagne e miniere, fondali marini e circoli polari) son lì a testimoniare questo. Le strutture dedicate alla ricerca possono poi interagire, com'è il caso dell'interazione fra CERN di Ginevra e laboratori del Gran Sasso per lo studio dei neutrini. Ecco allora che la frequentazione di un libro come quello di cui vi voglio parlare potrà risparmiare figuracce a politici futuri che tangenzialmente o professionalmente dovranno occuparsi di scienza e ricerca, com'è stato il caso del fantomatico "tunnel della Gelmini" immaginato tra la Svizzera e l'Abruzzo.

Geofisica e astronomia sono solo alcune delle prospettive che apprendiamo nel libro Il fantasma dell'universo. Che cos'è il neutrino scritto da Lucia Votano per Carocci e ospitato all'interno della collana "Città della scienza" (pp. 166, euro 13). L'autrice, per anni alla direzione dell'INFN scavato nella pancia del Gran Sasso, restituisce in questo agile volume la storia, i misteri (spesso la fisica si tinge di giallo, e non è solo un riferimento a Majorana), le "applicazioni" e l'affascinante lavoro sperimentale attorno a questa particella subatomica elementare teorizzata per la prima volta da Wolfgang Pauli, fermata poi in un modello da Fermi (che brillantemente le tenne a battesimo, dando loro il nome italiano usato in tutte le lingue e correggendo la proposta di Pauli che aveva optato per "neutrone", particella all'epoca non ancora scoperta), approfondita in Russia da Bruno Pontecorvo e quindi ampiamente studiata sperimentalmente a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Il volume inoltre getta uno sguardo sintetico sulle attuali imprese scientifiche volte allo studio di questa particella per la quale è spesso usata l'immagine del "fantasma", una parola di origine greca che curiosamente rimanda a qualcosa che appare, generato dalla fantasia umana e che nel linguaggio della divulgazione scientifica vorrebbe invece comunicare qualcosa di "difficilmente afferrabile". Le cose però stanno cambiando rapidamente attorno ai neutrini e alla loro centralità nella fisica contemporanea e il pregio di questo volume è di dar conto del lavoro di queste piattaforme sperimentali con un linguaggio accessibile ai non specialisti (in coda al libro si trova anche un glossario), conducendoli nei ventri delle montagne o in altri luoghi difficilmente accessibili come il Polo Sud (un capitolo titola efficacemente Neutrini e pinguini, un altro dedicato alle postazioni sperimentali marine Neutrini e capodogli).

La domanda che può sorgere con simili libri è sempre la stessa: quanto questi volumi divulgativi sono effettivamente accessibili ai "non specialisti"? Da pieno non-specialista posso dire che questo libro è largamente accessibile. Naturalmente in alcuni passaggi l'autrice non può fare a meno di richiamare una consolidata base di risultati sperimentali che possono scoraggiare un lettore non abituato alla formalizzazione di questa scienza. Eppure la capacità di chi sa fare anche divulgazione è quella di tenere il lettore per mano e non smarrirlo mai del tutto. Così accade nel racconto di questa particella "contesa" tra due ipotesi che risalgono a Dirac da un lato e a Majorana dall'altro (tassonomicamente per loro erano "fermioni" e non "neutrini" e questo fatto aprirebbe un interessante capitolo sull'uso delle parole in fisica). E la fatica vale il gioco (sì, gioco, perché nelle sue sfere più alte la ricerca scientifica è squisitamente vicina al gioco): c'è in ballo una delle avventure intellettuali più affascinanti che prese abbrivio dal tentativo di spiegare il decadimento beta e portò poi al Modello Standard (MS), il quale spiega le interazioni tra particelle e loro interazioni e infine alle difficoltà di convivenza teorica tra neutrini e lo stesso MS. Il moltiplicarsi di particelle e subparticelle - al lettore "non specialista" potrebbe sembrare quasi un "proliferare" di particelle  e il neutrino stesso fu introdotto in deroga al "principio di parsimonia", com'è accaduto pure al Bosone di Higgs -  è una realtà a cui ci ha resi avvezzi la fisica a partire dal secolo scorso ed è interno a un corteggiamento del pensiero umano nei confronti della natura che coinvolge ad esempio il tempo e la sua progressiva espunzione dalla fisica (sono i temi di Lee Smolin), la sua concezione come qualcosa di irreversibile, come risultato di ciò che accade o come cornice in cui tutto accade. E non si può nemmeno ignorare il dibattito attorno alla legge di natura, alla simmetria, alla stabilità delle leggi, senza dimenticare che tutta questa avventura o gioco immenso è il prodotto di neuroni che stanno dentro la nostra piccola scatola cranica la quale sta dentro l'universo, in un posto altrettanto piccolo chiamato Terra, in quello stesso cervello che ha pensato la materia oscura, abbondante e non osservabile, il succitato Modello Standard e che ora trattiene il desiderio di comprendere cosa stia al di là di questo modello. Per riportare i piedi a terra e per tornare ai nostri libri, anche il successo del recente e bellissimo Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (lo trovate persino negli Autogrill) dimostra che dobbiamo smetterla di pensare che l'abbassamento dell'asticella della qualità in editoria paghi sempre.