Chi ha sfogliato e letto qualcosa dall'epistolario di Marcel Proust - per intendersi: un insieme di lettere che in Francia Philip Kolb ha curato in ben ventuno volumi usciti tra il 1970 e il 1993 - sa che l'autore della Recherche spesso non anteponeva la data alle proprie lettere. Questo dato ha l'aria di essere rilevante per chi si affaccia su una corrispondenza sterminata che nel nostro paese, ad eccezione del Meridiano antologico curato da Gian Carlo Buzzi nel 1997 intitolato Le lettere e i giorni, si è soliti proporre e leggere a spizzichi e bocconi. L'assenza di data sembra quasi una spia del modo in cui Proust governava il flusso delle comunicazioni epistolari, non uno spregio del tempo, delle sue suddivisioni oppure una distrazione, ma un intralcio al teatro di marionette e ombre lunghe che affollava l'universo delle sue lettere. Tale montagna di lettere, che non va certo anteposta alle opere per cui ricordiamo Proust, si è via via imposta come un regesto fervido e fecondo per la scrittura delle cosiddette opere maggiori e di Contro Sainte-Beuve, essenziale scritto contenente preziose distinzioni puntualmente disattese su "io che scrive" e "opera".
Il criterio editoriale della frammentazione delle lettere secondo un destinatario ritorna anche nel caso del libro di oggi e tutto sommato si rende necessario per un epistolario talmente vasto, non soltanto per ragioni pratiche o editoriali-commerciali. Va detto poi che il libro in questione è reso possibile grazie all'apertura recente degli archivi monegaschi da parte del principe Alberto II. In Lettere al duca di Valentinois (Archinto, pp. 88, euro 18, a cura e con note di Jean-Marc Quaranta, prefazione di Jean-Yves Tadié, traduzione di Francesco Bergamasco) sono radunate quattro missive e un telegramma sinora inediti conservati a lungo negli archivi del Principato. Le ricostruzioni ci dicono che siamo tra l'estate e l'autunno 1920. Proust ha quindi 49 anni (morirà di lì a poco, nel novembre del 1922) e si rivolge al giovane Pierre de Polignac, futuro padre di Ranieri III di Monaco, che nel marzo di quell'anno aveva sposato la principessa Charlotte de Monaco, acquisendo il titolo di duca di Valentinois.
Ora un passo indietro: nel 1919 era uscito per Gallimard À l'ombre des jeunes filles en fleurs e nello stesso anno Proust aveva ricevuto il prix Goncourt. È in tale scia che si colloca questa nuova costola del suo epistolario uscita dagli archivi dinastici del Principato. In una delle lettere qui proposte Proust propone al principe la sottoscrizione a un'edizione lussuosissima di All'ombra delle fanciulle in fiore, ignorata dal duca e causa della rottura tra i due. Insomma, questa manciata di lettere è la storia di una rottura e di una sparizione che ferì lo scrittore. Da qui si passa spesso a citare la nemesi proustiana cucita sui panni nel personaggio del conte di Nassau, che per molti interpreti evoca il duca. Eppure sappiamo proprio da Proust (e anche con Raboni, il suo importante traghettatore italiano) oppure anche dalle Lettere alle amiche di Céline (Adelphi, 2016) quanto inutile, piccino e inconcludente sia l'esercizio di trovare analogie tra personaggi di un'opera e personaggi reali che compaiono nella biografia o in un epistolario (Céline ad esempio se la prendeva con la madre e i suoi commenti all'uscita di un nuovo libro). Proust si mostra prodigo di consigli letterari per il duca, persona reputata di grande sensibilità artistica, ma alla fine questo sparuto gruppo di lettere altro non è che la storia di un'interruzione di una relazione che era iniziata durante la guerra, nel 1917, quando il conte era però in partenza per la Cina per una missione diplomatica. Si lascia a chi leggerà questo breve libro la possibilità di fare ipotesi su questo taglio, la possibilità di leggere anche le ipotesi che compaiono nella lunga postfazione, che sono ricondotte a una incompatibilità tra queste due creature e alle sollecitazioni pressanti e sgradevoli di Proust. Eppure questa interruzione che sappiamo essere voluta dal duca ha quasi il sapore di un gesto che si fa per preservare qualcosa che c'è stato, per proteggerlo almeno finché si è in vita.
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giovedì 7 giugno 2018
venerdì 15 dicembre 2017
"Buste di poesia" di Emily Dickinson: le "envelope poems" e un rinvio a interrogarsi sull'atto di pubblicare
Con il senso della parsimonia (e dell'ecologia) di un'abitante del New England, Emily Dickinson vergava ritagli e lembi di buste che sono state preservate. Le minute, assieme alle trascrizioni e alle traduzioni, si trovano ora anche nel volume Buste di poesia pubblicato da Archinto, nostro editore epistolare (pp. 120, 25 euro). Nadia Fusini ha curato e introdotto l'edizione di quello che sostanzialmente è Envelope Poems, libro editato da Marta Werner e dall'artista visiva Jen Bervin, il quale si rifà a The Gorgeous Nothings, un volume montato su quello che ci consegna l'archivio dei manoscritti tardivi. Ora, tralasciando il fatto che parliamo della più importante autrice di poesie d'America, sarà bene ricordare che questa scrittura lacerata e, almeno inizialmente, sparpagliata non è certo un caso isolato. In tempi più vicini a noi, vi sarà magari capitato di vedere qualche verso, poi finito nelle opere più importanti di Zanzotto, vergato inizialmente su scatole appiattite di medicinali o su altro materiale di risulta. È facile convenire sul fatto che non è il lussuoso taccuino Moleskine o il MacBook Air che fanno uno scrittore e non è nemmeno questo il punto quando si affronta quest'accezione del come e dove si scrive. Queste scritture forse estemporanee, eventualmente radunate e messe in opera oppure rimaste così, senza rilegatura, ci parlano di una configurazione rizomatosa dell'atto di scrivere e dei suoi cicli (per restare a Zanzotto, in periodi di apparente silenzio editoriale, scrisse molti haiku quasi con funzione defaticante e preparatoria, come chi allena un certo tono ed elasticità muscolari). Per usare una parola d'oggi, viene da domandarsi: come si concentrano i tentativi detox di chi scrive poesia oggi? E questo genere di scritture marginali che senso hanno per chi le lascia e per chi le ritrova? E come si mettono in relazione al fatidico libro?
La lettura e la visione di questo volume a colori ci pongono di fatto più di un interrogativo e non ci lasciano in compagnia delle sole considerazioni esposte nelle righe qui sopra. Ad esempio, meditare su questo volume significa anche riporre il tendine della scrittura fuori da una fascia muscolare che spesso pare già predestinata agli automatismi di scrittura/pubblicazione (e poi presentazione, promozione e così via, fino ai casi in cui una scrittura diventa film o sceneggiato). Non si tratta di rimestare le fascinazioni perverse che colgono la scrittura come atto solipsistico, solitario, romantico (la famigerata "cameretta dei poeti" tanto vituperata... peccato che parlare di camera per Emily Dickinson vuol dire parlare di una stanza fondamentale). Semmai affrontare tutto ciò significa porsi un radicale interrogativo sul senso del pubblicare: è qui che questo libro pone, quasi in modo subliminale, i suoi interrogativi più drastici e efficaci. (Per inciso, su ragionamenti analoghi torna anche uno scrittore come Saul Bellow, nel volume di saggi Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000 proposto recentemente da SUR, e su ragionamenti del genere sarebbe bene tornare più spesso tutti quanti.) Su questa scia, Emily Dickinson forse qualche pensiero l'ha fatto (oppure nessuno) se di un corpus di circa 1800 poesie né pubblicò in vita solo una dozzina. La nota introduttiva di Nadia Fusini, che giustamente ricorda anche il bisticcio comune a inglese e italiano attorno alla parola "lettera", incomincia col chiedersi come vadano considerate queste parole di grafite che Emily Dickinson segnava in buste scollate, strappate o rivoltate, le quali diventavano, con le loro forme imprevedibili (o forse predeterminate), il perimetro di scritture nuove e piccole, piccole solo per lo spazio che occupano. Il libro qui presentato diventa un'opera nell'opera (un'opera grafica) ed è persino troppo evidente che si possa leggere anche come controcanto al furioso digitare su tastiere più o meno rumorose. In realtà non sono certo queste le speculazioni che più ci devono interessare. Emily Dickinson ha compiuto un'interessante azione sulla busta, su quanto è finalizzato a proteggere e anche a celare. La parola scorre su ciò che deve proteggere, accompagnare e nascondere, la busta è parola e la parola diventa busta. E nei bordi o negli orli irregolari, alcuni segnati dalla colla, abitano quei fantasmi che memorabilmente infestano la sua poesia. In questo, almeno in parte, le buste sono diventate qualcosa di simile agli schermi di dimensione variabile che guardiamo ogni giorno per scopi diversi?
Emily Dickinson ha scritto molto e chi l'ha conosciuta era al corrente di questo, tuttavia non ha pensato di pubblicare. Scriveva in assenza del feticcio del libro e in presenza del pensiero di un'opera infinita, al centro di un postulato che ci dice ancora oggi che la scrittura non è fare il libro, non è pubblicarlo e non è promuoverlo perlopiù parlandogli addosso (la recensione come l'abbiamo conosciuta è quasi sparita e le "recensioni" sono diventate delle righe che lasciamo in un sito di ecommerce dopo un acquisto, magari con lo scopo di ottenere un coupon di sconto). Nessuno vuole intraprendere una battaglia contro l'atto di pubblicare, di veicolare o di promuovere un libro, perché queste sono tutte attività essenziali e trainanti. Qui si vuole soltanto distinguere nella filiera il momento dalla scrittura, che ha risorse e fisicità proprie. Non si venga a dire che distinguere e ricordare ciò, nel caso di un'autrice che ha trascorso buona parte della vita nella camera di Amherst, significa rinverdire il mito della "poesia scritta nella cameretta". E se anche fosse, non credo esista un luogo più eletto di un altro dove la scrittura accade. Nonostante i grandi rivolgimenti che hanno investito la pratica della scrittura, questa resta ancora incredibilmente un fatto di dita e di polso. Fino a prova (o anatomia o locomozione o psicocinetica) contraria.
[Nel pezzo di busta sopra si legge "One note from / One Bird / Is better than / a million words / A scabbard / needs / has - holds / but one / sword" (Una sola nota / di un solo uccello / è meglio di / milioni di parole / Un fodero / ha bisogno / di necessità contiene / una sola spada)]
L'Amherst College Library ha intrapreso un lavoro di digitalizzazione dell'archivio Emily Dickinson consultabile a partire da questo link.
La lettura e la visione di questo volume a colori ci pongono di fatto più di un interrogativo e non ci lasciano in compagnia delle sole considerazioni esposte nelle righe qui sopra. Ad esempio, meditare su questo volume significa anche riporre il tendine della scrittura fuori da una fascia muscolare che spesso pare già predestinata agli automatismi di scrittura/pubblicazione (e poi presentazione, promozione e così via, fino ai casi in cui una scrittura diventa film o sceneggiato). Non si tratta di rimestare le fascinazioni perverse che colgono la scrittura come atto solipsistico, solitario, romantico (la famigerata "cameretta dei poeti" tanto vituperata... peccato che parlare di camera per Emily Dickinson vuol dire parlare di una stanza fondamentale). Semmai affrontare tutto ciò significa porsi un radicale interrogativo sul senso del pubblicare: è qui che questo libro pone, quasi in modo subliminale, i suoi interrogativi più drastici e efficaci. (Per inciso, su ragionamenti analoghi torna anche uno scrittore come Saul Bellow, nel volume di saggi Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000 proposto recentemente da SUR, e su ragionamenti del genere sarebbe bene tornare più spesso tutti quanti.) Su questa scia, Emily Dickinson forse qualche pensiero l'ha fatto (oppure nessuno) se di un corpus di circa 1800 poesie né pubblicò in vita solo una dozzina. La nota introduttiva di Nadia Fusini, che giustamente ricorda anche il bisticcio comune a inglese e italiano attorno alla parola "lettera", incomincia col chiedersi come vadano considerate queste parole di grafite che Emily Dickinson segnava in buste scollate, strappate o rivoltate, le quali diventavano, con le loro forme imprevedibili (o forse predeterminate), il perimetro di scritture nuove e piccole, piccole solo per lo spazio che occupano. Il libro qui presentato diventa un'opera nell'opera (un'opera grafica) ed è persino troppo evidente che si possa leggere anche come controcanto al furioso digitare su tastiere più o meno rumorose. In realtà non sono certo queste le speculazioni che più ci devono interessare. Emily Dickinson ha compiuto un'interessante azione sulla busta, su quanto è finalizzato a proteggere e anche a celare. La parola scorre su ciò che deve proteggere, accompagnare e nascondere, la busta è parola e la parola diventa busta. E nei bordi o negli orli irregolari, alcuni segnati dalla colla, abitano quei fantasmi che memorabilmente infestano la sua poesia. In questo, almeno in parte, le buste sono diventate qualcosa di simile agli schermi di dimensione variabile che guardiamo ogni giorno per scopi diversi?
Emily Dickinson ha scritto molto e chi l'ha conosciuta era al corrente di questo, tuttavia non ha pensato di pubblicare. Scriveva in assenza del feticcio del libro e in presenza del pensiero di un'opera infinita, al centro di un postulato che ci dice ancora oggi che la scrittura non è fare il libro, non è pubblicarlo e non è promuoverlo perlopiù parlandogli addosso (la recensione come l'abbiamo conosciuta è quasi sparita e le "recensioni" sono diventate delle righe che lasciamo in un sito di ecommerce dopo un acquisto, magari con lo scopo di ottenere un coupon di sconto). Nessuno vuole intraprendere una battaglia contro l'atto di pubblicare, di veicolare o di promuovere un libro, perché queste sono tutte attività essenziali e trainanti. Qui si vuole soltanto distinguere nella filiera il momento dalla scrittura, che ha risorse e fisicità proprie. Non si venga a dire che distinguere e ricordare ciò, nel caso di un'autrice che ha trascorso buona parte della vita nella camera di Amherst, significa rinverdire il mito della "poesia scritta nella cameretta". E se anche fosse, non credo esista un luogo più eletto di un altro dove la scrittura accade. Nonostante i grandi rivolgimenti che hanno investito la pratica della scrittura, questa resta ancora incredibilmente un fatto di dita e di polso. Fino a prova (o anatomia o locomozione o psicocinetica) contraria.
[Nel pezzo di busta sopra si legge "One note from / One Bird / Is better than / a million words / A scabbard / needs / has - holds / but one / sword" (Una sola nota / di un solo uccello / è meglio di / milioni di parole / Un fodero / ha bisogno / di necessità contiene / una sola spada)]
L'Amherst College Library ha intrapreso un lavoro di digitalizzazione dell'archivio Emily Dickinson consultabile a partire da questo link.
domenica 15 marzo 2015
Ungaretti e le sue lettere dal fronte a Mario Puccini
Leggere una grande guerra #13
"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).
Il 1917 è l'anno orribile della guerra, anche per Giuseppe Ungaretti sul fronte isontino. Lo si capisce leggendo queste 26 lettere raccolte e pubblicate da Archinto con il titolo Lettere dal fronte a Mario Puccini (pp. 80, euro 16, a cura di da Francesco De Nicola). Ferito, inabile, nevrastenico, impaziente di spostarsi da una situazione di presidio a un battaglione movimentato in azione, con i compagni di sempre (oppure di essere spedito in Terra Santa con il contingente italiano partito in quegli anni, per sfruttare le proprie conoscenze linguistiche). Il ritratto che ricaviamo è davvero quello di un uomo di pena che cerca in Mario Puccini un supporto ma anche un aiuto fraterno per essere spostato (e come s'arrabbia!). Puccini è tenente presso il Comando supremo della III armata dislocato non molto lontano da Ungaretti. I due, in realtà distanziati di un solo anno (del 1887 Puccini, del 1888 Ungaretti), si sono conosciuti prima delle ostilità, quando Ungaretti aveva provato a piazzare nel catalogo delle edizioni Puccini, fondate dal padre di Mario ad Ancona, il Moscardino dell'amico Enrico Pea, conosciuto durante il lungo periodo egiziano. L'esito commerciale dell'operazione non fu dei più memorabili e la sfortunata pubblicazione deve aver avuto qualche ricaduta nei rapporti. Abbandonati quei dissapori, Ungaretti si rivolge in modo fraterno all'autore de Il soldato Cola e di quello che possiamo annoverare fra i primissimi reportage a caldo della ritirata di Caporetto (Caporetto: note sulla ritirata di un fante della III Armata, Editrice Goriziana, 1987). Abbandona il voi e passa presto al tu. Apre il suo cuore, riversa nelle lettere sensazioni che poi ritroveremo nella sua poesia, come quella di essere macerato dalla malinconia.
Nelle lettere, quasi tutte brevi, c'è posto per Il porto sepolto e la sua accoglienza critica, per D'Annunzio che in fondo impartisce già con le sue "pose plastiche in ginocchio davanti ai feretri" pillole di regia e scenografia che saranno mutuate e portate all'esasperazione dal regime mussoliniano, per il desiderio di spostarsi di cui si è già scritto, per il progressivo peggioramento delle condizioni psicofisiche fino ad arrivare all'ottobre del 1917 e alla ritirata. Sono lettere che oggi testimoniano del rapporto esistente tra due letterati che hanno avuto diverse fortune nel secolo scorso. Puccini non c'è, è assente, non si deduce quasi da nessuna missiva, eppure la sua figura è sullo sfondo, pone qualche domanda. Le stesse domande che ci facciamo oggi: che fine ha fatto Mario Puccini? Dove sono volate vie le sue pagine? Tempo fa, parlando de Il soldato Cola, ho accennato alle molte lacune attorno all'opera di Mario Puccini. L'augurio è quello di un qualche rimedio: anche solo sfogliando l'inventario del Fondo Mario Puccini presso il Gabinetto G.P. Vieusseux è possibile avere una chiara idea di come questo scrittore marchigiano fosse al centro di una fitta rete di rapporti nazionali e internazionali che sarebbe sciocco continuare a ignorare.
"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).
Nelle lettere, quasi tutte brevi, c'è posto per Il porto sepolto e la sua accoglienza critica, per D'Annunzio che in fondo impartisce già con le sue "pose plastiche in ginocchio davanti ai feretri" pillole di regia e scenografia che saranno mutuate e portate all'esasperazione dal regime mussoliniano, per il desiderio di spostarsi di cui si è già scritto, per il progressivo peggioramento delle condizioni psicofisiche fino ad arrivare all'ottobre del 1917 e alla ritirata. Sono lettere che oggi testimoniano del rapporto esistente tra due letterati che hanno avuto diverse fortune nel secolo scorso. Puccini non c'è, è assente, non si deduce quasi da nessuna missiva, eppure la sua figura è sullo sfondo, pone qualche domanda. Le stesse domande che ci facciamo oggi: che fine ha fatto Mario Puccini? Dove sono volate vie le sue pagine? Tempo fa, parlando de Il soldato Cola, ho accennato alle molte lacune attorno all'opera di Mario Puccini. L'augurio è quello di un qualche rimedio: anche solo sfogliando l'inventario del Fondo Mario Puccini presso il Gabinetto G.P. Vieusseux è possibile avere una chiara idea di come questo scrittore marchigiano fosse al centro di una fitta rete di rapporti nazionali e internazionali che sarebbe sciocco continuare a ignorare.
giovedì 28 agosto 2014
"Lettere intorno a un giardino" di Rainer Maria Rilke

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La lapide di Rilke a Raron |
"[...] Ciò nondimeno, anche quel che lei dice della prova continua che il silenzio di una casa isolata impone, mi è ben noto e ne ho subìto l'angoscia e il pericolo in svariate epoche della mia esistenza. Si comincia, in rifugi come questo, a fare ordine, ma è impossibile fare sempre ordine. Disordine passeggero, ignoranza di se stessi, incoscienza: altrettanti elementi della nostra mutevole fisionomia. Queste case di campagna sono fatte affinché vi si ritorni; ma da quanto devono esserci affinché vi si possa ritornare? Ritornarvi dopo tutta una vita rischiosa e agitata, come fece Conrad; dopo aver vissuto una vita, una vita così avversa alla contemplazione, e perciò piena di essa, ribollente di essa, e, senza sapere se (già!) ci si rinuncerà veramente, sedersi nello stesso posto in cui (di fronte a un fuoco che recita sul piccolo palcoscenico di un camino) si erano riposati gli antenati. Altro rischio di Muzot: quello di "recitare" ritorni che, ahimè, non ritornano abbastanza da lontano né ritrovano un focolare autentico. A questi ritorni l'immaginazione di chi ritorna, invece di riposarsi, deve fornire di tutto: un passato inesistente o estraneo, e il presente incompleto della magione; con un proprio gesto, involontario, si vorrebbe correggere la mancanza di dolcezza di una donna e disporre certe cose come le avrebbe disposte lei. E la voce si rattrista di non essere più udita dai cani.
Grazie per Lord Jim! Non lo comincerò più qui questo libro dalle pagine intonse... Sarà per Muzot, per l'estate. Grazie!"
Se il nostro sguardo si posasse sulla bibliografia rilkiana noteremmo che Les roses risalgono al 1924 e Vergers al 1926. Sono proprio gli anni di queste lettere. Questa corrispondenza botanica di Rilke appare quasi come un potente viatico verso la morte. Come noto, sulla lapide del cimitero vallese di Raron si leggono questi suoi versi: "Rose, oh reiner Widerspruch, Lust, / Niemandes Schlaf zu sein unter soviel /Lidern." ovvero "Rosa, pura contraddizione, piacere / di essere il sonno di nessuno sotto tante / palpebre." (così nella traduzione di Giuliano Baioni).
mercoledì 25 settembre 2013
Marco Sonzogni ci racconta "La speranza di pure rivederti...": Irma Brandeis e Eugenio Montale in un libro di Archinto
Librobreve intervista #25
Le mie domande lo raggiungono a Wellington, in Nuova Zelanda dove insegna, nel bel mezzo di un lavoro febbrile di revisione. Sarà sua infatti la cura e traduzione del Meridiano di Seamus Heaney in uscita per Mondadori nel 2014. E non potrebbe essere diversamente. Marco Sonzogni mi scrive che ha sentito il grande poeta nordirlandese pochi giorni prima che morisse, lo ricorda come maestro nella vita e anche nella morte. Nelle risposte che seguono però parla anche di come ha accolto la notizia, in preghiera, diversamente dalle troppe persone che "sono subito corse a raccontare su carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e bevuto con lui". Lo distolgo però per qualche attimo da Heaney (anche se non dal dolore) per poi farci ritorno con l'ultima domanda di questa intervista. In Italia è da poco uscito per Archinto un suo lavoro intitolato La speranza di pure rivederti... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio (pp. 83, euro 12). Sento di doverlo ringraziare ancora, da queste poche righe introduttive, per l'intervista che leggerete, forse la più bella che ho sin qui pubblicato (siamo alla 25esima, forse sto esagerando, ma mi rendo conto che le interviste attorno ai libri brevi sono un bel sistema per lasciare spazio ad altre voci, risparmiarvi la mia e per risparmiare a me tempo). Sono certo vi catturerà e vi inietterà il desiderio della rilettura, sia delle risposte, sia dei testi di cui qui si parla.
LB: Potresti
tratteggiare per i lettori le scosse principali della vicenda umana
Montale-Brandeis? Se sappiamo bene o male chi è e cosa ha scritto Montale,
possiamo sapere da te, brevemente, chi è Irma e come incontra Eugenio?
LB: La
speranza di pure rivederti... titola il libro. Il mottetto si chiude con quei
tre versi tra parentesi del servo gallonato tra i portici a Modena. Per me è
sempre stata una delle immagini più nitide di Montale. Ci parli un
po’ proprio del Mottetto VI?
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Marco Sonzogni |
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Il libro pubblicato da Archinto |
RISPOSTA:
Sono le scosse “normali” che scandiscono le vicende umane di un uomo e di una
donna che si innamorano, vorrebbero stare insieme, ci provano, ma alla fine per
una ragione o per un’altra, non ci riescono. Nel caso di Irma e di Eugenio,
come per tutti, la prima scossa è senz’altro quella del primo incontro, del
famigerato colpo di fulmine, nel luglio del 1933, a Firenze. Eugenio Montale
non ha la più pallida idea di chi sia questa giovane, colta e affascinante
americana di nome Irma Brandies che chiede di incontrarlo (lui è direttore del
prestigioso Gabinetto Vieussuex, che lei frequenta). Lei invece sa già
abbastanza di lui: gliene hanno parlato Gino Bigongiari (con cui ha una
relazione piuttosto complessa) e Leo Ferrero (anche con lui ha una breve
relazione), da cui riceve una copia di Ossi
di seppia (quella stampata da Carabba nel 1931, quindi la terza edizione)
che subito divora. La lettura instiga il desiderio di conoscere personalmente
l’uomo che ha scritto poesie così belle: e se da un punto di vista estetico
Eugenio non fa certo colpo su Irma, da un punto di vista poetico e
intellettuale tra i due si instaura un legame che è subito forte, profondo,
necessario ma anche difficile, problematico – un oceano di distanza li separa
per buona parte dell’anno, colmato all’inizio da una corrispondenza fittissima,
e poi un mare di problemi (soprattutto di Montale) piano piano li separerà per
sempre. La seconda scossa è sicuramente la scoperta da parte di Irma –
inquivocabilmente solo nel 1935, dopo due anni, quindi, di sentimenti, speranze
e progetti – che Montale è legato a un’altra donna, quella che lei continuerà a
chiamare “X”: la Mosca, Drusilla Tanzi Marangoni. Valgono poco le tardive
spiegazioni di Montale: sarebbero anche state, in un certo senso,
comprensibili, ma l’averle taciute non lo mise in buona luce, diciamo così. La
terza scossa è il mancato incontro quando Montale si reca negli USA a bordo del
volo inaugurale Roma-New York nell’estate del 1950. Di questa occasione persa
ci restano solo ricordi avvolti in parte nel mistero e sui quali dubito si
possa arrivare a mettere la parola fine. Certo è che Montale, nelle poche ore
in cui si trova nella Grande Mela, telefona a un’amica, sua e di Irma, Giovanna
Calastri (la stessa che gli telefona nei versi di Una musa oltreoceano) ma non ha il coraggio di
chiamare Clizia – o meglio, fa il numero ma poi riattacca. Chissà perché
(soprattutto per poi raccontare l’accaduto a Irma in un biglietto purtroppo
andato perso). La quarta scossa, silenziosa, è la morte della Mosca – con lei
in vita Irma, che in Italia di tanto in tanto faceva ritorno (per esempio va a
fare la volontaria in occasione dell’alluvione di Firenze del 1966), non aveva
mai cercato di riallaciare i contatti con Montale. La quinta e ultima scossa –
dopo le crescenti attenzioni che gli studiosi (in particolare Luciano Rebay e
Glauco Cambon) riversano su di lei, a volte con irrispettosa insistenza,
soprattutto a seguito dell’assegnazione a Montale del Premio Nobel per la
Letteratura – è la pubblicazione dell’edizione critica dell’Opera in versi di Montale nel dicembre
del 1980. Irma riceve una copia con la dedica di uno dei due curatori,
Gianfranco Contini, e un biglietto quasi illeggibile dello stesso Montale, che
le dice di considerarla ancora la sua divinità, e le chiede quando e come si sarebbero
riincontrati. Siamo nel giugno del 1981. Da quel momento, con la mediazione di
amici “di lunga fedeltà”, Irma ed Eugenio cercano di riincontrarsi per
guardarsi negli occhi un’ultima volta, mezzo secolo dopo il loro primo
incontro. Ma il 13 settembre, quando Irma sta per mettersi in viaggio alla
volta di Milano, Cambon le telefona per dirle che Montale è morto.
LB: Quando nasce e come
prende forma il progetto di questo libro pubblicato da Archinto e dedicato al
rapporto tra Montale e Clizia, l’ispiratrice del sesto mottetto de Le occasioni
dal quale è stato preso il titolo del volume? A tuo sentire, il costrutto
celeberrimo di “visiting angel” tiene ancora bene con il passare degli anni o
forse andrebbe rivisto dalla critica?
RISPOSTA: Nel
1999, grazie alla mediazione dell’amico Bill Weaver, che era Irma Brandeis
Professor of Literature a Bard College, sono entrato in contatto con Jean Cook,
amica ed esecutrice letteraria di Irma Brandeis. Ci siamo sentiti per email e
per telefono, per qualche anno, e poi ci siamo conosciuti di persona: prima a
Dublino, dove io abitavo e dove lei aveva accompagnato una scolaresca, e poi a
New York (sto per tornarci tra poche settimane, proprio per parlare di questo
libricino alla Fordham University e per rivedere Jean e altri amici newyorkesi).
Un rapporto di amicizia e di fiducia subito forte e trasparente: a me, come a
lei, premeva far conoscere la storia di Irma Brandeis – quella di Clizia
l’aveva già raccontata in versi Montale; e dalle lettere di Montale a lei, pubblicate
nel 2006, di Irma non emerge più di tanto. In tutti questi anni, quindi, ho
avuto modo di studiare le carte di “I.B.”: lettere, diari, traduzioni,
racconti, studi accademici – e, allo stesso tempo, parlare con persone che
l’avevano conosciuta. Così è stato quasi come averla conosciuta anch’io e
spero, con i miei lavori, di aver contribuito a far conoscere una donna il cui
valore umano e intellettuale va ben oltre quello di musa montaliana... Quindi, se si vuole davvero capire e apprezzare chi è stata Irma Brandeis, non solo la definizione di salfivico visiting angel – perfettamente legittima, con l’intercessione di Beatrice e Laura – ma anche il nome stesso “Clizia” – scelto per Brandeis da Montale sempre sulla scia del poeta sommo, come ha chiarito Contini – vanno ad un certo punto messi da parte. Del resto Irma stessa, ormai vecchia ed esasperata, ha cercato di liberarsi, una volta per tutte, delle responsabilità mitopoietiche di cui l’ha investita Montale.
LB: Nel libro trovano
spazio materiali inediti? Da dove provengono e come li hai montati nel tuo
discorso?
RISPOSTA: In
tutti i miei scritti su Montale e Brandeis ho presentato carte inedite. In
questo caso di stratta di tre lettere – due di Gianfranco Contini e una di
Cesare Vivante – e di fogli sparsi con prove di traduzione di poesie di
Montale. Come tutte le altre carte che ho studiato e pubblicato anche queste
sono in possesso di Jean Cook. Credo fermamente nell’autorità del documento: la
mia lettura e le mie interpretazioni sono quindi state costruite intorno a
queste carte. Sono loro a parlare, io ho fatto solo da tramite.
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The Ladder of Vision, il saggio su Dante di Irma Brandeis |
LB: Qual è stata per te
la cosa più bella, la scoperta più emozionante nella scrittura di questo libro?
RISPOSTA:
Sicuramente la lettera di Cesare Vivante, trovata quasi per caso in un folder gonfio di fogli e ritagli di
giornale che non promettevano niente di interessante (tra l’altro era l’ultimo
faldone che mi era rimasto da scartabellare e non so proprio spiegarmi come sia
finita lì). E poi l’incontro con Cesare (e sua moglie Mirella), a Milano: un
momento davvero emozionante e commovente. L’affettuosa accoglienza affetto, il
nitido ricordo di Irma e di Montale nella casa dei genitori, Leone e Elena
Vivante, a Villa Solaia, in Toscana, e poi il ricordo della figlia, Elena anche
lei, tragicamente morta giovane, inseguendo l’amore... Tra le carte mi ha
sicuramente colpito anche la testimonianza – in poche lucide righe manoscritte
– del triangolo in cui Irma finì suo malgrado a trovarsi: lei, lui (Montale) e
l’altra (la Mosca), e la risoluzione del dispiacere per quanto successo
affidata a Dante.
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Irma e i gatti... |
RISPOSTA: È
stato scritto tanto su queste due bestiole. Montale stesso, camuffato da Mirco,
ha raccontato la cosa e credo che in questo caso gli si possa credere. Altri
hanno poi confermato (appartenevano a un tizio di Modena ma questo tipo di
dettaglio, poeticamente, conta poco o nulla). A Irma piacevano gli animali, i
gatti soprattutto, ma anche quelli meno comuni, come appunto i due sciacalli
portati a spasso dal servo gallonato sotto i portici di Modena. Ci sta quindi
che siano un suo senhal. Ho provato a
frugare nella simbologia dello sciacallo – animale che nella cultura
occidentale ha un pedigree non troppo positivo. Qualche traccia interessante
l’ho trovata, e l’ho seguita, coinvolgendo mezzo mondo, con il conforto di una
foto davvero intrigante, ma per ora non ho trovato prove sufficienti a validare
un’interpretazione alternativa. Un giorno forse ne scriverò comunque – magari
ne esce un racconto piuttosto che un saggio critico. Vediamo. Tornando al
mottetto: credo che il titolo dica tutto. Eugenio si sta già rassegnando a
perdere Irma – in un certo senso la perde ogni volta che la vede ripartire per
gli Stati Uniti. Lo strappo sarà anche, come da tradizione, poeticamente
fertile, ma umanamente parlando Montale soffre come ognuno soffrirebbe nel
doversi separare dalla persona amata. L’amor de lonh, per dirla con Jaufré
Rudel, ha senso e tiene fino a un certo punto: insomma, le poesie non bastano e
infatti Irma vuole di più e quando si rende conto che le cose non sarebbero mai
cambiate, mette fine alla relazione. Detto questo, mi ha sempre colpito, fin
dalla prima volta che ho letto questo mottetto, il presentimento di Montale –
sentiva che ogni saluto, come presto sarebbe stato, poteva essere l’ultimo. È
come se, in un certo senso, avesse rimosso anche la possibilità della speranza.
Un mottetto in momentanea absentia di
lei che prelude, anzi annuncia, la sua absentia
definitiva – quasi fosse inevitabile.
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Il giovane Seamus Heaney |
LB: Sei
reduce da un ciclopico lavoro di traduzione da Heaney in uscita tra qualche
mese nei Meridiani Mondadori. In questo libro si sviluppa invece un
appassionato inseguimento montaliano. Se mi passi il termine scolastico di
“collegamenti”, quali “collegamenti” faresti tra poeti lontani nello spazio e
nei tempi come Seamus e Eugenio?
RISPOSTA: Il lavoro ciclopico – come lo hai giustamente
descritto tu, e non solo per me ma per tutti quelli coinvolti in un progetto
come questo – si era concluso il 26 agosto in vista della pubblicazione per il
75° compleanno del poeta nell’aprile del 2014. Ma pochi giorni dopo, la mattina
del 30 agosto, Seamus se ne è andato per sempre. Ti confesso che stato un colpo
durissimo, e che mi ci vorrà tanto tempo a smaltire anche se, te lo dico
sinceramente, non mi ha colto del tutto di sorpresa. Ora il lavoro ciclopico si
è raddoppiato: i cantieri del Meridiano sono stati riaperti per accogliere
traduzioni e commenti a tutta l’opera in versi di Heaney, inclusa una sezione
di inediti (due poesie giovanili, due poesie recenti e due traduzioni
completate pochi giorni prima della morte). Sarà il modo migliore di
ricordarlo. Anche se lo conosco, lo leggo e lo studio da più di 20 anni ho
preferito restare in silenzio, e in preghiera, pensando a Marie, Michael,
Christopher e Catherine Ann. Troppe persone sono subito corse a raccontare su
carta stampata e online quanto bene lo conoscevano, dove avevano mangiato e
bevuto con lui, quante volte lo avevano incontrato o gli avevano parlato, cosa
di lui avevano letto, scritto o tradotto (c’è addirittura chi ha ristampato le
proprie traduzioni il giorno stesso della morte) – finendo per parlare più di
se stessi che di lui. Ma anche in questo forse inevitabile karaoke dell’ego c’è
del giusto e del bello: Seamus sapeva toccare tutti, già al primo sguardo, e lo
tsunami di testimonianze da ogni parte del pianeta e da ogni fascia sociale e
professionale ha dato conto del segno lasciato da un uomo e da un poeta
straordinario, e del vuoto che dobbiamo ora accettare, colmandolo almeno in
parte con la sua opera in versi e in prosa.
Mi chiedi di
Montale e Heaney. Sono due poeti molto diversi – già per nascita (e non mi
riferisco alle condizioni delle rispettive famiglie, per altro diverse anche
quelle): uno nasce in riva al mare l’altro nel cuore della terra. Ecco,
paradossalmente, quello che forse più li accomuna risiede proprio in questa
differenza, per così dire, topografica: entrambi partono, umanamente e
poeticamente, dal paesaggio che li circonda e che ne determina le coordinate
esistenziali ed intellettuali. La strada della poesia che intraprendono, e che
porta entrambi a Stoccolma, segue poi percorsi piuttosto diversi, ma qualche
intersezione c’è. Montale muore (1981) poco prima che Heaney raggiunga una
notorietà mondiale – anche se la fama del poeta nordirlandese è in rapida
crescita dopo che Helen Vendler (Harvard University) ne recensisce la quarta
raccolta, North (1975, l’anno in cui
a Montale è assegnato il premio Nobel per la Letteratura), sul «New York Review
of Books». L’incontro più significativo tra i due poeti è quello nel segno
l’anguilla, animale che Heaney conosceva bene (il padre della moglie gestiva un
pub ad Ardboe, sulle rive di Lough Neagh, in Irlanda del Nord, frequentato da
pescatori di anguille, con cui aveva anche rapporti di lavoro, e che Heaney
stesso ebbe modo di frequentare). La traduzione della poesia montaliana (una
versione, per altro, ai limiti della riscrittura, secondo me neanche troppo
convincente) da parte del poeta americano Robert Lowell – che il poeta
nordirlandese ammirava, ricambiato – ha messo in moto qualcosa
nell’immaginazione di Heaney, che ci ha a sua volta lasciato due bellissime
poesie incentrate sull’anguilla: ‘A Lough Neagh Sequence’ (‘Sequenza di Lough
Neagh’), nella seconda raccolta (Door
into the Dark, 1969) e, trent’anni dopo, ‘Eelworks’ (‘Anguilleria’), nella
dodicesima e ultima raccolta (Human Chain,
2010). Heaney ha letto Montale, non soltanto l’opera in versi ma anche i suoi
scritti in prosa. E poi il titolo che Heaney aveva scelto per la Frank Kermode Lecture che avrebbe tenuto
a Londra il prossimo novembre la dice lunga: “The Second Life of Art” – è il
titolo di un saggio di Montale del 1949 pubblicato sul «New York Review of
Books» nel 1981 nella splendida traduzione di Jonathan Galassi (incluso con
altre prose nel volume eponimo pubblicato presso i tipi newyorkesi di The Ecco
Press l’anno successivo). Solo per dire che i grandi poeti sono sempre in
dialogo, in un modo o in un altro, indipendentemente dal fatto che si siano
incontrati, sulla pagina o di persona.
martedì 18 ottobre 2011
"Cerca di ascoltare anche chi tace." Le lettere di Paul Celan a Diet Kloos-Barendregt
Ripescaggi #1
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Un po' per mancanza di tempo per scriverne sempre di nuove, un po' perché mi dispiace vadano disperse, un po' perché non so se siano più deperibili le vecchie riviste di carta con cui ho collaborato in passato o questi archivi digitali chiamati blog. Inizio allora a (ri)pubblicare alcune recensioni che ho dedicato a dei libri brevi negli ultimi anni. Lo trovo un modo per rimescolare le carte, per tornare a proporre libri non vecchissimi, al di fuori di una logica stretta di novità. La seguente recensione al volume contenente le lettere di Paul Celan a Diet Kloos-Barendregt intitolato Cerca di ascoltare anche chi tace (Archinto, 2005, pp. 110, euro 15) era uscita per "daemon - libri e culture artistiche".
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Ancora una volta sono alcune lettere a far luce sulla parabola esistenziale di Paul Celan. Dal luglio del 1948 Paul Celan è a Parigi dove inizia una stagione di importanti incontri reali e intellettuali. A Parigi prende contatto col poeta ebreo-alsaziano Yvan Goll, qui inizia il suo studio determinato di Heidegger, e sempre qui, nel 1950, conosce la disegnatrice grafica Gisèle de Lestrange che sposerà nel dicembre del 1952. Da Parigi - e a Parigi - Celan cerca di ripartire, nel senso autentico e profondo del verbo, dopo il disastro materiale e morale della guerra. Ed è proprio nella capitale francese che nasce quasi per caso un'amicizia breve e intensa con una futura cantante di musica sacra, la giovanissima vedova Diet Kloos-Barendregt, ebrea olandese. Il libro che Carlo Mainoldi ha tradotto per Archinto raccoglie le dodici lettere che il poeta inviò a Diet Kloos tra l'agosto del 1949 e il luglio del 1950.
Il numero esiguo delle lettere e i vistosi silenzi tra l'una e l'altra non devono far pensare a uno scarso 'investimento' di Celan in questa corrispondenza: ogni lettera è un accento di un discorso modulato su intervalli di silenzio (di qui la frase felicemente prelevata per intitolare il libro). Questa dozzina di lettere a Diet Kloos e i silenzi tra l'una e l'altra lasciano intravedere la necessità fisiologica (nell'accezione più concretamente corporea della parola) e l'intenso sforzo nel ristabilire le relazioni tra persone dopo lo spappolamento della guerra e la rovina dell'Olocausto. Sullo sfondo sta l'ossessiva ricerca di un Tu al quale rivolgersi.
Tra i vari riferimenti alla vita parigina che nelle lettere trovano spazio, spicca l'incontro fortuito tra Celan e un collaborazionista norvegese: il poeta comprende in quest'occasione, in modo drammaticamente definitivo, che il tempo passato e il suo carico di orrori continueranno a perseguitarlo, nonostante il desiderio di 'ripartire' e nonostante la volontà di 'rifondare' i propri sensi devastati dagli eventi bellici: "Ti rendi conto che il tempo di cui credevo di essermi liberato è più maligno di quel che pensassi? Rieccolo qua, e non da solo, è tornato con i suoi individui, con tutto il canagliume, del quale si pone al servizio! No, non è qui di nuovo, era già qui, quando i miei pensieri scivolavano all'imperfetto […]". Detto con altre parole, poco più in là, nella stessa lettera, affidandosi a quel potere comunicativo che solo i paradossi hanno: "Tutto è troppo pesante, perché tutto è troppo leggero". Questo all'altezza del 1949; il modo in cui si interruppe la parabola di Celan, sempre a Parigi, nel 1970, è cosa nota ai frequentatori delle cronache di letteratura.
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Un po' per mancanza di tempo per scriverne sempre di nuove, un po' perché mi dispiace vadano disperse, un po' perché non so se siano più deperibili le vecchie riviste di carta con cui ho collaborato in passato o questi archivi digitali chiamati blog. Inizio allora a (ri)pubblicare alcune recensioni che ho dedicato a dei libri brevi negli ultimi anni. Lo trovo un modo per rimescolare le carte, per tornare a proporre libri non vecchissimi, al di fuori di una logica stretta di novità. La seguente recensione al volume contenente le lettere di Paul Celan a Diet Kloos-Barendregt intitolato Cerca di ascoltare anche chi tace (Archinto, 2005, pp. 110, euro 15) era uscita per "daemon - libri e culture artistiche".
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Ancora una volta sono alcune lettere a far luce sulla parabola esistenziale di Paul Celan. Dal luglio del 1948 Paul Celan è a Parigi dove inizia una stagione di importanti incontri reali e intellettuali. A Parigi prende contatto col poeta ebreo-alsaziano Yvan Goll, qui inizia il suo studio determinato di Heidegger, e sempre qui, nel 1950, conosce la disegnatrice grafica Gisèle de Lestrange che sposerà nel dicembre del 1952. Da Parigi - e a Parigi - Celan cerca di ripartire, nel senso autentico e profondo del verbo, dopo il disastro materiale e morale della guerra. Ed è proprio nella capitale francese che nasce quasi per caso un'amicizia breve e intensa con una futura cantante di musica sacra, la giovanissima vedova Diet Kloos-Barendregt, ebrea olandese. Il libro che Carlo Mainoldi ha tradotto per Archinto raccoglie le dodici lettere che il poeta inviò a Diet Kloos tra l'agosto del 1949 e il luglio del 1950.
Il numero esiguo delle lettere e i vistosi silenzi tra l'una e l'altra non devono far pensare a uno scarso 'investimento' di Celan in questa corrispondenza: ogni lettera è un accento di un discorso modulato su intervalli di silenzio (di qui la frase felicemente prelevata per intitolare il libro). Questa dozzina di lettere a Diet Kloos e i silenzi tra l'una e l'altra lasciano intravedere la necessità fisiologica (nell'accezione più concretamente corporea della parola) e l'intenso sforzo nel ristabilire le relazioni tra persone dopo lo spappolamento della guerra e la rovina dell'Olocausto. Sullo sfondo sta l'ossessiva ricerca di un Tu al quale rivolgersi.
Tra i vari riferimenti alla vita parigina che nelle lettere trovano spazio, spicca l'incontro fortuito tra Celan e un collaborazionista norvegese: il poeta comprende in quest'occasione, in modo drammaticamente definitivo, che il tempo passato e il suo carico di orrori continueranno a perseguitarlo, nonostante il desiderio di 'ripartire' e nonostante la volontà di 'rifondare' i propri sensi devastati dagli eventi bellici: "Ti rendi conto che il tempo di cui credevo di essermi liberato è più maligno di quel che pensassi? Rieccolo qua, e non da solo, è tornato con i suoi individui, con tutto il canagliume, del quale si pone al servizio! No, non è qui di nuovo, era già qui, quando i miei pensieri scivolavano all'imperfetto […]". Detto con altre parole, poco più in là, nella stessa lettera, affidandosi a quel potere comunicativo che solo i paradossi hanno: "Tutto è troppo pesante, perché tutto è troppo leggero". Questo all'altezza del 1949; il modo in cui si interruppe la parabola di Celan, sempre a Parigi, nel 1970, è cosa nota ai frequentatori delle cronache di letteratura.
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