Chi ha sfogliato e letto qualcosa dall'epistolario di Marcel Proust - per intendersi: un insieme di lettere che in Francia Philip Kolb ha curato in ben ventuno volumi usciti tra il 1970 e il 1993 - sa che l'autore della Recherche spesso non anteponeva la data alle proprie lettere. Questo dato ha l'aria di essere rilevante per chi si affaccia su una corrispondenza sterminata che nel nostro paese, ad eccezione del Meridiano antologico curato da Gian Carlo Buzzi nel 1997 intitolato Le lettere e i giorni, si è soliti proporre e leggere a spizzichi e bocconi. L'assenza di data sembra quasi una spia del modo in cui Proust governava il flusso delle comunicazioni epistolari, non uno spregio del tempo, delle sue suddivisioni oppure una distrazione, ma un intralcio al teatro di marionette e ombre lunghe che affollava l'universo delle sue lettere. Tale montagna di lettere, che non va certo anteposta alle opere per cui ricordiamo Proust, si è via via imposta come un regesto fervido e fecondo per la scrittura delle cosiddette opere maggiori e di Contro Sainte-Beuve, essenziale scritto contenente preziose distinzioni puntualmente disattese su "io che scrive" e "opera".
Il criterio editoriale della frammentazione delle lettere secondo un destinatario ritorna anche nel caso del libro di oggi e tutto sommato si rende necessario per un epistolario talmente vasto, non soltanto per ragioni pratiche o editoriali-commerciali. Va detto poi che il libro in questione è reso possibile grazie all'apertura recente degli archivi monegaschi da parte del principe Alberto II. In Lettere al duca di Valentinois (Archinto, pp. 88, euro 18, a cura e con note di Jean-Marc Quaranta, prefazione di Jean-Yves Tadié, traduzione di Francesco Bergamasco) sono radunate quattro missive e un telegramma sinora inediti conservati a lungo negli archivi del Principato. Le ricostruzioni ci dicono che siamo tra l'estate e l'autunno 1920. Proust ha quindi 49 anni (morirà di lì a poco, nel novembre del 1922) e si rivolge al giovane Pierre de Polignac, futuro padre di Ranieri III di Monaco, che nel marzo di quell'anno aveva sposato la principessa Charlotte de Monaco, acquisendo il titolo di duca di Valentinois.
Ora un passo indietro: nel 1919 era uscito per Gallimard À l'ombre des jeunes filles en fleurs e nello stesso anno Proust aveva ricevuto il prix Goncourt. È in tale scia che si colloca questa nuova costola del suo epistolario uscita dagli archivi dinastici del Principato. In una delle lettere qui proposte Proust propone al principe la sottoscrizione a un'edizione lussuosissima di All'ombra delle fanciulle in fiore, ignorata dal duca e causa della rottura tra i due. Insomma, questa manciata di lettere è la storia di una rottura e di una sparizione che ferì lo scrittore. Da qui si passa spesso a citare la nemesi proustiana cucita sui panni nel personaggio del conte di Nassau, che per molti interpreti evoca il duca. Eppure sappiamo proprio da Proust (e anche con Raboni, il suo importante traghettatore italiano) oppure anche dalle Lettere alle amiche di Céline (Adelphi, 2016) quanto inutile, piccino e inconcludente sia l'esercizio di trovare analogie tra personaggi di un'opera e personaggi reali che compaiono nella biografia o in un epistolario (Céline ad esempio se la prendeva con la madre e i suoi commenti all'uscita di un nuovo libro). Proust si mostra prodigo di consigli letterari per il duca, persona reputata di grande sensibilità artistica, ma alla fine questo sparuto gruppo di lettere altro non è che la storia di un'interruzione di una relazione che era iniziata durante la guerra, nel 1917, quando il conte era però in partenza per la Cina per una missione diplomatica. Si lascia a chi leggerà questo breve libro la possibilità di fare ipotesi su questo taglio, la possibilità di leggere anche le ipotesi che compaiono nella lunga postfazione, che sono ricondotte a una incompatibilità tra queste due creature e alle sollecitazioni pressanti e sgradevoli di Proust. Eppure questa interruzione che sappiamo essere voluta dal duca ha quasi il sapore di un gesto che si fa per preservare qualcosa che c'è stato, per proteggerlo almeno finché si è in vita.
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