venerdì 31 agosto 2018

"Marie aspetta Marie" di Madeleine Bourdouxhe: "la vita non è una storia che si racconta"

Uscito la prima volta nel 1943 in Belgio, À la recherche de Marie di Madeleine Bourdouxhe ebbe una seconda edizione soltanto nel 1989 con il titolo Wagram 17-42. Marie attend Marie. La prima edizione fu presto ritirata per volontà di Madeleine Bourdouxhe in quanto la casa editrice che la pubblicava si rivelò controllata dai nazisti. Il suo ritiro coincise con l'inizio di quasi mezzo secolo di silenzio o apparente inattività letteraria dell'autrice. Il secondo titolo del libro, o meglio il secondo emistichio del titolo del 1989, assai meno proustiano del primo titolo del 1943, è ripreso da Adelphi per la versione italiana del romanzo Marie aspetta Marie (pp. 145, euro 16, traduzione di Graziella Cillario, con una nota di Faith Evans). L'editore milanese torna sulla scrittrice a tredici anni dalla pubblicazione de La donna di Gilles. Come La donna di Gilles, anche questo libro si fonda su triangolazioni e stavolta pure l'ambientazione è, nella brevità del romanzo, una triangolazione di luoghi: si comincia con la coppia protagonista, moglie e marito, Marie e Jean, in vacanza in Costa Azzurra, ci si sposta nella Parigi degli anni Trenta per buona parte della narrazione, ma si ritorna anche verso il Belgio, dove era ambientato La donna di Gilles (a Liegi, mentre in questo romanzo si finisce a Maubeuge, che sta davvero prossima al confine belga). Le due opere, raffrontate anche nel proverbiale risvolto dell'editore Adelphi, hanno in effetti punti di contatto tematici (la coppia, il tradimento, il desiderio, l'annientamento, il suicidio) e pure geografici. In entrambi i casi protagonista è una donna. Chiaramente diverso è lo svolgimento di questo romanzo di poco successivo a La Femme de Gilles che fu scritto e uscì nel 1937 ed è considerato - credo a ragione, anche se la lettura risale appunto a tredici anni fa - il migliore tra i due libri. Per la cronaca editoriale: il suo primo romanzo, Vacances, non ancora tradotto in italiano, apparve nel 1934 e successivamente nella rivista anarchica "Le Rouge et le Noir".

Cosa si può dire di questo romanzo che ispirò alcune pagine del Secondo sesso di Simone de Beauvoir e che tra i personaggi cosiddetti secondari cela, secondo Faith Evans, una donnaiolo "alla Sartre"? Non molto, se si teme la bacchettata di chi è a caccia degli svelatori di trame. È senz'altro un libro meno cupo de La donna di Gilles, che si caricava anche dell'ambientazione scura di Liegi e del suicidio della protagonista. Marie invece è una giovane donna sui trent'anni, felice del legame con il marito, rigogliosa, ottimista. Proprio nella vacanza in Costa Azzurra di cui si diceva poco sopra incontra un ragazzo di vent'anni, si scambiano un numero di telefono. Una volta rientrata a Parigi, Marie cerca il ragazzo e si vedono in una stanza a ore. E si rivedranno ancora. Il personaggio Marie, scrive Faith Evans, è "traboccante" d'amore per il marito, il ragazzo, il mondo intero (questo è evidente nella sorridente scena finale del libro). Sempre per l'autore della nota finale, il desiderio sessuale nei libri di Bourdouxhe "non è mai negoziabile". Insomma, è un libro che affronta la passione erotica con sguardo finalmente libero, quasi un ritrovamento di qualcosa che è solamente stato sopito da un matrimonio precoce. Ma sopra ogni altro aspetto, di questa "eroina" mi è parso notevole il bisogno di silenzio che più volte ricerca nella trama delle pagine. E il suicidio che ne La donna di Gilles aveva riguardato la protagonista, qui diventa il tentato suicidio della sorella di Maria, Claude, un personaggio tutt'altro che secondario, con la quale si sviluppa anche una delle battute memorabili del libro, allorquando Claude intuisce che Marie le nasconde qualcosa e la invita a raccontare. Risponde Marie: "La vita non è una storia che si racconta... Esigere dalla vita, cioè da se stessi".

mercoledì 29 agosto 2018

"La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana" di Marco Maurizi. Due pagine su Frank Zappa

Rannicchiati tra i due nomi che costituiscono gli estremi del sottotitolo di questo libro ve ne sono moltissimi altri, anche se a Arnold Schönberg e Kurt Cobain sono dedicate davvero parecchie pagine. La cavalcata filosofica di Marco Maurizi in La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaca Book, 2018, euro 17) è davvero lunga e documentata, e tira in ballo Beatles, The Doors, Pink Floyd (i primi con Syd Barrett, ma anche il lavoro seguente con particolare attenzione a Richard Wright), King Crimson, Tool, Sigur Rós, Tortoise, Stockhausen e Varèse, Michael Nyman e Steve Reich, Pierre Boulez e Alban Berg, Anthony Braxton e Ornette Coleman, Brian Eno e David Bowie, John Zorn e Frank Zappa tra molti altri. Proprio a quest'ultimo sono dedicate moltissime pagine e proprio su Zappa potete leggere di seguito un breve estratto dal capitolo "Utopie della composizione"
Spesso si è frastornati e confusi quando si affronta il tema della musica contemporanea, anche se meglio sarebbe parlare semplicemente di "nuova musica". Questo libro può servire a orientarsi meglio, a liberare l'ascolto e a rendere sottile la differenza tra ciò che si prende e ciò che si dà quando ci si avvicina alla musica. L'approccio, come il lettore capirà dopo poche righe, è prettamente filosofico, ma il contributo che questo testo dà è anche inserito nel dibattito mai domo sulla storia della musica.

Un estratto da La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana di Marco Maurizi, Jaca Book, 2018, pp. 96-98. Un ringraziamento a Laura Molinari di Jaca Book per la gentilissima collaborazione.


Come abbiamo già visto, Zappa assume il sovraccarico concettua­le del suono piuttosto che rigettarlo in modo velleitario. Ciò significa che i suoni non sono meri eventi perché sono sempre culturalmente mediati. Così, lo spazio sonoro espresso dalla sua musica è sempre me­diatico, al di là delle note si percepisce il formicolio dei messaggi, l’en­tropia comunicativa del villaggio globale. Quando Zappa afferma che una comprensione totale della sua musica è impossibile, sta apertamen­te riconoscendo questo fatto: “non c’è nessuno che possa ascoltare cosa faccio che abbia veramente qualche idea di quello che ci è anda­to dentro e che cosa significa realmente e cosa dica realmente. Statisti­camente le probabilità contrarie sono troppe”146. Tuttavia, rifiutare una comprensione totale non significa che non sia possibile alcuna comprensione o che non dovremmo neppure tentare di comprendere. Significa piuttosto che siamo implicati nella cosa che vorremmo com­prendere e che non possiamo perciò guadagnare una totale trasparen­za. L’atto di comprensione si trova per così dire limitato dall’interno, lo sguardo occlude la strada di una totale comprensione poiché non può rivolgersi su se stesso, il suo esserci materiale ne impedisce una trasfigurazione assoluta. La trasparenza totale dell’atto cognitivo co­stituisce la hybris di ogni idealismo, l’idea che una pura auto-affezione dell’anima o dell’io possa porsi e riconoscersi al di fuori del tempo (o magari producendo la temporalità stessa come forma a priori della conoscenza)147. Una concezione materialistica e dialettica assume invece il soggetto come situato nello spazio e nel tempo, condizionato, piuttosto che produttore della realtà. L’enfasi marxiana sull’oggetto (che successivamente Althusser estremizzò nella teoria del “processo-senza-soggetto”) riconosce così l’importanza della prassi come mo­mento strutturale del conoscere. A causa delle mutate condizioni so­ciali della produzione musicale nella seconda metà del XX secolo, l’ap­proccio di Zappa alla musica è totalmente nuovo e mostra di essere consapevole di tale mutamento. Testimonia delle modificazioni antro­pologiche dell’ascolto che hanno preso piede nel frattempo. L’orec­chio non è un mezzo meramente naturale. Implica l’intero della cultu­ra attraverso cui cattura e ordina i fenomeni acustici148. Un orecchio cresciuto quando radio e dischi divengono condizioni diffuse dell’e­ducazione musicale dell’ascolto mostra atteggiamenti, abilità e diffi­coltà diverse da un orecchio cresciuto ascoltando il pianoforte di casa e i concerti pubblici149.
La consapevolezza di Zappa a proposito del sovraccarico concet­tuale del suono è conseguenza dello sviluppo dell’apparato produtti­vo. L’astratta equivalenza di tutte le culture nel melting pot dell’impe­rialismo e la sua rappresentazione autocelebrativa nella World music di successo furono precedute dall’apogeo e dalla crisi della cultura oc­cidentale. L’organizzazione delle vendite sotto il capitalismo non fa differenza tra avanguardia e black music: entrambe possono essere vendute nello stesso negozio. Questo non significa affatto il trionfo della cultura popolare. Come Adorno e Horkheimer hanno osservato, nel capitalismo avanzato non si può più identificare ingenuamente cultura “popolare” e produzione “dal basso”: questo strato della cul­tura ha subito nell’età industriale un cambiamento qualitativo e irre­versibile. Ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo che coinvolge tanto l’arte popolare quanto la tradizione “colta”. Il capitalismo ha trasfigurato questa opposizione rendendola in parte obsoleta. Le osservazioni di Adorno sull’invecchiamento della musica moderna – sul­la fondamentale complementarità tra entertainment e avanguardia come momenti dell’industria culturale complessiva – sono state spes­so sottovalutate rispetto all’enorme potenziale critico che potevano offrire. Accanto alle proverbiali critiche all’elitarismo adorniano, quelle osservazioni provocarono, come noto, la risposta polemica del musicologo Heinz-Klaus Metzger150, un supporter esplicito di Cage. Ma l’opposizione tra popolare e colto in Adorno è dialettica, dunque tale rimane ogni affermazione della loro identità. Ciò che veramente segna la differenza tra musica colta e musica leggera è questa abilità di integrare mezzi espressivi nuovi in una totalità coerente. La prove­nienza di un musicista (dall’accademia o dallo show business) non dice nulla sullo specifico livello tecnico della sua opera. Al tempo stesso, comunque, sarebbe prova di un atteggiamento eccessivamente astrat­to ignorare i pesanti condizionamenti che regolano la produzione di musica leggera. Zappa fu in grado di aggirare queste regole ma va ri­cordato che lavorò in specifiche condizioni storiche. Quando Zappa afferma che Edgard Varèse e il doo-wop rappresentano entrambi for­me di “buona musica”, li sta ovviamente guardando da una distanza che nasconde le differenze qualitative. E questa è chiaramente una conseguenza della neutralizzazione della musica d’avanguardia, precisamente la tesi che Adorno cercava di dimostrare nel suo famigerato saggio. Una situazione paradossale, come abbiamo visto. Da un lato, Zappa sembra confermare le analisi adorniane sull’avanguardia del suo tempo. Dall’altro, contraddice apertamente le sue analisi sulla cul­tura di massa. Ma la contraddizione può essere superata se assumiamo i concetti adorniani di arte e avanguardia nel loro significato funziona­le. Benché l’interesse di Zappa per l’avanguardia abbia probabilmen­te più a che fare con la fascinazione timbrica che con intenti costrutti­vi, la sua musica testimonia di una rottura storica: dissonanze, contra­sti, relazioni astratte tra suoni e rumori, il ruolo del caso e della scelta nello sviluppo della composizione ecc., sono assunti in un contesto estraneo come quello della cultura popolare, con tutte le conseguenze devastanti che ciò implica. Il contesto stesso è mutato. Quando Zap­pa dice “Varèse e il doo-wop” sta pensando “Varèse e il doo-wop”. La sua musica si situa nello spazio scolpito da questo “e”. 
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146 F. Zappa, intervista con D. Rothman, cit.
147 I. Kant, Critica della ragion pura, tr. di G. Colli, Adelphi, Milano 1995, pp. 152- 214 e J.G. Fichte, Dottrina della Scienza, tr. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1983, pp. 69-201. 96
148 Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia, il Saggiatore, Milano 1997, p. 59: “Biso­gna considerare che oggi il nostro orecchio non è stato solo educato dalle condizioni naturali, ma anche dalle condizioni create da un sistema che nel frattempo è diventa­to seconda natura”.
149 Osservazioni importanti su questo nel capitolo sulla musica radiofonica in Der getreue Korrepetitor, in GS 15, cit., pp. 367-401, e la sezione sull’arte e la musica in Le­zioni di sociologia, Einaudi, Torino 1966, pp. 129-130.
150 H.-K. Metzger, Just who is growing old?, in «Die Reihe», 4, 1960, pp. 63-80.


© 2018
Editoriale Jaca Book
Per gentile concessione dell’editore Jaca Book




Frank Zappa and The Mothers
Camarillo Brillo (da "Over-Nite Sensation", DiscReet, 1973)

lunedì 27 agosto 2018

"Kronos", l'altro diario di Witold Gombrowicz


Storia lunga quella di Witold Gombrowicz e i diari. Anche il libro d'esordio, che poi prese il titolo di Bacacay, si intitolava "Diario del periodo della maturazione" e già metteva a fuoco due nuclei del suo pensiero-scrittura, il diario/taccuino da un lato e l'ossessione per il binomio maturità-immaturità. Nel 1951 Gombrowicz inizia a collaborare con la rivista "Kultura", la quale pubblicò quanto è confluito nell'opera bina Diari dal 1953 al 1969 (anno della morte) e pubblicata in italiano da Feltrinelli in due volumi. I Diari però sono tutto fuorché diari comunemente intesi, semmai rappresentano una sorta di autocreazione letteraria frammentaria e deformata, dove davvero trova spazio di tutto, dall'episodio quotidiano alla polemica, dalla disquisizione musicologica alla parodia. Per la traduzione di Irene Salvatori, la cura di Francesco M. Cataluccio e con una nota introduttiva di Rita Grombrowicz, Il Saggiatore manda in libreria Kronos (pp. 386, euro 32), un altro diario, quello segreto iniziato probabilmente tra il 1952 e il 1953. È questo un libro che fa coppia con Cosmo, suo ultimo romanzo, altro titolo nel catalogo della casa editrice fondata da Alberto Mondadori, che prosegue così nella pubblicazione nell'opera integrale dello scrittore polacco e aggiunge un tassello fino a poco fa inedito (Kosmos è infatti uscito per la prima volta nel 2013, dopo una decisione lungamente meditata di Rita Gombrowicz).

Per la sua stessa natura interstiziale, frammentaria e pervasiva e per l'arco temporale amplissimo che raduna, Kronos fa coppia in realtà con l'intera opera letteraria di Gombrowicz. È infatti il suo grande libro non letterario, da non confondere con i Diari già pubblicati da Feltrinelli che, come ricordato sopra, a dispetto del titolo costituiscono opera letteraria scientemente "preparata". Kronos è composto in tre sezioni che toccano Polonia, Argentina e Europa e rispettivamente gli intervalli temporali degli anni Venti-Trenta, dal 1939 al 1963 (ovvero la lunga parentesi argentina) e gli ultimi sei anni di vita. Viene subito da domandarsi: hanno senso i diari per un lettore? All'interno della produzione di un autore che posto spetta loro? Quando è il momento giusto per pubblicarli? Sono interrogativi che riguardano noi, ma anche gli eredi, i soggetti che almeno in un primo momento hanno davvero in mano l'eredità letteraria di uno scrittore (tema tutt'altro che secondario). E un lettore come si avvicina a una scrittura che dovrebbe essere privata e che invece spesso non lo è, diventa altro, diventa pubblica, diventa persino parte fondamentale del corpo d'opera di un autore (pensiamo ai diari di Gide o a quello interessantissimo di Guido Morselli). Ecco, Gombrowicz teneva moltissimo al proprio diario privato, alla cartella "Kronos", tanto da avvertire la moglie di trarla in salvo "in caso di incendio" come la cosa più importante.

Questo Kronos libro è un libro di completamento allora, non di complemento, ed è dedicato a chi ha già apprezzato i libri dello scrittore stroncato da Pasolini dalle colonne de "Il Tempo" nel 1972 (così scriveva PPP, che qualche libro brutto o "sbagliato" l'ha fatto: "La figura dell’autore che ne viene fuori e quella di un uomo sbagliato, non solo poco colto, ma anche poco intelligente: una specie di sgraziato buffone senza corte che crede sia difficile capire la verità e soprattutto che sia obbligatorio dirla, che l’inopportunità possa essere programmata, che la sgradevolezza sia un elemento del genio e che ghignare sia segno di superiorità"). Questo diario privato assomiglia spesso a una lista, non è immune al fascino per la numerologia e le date. Gombrowicz nel diario privato e segreto si rifiuta di accettare subito di essere polvere, pone una minuscola, flebile resistenza a Kronos. E il modo migliore per saggiare i diari, che non sono tutti uguali, non sono tutti parimenti interessanti, non sono tutti meritevoli di pubblicazione, è prenderne a caso qualche pagina oppure leggerli in modo discontinuo, come un livre de chevet per qualche tempo, a maggior ragione quando la mole del volume è notevole. Gombrowicz stesso era appassionato lettore di diari, si era interrogato su questi, a partire dalla frequentazione con il Journal di André Gide. E poco importa che i diari siano in genere sempre falsati, abbelliti, diminuiti o aumentati perché restano comunque una "tana" della vita altrui e assomigliano a un "brodo con il sapore della realtà". Solo un avvertimento, e lo dà la moglie: "Si può leggere il Diario senza Kronos, ma non viceversa". 

Il vero regesto estemporaneo, con tanti materiali grezzi e senza filtri, pieno di appunti spesso disordinati, cenni a incontri e altre registrazioni del quotidiano è quindi questo Kronos ora disponibile in italiano. Un fatto interessante è pensare che Gombrowicz nel fascicolo "Kronos" si spinga fino al 1922, anche se ne ha iniziato la stesura solamente trent'anni dopo, come abbiamo visto: come lavora la memoria in quel lasso grande di tempo, per di più in un diario che, nella sua parte iniziale, si presenta come "diario retrospettivo"? Per dare un'idea di cosa si può leggere in Kronos, ecco un passo del 1951 dove si cita Miłosz, che nella grande diversità, fu interlocutore di Gombrowicz e contribuì alla sua conoscenza con un profilo a lui dedicato all'interno del libro che scrisse sulla storia della letteratura polacca:


XII

Articolo di Miłosz in Kultura su Contro i poeti, molto lusinghiero.
Questione della vendita della banca, molto preoccupante. 
I Nowiński partono per Mar del Plata – silenzio in banca.
Comincio a scrivere il romanzo Cosmo 
Capodanno dai Grodzicki.
Salute: L’eczema sulla testa si fa gradualmente meno fastidioso. Nella seconda metà dell’anno i denti (2 si guastano alla radice, un ascesso). A parte questo, notevole miglioramento dell’intestino e del fegato. Letteratura: nella seconda meta notevole aumento di prestigio tra i polacchi. Ma non faccio nulla (qualche schizzo di un testo di teatro). Lavoro: in banca non faccio praticamente nulla. Noia. Finanze: male a causa della svalutazione. Sueldos extra. Erot. – molto poco, [manoscritto illeggibile] i denti mi hanno fatto male. Avvenimenti principali: soggiorno dei Rodziński [manoscritto illeggibile] Trans-A. [manoscritto illeggibile].

Se i Diari sono un esempio unico nel panorama del Novecento di autocreazionismo in letteratura, Kronos presenta le pagine dove il combattimento contro la propria scorza si fa meno teso, più franco. La polpa si fa più molle. Eppure arrivano entrambi dalla stessa penna, quella che ha provato a dire con coraggio il bailamme incomprensibile di un secolo sfibrato e sfibrante, che ha mostrato come sia possibile sottrarre la letteratura ai tanti servilismi cui spesso si presta e che in Cosmo ha creato un romanzo che finalmente nasce durante la stessa scrittura.

sabato 25 agosto 2018

"Storie del pavimento" di Gherardo Bortolotti sul palinsesto del "Voyage autour de ma chambre" di Xavier de Maistre (e dei "Tender Buttons" di Gertrude Stein)

Se nella res publica litterarum, anziché un sistema di segmentazione attuato mediante faide (magari social, magari poi smentite da leccaculismi impeccabili in presenza) o mediante normali cooptazioni, vigesse invece un sistema simile a quello che caratterizzava certa musica fino a qualche anno fa - vale a dire un sistema dove si distingueva tra cosiddetto mainstream, underground abbastanza emerso (in procinto di farsi mainstream o rimanere "forever underground", ma con certi crismi) e underground-underground (ovvero: conosciuto da pochissimi) - Gherardo Bortolotti sarebbe forse uno degli eroi dell'underground abbastanza emerso. Il suo Tecniche di basso livello pubblicato da Lavieri nel 2009 è infatti un libro che ha messo d'accordo più persone e a distanza di anni ed è un libro che fa ancora scrivere (qui un assaggio significativo). Ciò vuol dire che quel libro ha avuto un certo impatto. Penso lo abbia avuto meritatamente, dal momento che è servito a mettere in luce un talento di scrittura che si ritrova anche nel più recente libro proposto da Tic Edizioni, nella seconda serie di ChapBooks diretta da Michele Zaffarano. Tic Edizioni, appunto, che è una bellissima realtà editoriale (e non solo), ma non è quella sigla editoriale più in vista che uno scrittore vero come Bortolotti potrebbe (dovrebbe?) raggiungere. Il nuovo "basso livello" del pavimento, in questo brevissimo libro che si intitola proprio Storie del pavimento (pp. 52, euro 8, qui il link all'ecommerce dell'editore), è un libro che nella sua "stranezza" presenta anche una grande, inedita godibilità, sulla quale qualche editore con altri "giri" potrebbe iniziare a scommettere. Sì, scommettere, perché alla fine questi sistemi sono fatti soprattutto di scommesse, per quanto Bortolotti stesso sia l'esempio di una qualità emersa nel tempo e apprezzata senza spinte editoriali evidenti.

Perché stranezza? Perché Bortolotti scrive prose brevi che poco spartiscono con l'ordinario o lo straordinario, ma che si situano in una regione intermedia e meno battuta che è equidistante da questi poli. Il suo equatore diventa allora una serie di prose che partono in data 17 febbraio 1790 e si concludono in data 30 marzo 1790. Quasi un breve diario, senza avere alcunché da spartire con il diario però. Queste date racchiudono un viaggio, quello dell'epigrafe di Xavier de Maistre, la quale recita: "Ho iniziato e compiuto un viaggio di quarantadue giorni attorno alla mia camera". Iniziato e compiuto, sta tutto lì il punto, anzi, i due punti: iniziare e compiere. E qualsiasi viaggio si può compiere in molti modi, anche nel mondo del turismo di massa pressoché standardizzato e chiaramente si può iniziare e compiere anche stando quasi fermi. Questo pezzo che segue è quanto si legge ad esempio oltre la metà del viaggio e credo sia opportuno riportare la prosa nella sua interezza per iniziare a tracciare il perimetro frastagliato di questa scrittura, persino della sua teoria di virgole e sillabe che iniettano nel testo una prosodia placida ma straniante:

20 marzo 1790
L'estate passò come un racconto confuso di stanze calde e sogni troppo lunghi e felici per poterli davvero raccontare, che attraversavano i pomeriggi assolati come processioni di formiche, lungo le deserte superfici in laminato della cucina. Ogni volta eravamo certi di avvicinarci a quell'inquieto enigma di cui avevano parlato le profezie, trascritte sull'intonaco, lungo i cavi elettrici, in codici alfanumerici sbiaditi. A settembre, tuttavia, le nostre imprecisioni, i nostri presupposti superati venivano sorpresi dalle ombre, che si allungavano, dalle finestre chiuse, dalle sere che si avvicendavano più rapide, dalle notti silenziose che avevamo dimenticato.

È tutto normale, all'apparenza, se non fosse che la data è il cuneo tra primavera e inverno e la prosa parla del cuneo tra estate e autunno. Questo per dire di un aspetto. Normale anche l'immaginario classico dell'estate (persino il montalismo delle formiche in processione), salvo l'insinuarsi come un fiotto del settembre e delle sue caratteristiche luminose, altrettanto "normali", descritte però come una nuova sorpresa che è animale, anormale, simile a quelle allucinazioni che si innestano nella più ripetitiva delle routine o nel più scontato degli scenari che riconosciamo come nostri. E parlando di prosodia straniante sarà opportuno accennare a come queste prose siano a tutti gli effetti un campionario di un nuovo (o rinnovato) metodo di straniamento. Ma se non è a livello linguistico o metaletterario che si colloca lo straniamento, la domanda che dovremmo porci - e che per ora rimane senza risposta - è a quale livello si situa questo nuovo straniamento che mette in asse Bortolotti. La breve prosa successiva del 21 marzo 1790 prevede poche righe:
Più di tutto ricordammo le scale, che non rivedemmo mai più. Più di tutto ci spaventò l'idea dei pianerottoli e dei gradini, che appartenevano ad altre vicende, a occasioni passate di essere oggetto del Caso, della fretta e della luce del giorno.
L'andamento anaforico, già riscontrato nel precedente frammento, tradisce un finale in cui vengono messi sullo stesso piano tre elementi lontanissimi: il Caso, la fretta e la luce del giorno. Sono solo alcune delle soluzioni adottate da Gherardo Bortolotti per far esistere questa scrittura dove tutto tautologicamente sembra accadere nella scrittura solamente e mai in alcun possibile altrove. Chiaramente il luogo, che c'è ed è l'appartamento, rimanda a un precedente per nulla celato dall'autore, né in epigrafe né nel testo del 3 marzo 1790, dove assieme alle Città invisibili è citato il Voyage autour de ma chambre di Xavier de Maistre, suddiviso proprio in 42 capitoli. Questo il palinsesto di Bortolotti, insomma. E anche la citazione da Calvino non è certo casuale, anche se la "catalogazione" di Bortolotti conserva pochissimi punti di contatto con quella calviniana. Volendo aggiungere un altro nume tutelare di quest'opera direi anche i Tender Buttons di Gertrude Stein.

E la godibilità di cui si diceva in apertura? Qui chiaramente non si può assumere posizione assolutizzante, perché la lettura resta un fatto soggettivo. Tuttavia, se è vero che l'infelicità degli uomini deriva tutta dal non saper starsene tranquilli in una camera come sosteneva l'altro francese, Pascal, qui, in un viaggio attorno a un pavimento, in un itinerarium mentis tra tutto ciò che circonda, che non è né ordinario né straordinario, si situa lo spazio per una ricognizione placida e allucinata, che fluttua in un'area che permane quasi irrelata tanto alla veglia quanto al sonno. Insomma, queste storie del pavimento, queste storie di Paolino possono davvero conquistare un lettore, a patto che si dia a queste storie una possibilità e che si dia anche al lettore la possibilità di trovarle (il libro comunque è regolarmente acquistabile). Poi, di possibilità, chi leggerà scoprirà come i muri e i pavimenti di queste prose siano pieni zeppi. Nell'anno della morte di Gérard Genette, signore dei Palinsesti, una proposta da un autore italiano davvero consigliata.

giovedì 23 agosto 2018

"Pagare o non pagare" di Walter Siti. Una lettura di Valentina Sturli

Walter Siti è autore di romanzi e reportages, ma anche di saggi intelligenti e agilissimi – com’è il caso di Pagare o non pagare (2018), uscito per Nottetempo come il precedente Il realismo è l’impossibile (2013). Nei suoi lavori l’autore risulta particolarmente attratto dalle fenomenologie del contemporaneo, e ne rende conto con uno sguardo peculiare e idiosincratico. Insieme a quella del narratore, si può dire che egli abbia infatti la passione dell’antropologo e dell’etologo. Gli interessa quindi capire dove va la società, ma anche come cambiano i comportamenti e i costumi, i desideri, le forme di vita e di espressione degli individui dell’Occidente tardocapitalista.

Nelle sue opere Siti racconta la mutazione del desiderio, la società dello spettacolo e l’ibridarsi di realtà e finzione, il rapporto dei consumatori con le merci, nuovi mercati in espansione come quelli della droga, della speculazione finanziaria e della prostituzione. Già nel romanzo Troppi paradisi (Einaudi 2006) sono presenti ampie sezioni para saggistiche sui meccanismi di funzionamento del consumo e del desiderio per le merci – dove per tali è da intendersi tutto quello che può essere comprato con il denaro, soprattutto se con molto denaro: dunque non solo televisori e vestiti, cibi o vacanze esclusivi, ma anche il corpo di escort professionisti, una notorietà di qualsiasi tipo o l’‘esserci’ in certi ambienti esclusivi.

Ne Il canto del diavolo (Rizzoli 2009) Siti racconta di un suo viaggio negli Emirati Arabi e soprattutto a Dubai: favola iper-tecnologica di ricchezza esorbitante, strabiliante miraggio nel deserto, ma anche paradiso che nasconde lo sfruttamento di migliaia di operai e inservienti. Già in questo testo è evidentissima la rappresentazione di una realtà lontana che però, come uno specchio che ingigantisce, rivela qualcosa di inquietante sulla nostra, fa intravedere il futuro possibile di tutto l’Occidente: una sempre più allarmante sperequazione tra poveri e ricchi, la progressiva sparizione dei diritti e dello stato sociale, lo strapotere di una finanza che detta le regole alla politica e alla società, consumi sempre più scissi tra lusso esclusivo per pochi e abbondanza scadente di massa.

In Pagare e non pagare si parte dalla constatazione che qualcosa sta radicalmente mutando nella vita degli individui, e in una delle aree più cruciali: il rapporto millenario di scambio tra denaro per pagare il lavoro e lavoro per guadagnare denaro. Prendendo a modello sé stesso, figlio di operai nato negli anni ’40, cresciuto nell’Italia del boom economico e diventato – grazie alle nuove possibilità di ascesa sociale aperte a tutti – professore universitario, Siti osserva come fino a qualche anno fa esistesse nella classe media un vero e proprio piacere del pagare per ricevere in cambio beni e servizi: pagare significava aver lavorato, e percepire un compenso grazie al quale potersi permettere acquisiti, a loro volta altrettante affermazioni di status e di identità.

Oggi, nell’epoca della sharing-economy, dei lavoretti sottocosto e in nero, dei download gratis e del couchsurfing – e complice la crisi economica – secondo Siti un nuovo tipo di economia sembra stare soppiantando quella del compenso e dell’acquisto in denaro. Un’economia simile al baratto, che prende piede soprattutto tra le nuove generazioni: è vero, si è sempre meno pagati per lavorare, le multinazionali planetarie offrono sempre minor salario e diritti ai propri lavoratori, le fabbriche chiudono ed è in crisi il sistema che fino a qualche anno fa garantiva il welfare e l’ascensore sociale in Occidente, ma in compenso si possono ottenere sempre più cose gratis. Viaggi, pezzi di arredamento, cibo, informazione, trasporti, cultura, comunicazione – e non importa se poi siano prodotti scadenti, l’importante è che possano essere resi disponibili e fruiti senza l’intermediazione del denaro guadagnato, sempre meno certo e sempre più difficile da procurarsi.

Nel saggio Siti riflette su come questa nuova economia stia soppiantando la vecchia e cambiando per sempre il nostro modo di percepire noi stessi e il mondo, il valore che diamo alle cose e le relazioni di potere. Lo fa, come sempre, con un’analisi intelligente e spietata che mescola brio e letture impegnate, aneddoti personali, intelligenza e una buona dose di idiosincrasia. Forse anche per questo nel finale si avverte qualche tono apocalittico di troppo, e qualche genericità nella sempre del resto informata rappresentazione degli stili di vita di giovani e giovanissimi. Ma al netto di tutto questo il libro, che ha il merito (come tutte le cose intelligenti) di coniugare concisione e approfondimento, merita sicuramente di essere acquistato e letto.

Valentina Sturli

martedì 21 agosto 2018

Una campionatura dalle nuove quattro uscite della collana Gialla di Pordenonelegge/Lietocolle

Una poesia da #71

Grazie alla collaborazione con gli autori, pubblico di seguito una poesia da ciascuna delle quattro nuove uscite della collana Gialla di Pordenonelegge/Lietocolle.

*


da Persona presente con passato imperfetto di Gian Maria Annovi


io non lo so se esistono le cose
che non sia un’invenzione
(la tua)
per obbligarmi ancora ad esistere:

lo vedo
nelle errate previsioni della meteo
e nelle imprecisioni dell’oroscopo

che quando ti guardo nella bocca

ti leggo inciso sopra i denti


Nota dell’autore 

Questa raccolta presenta testi che è ormai lecito considerare dispersi, quanto disperso è forse da tempo anche il loro autore. La persona che un tempo li aveva concepiti, infatti, seppur presente, oggi non esiste più. Il nucleo principale di Persona presente con passato imperfetto è un oggetto mutilo, che il pudore avrebbe forse preservato dallo sguardo altrui. Si tratta della raccolta intitolata Secondo persona, cui accennavo già nella nota di accompagnamento a Terza persona cortese, la serie che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto chiudere quel volume. Da quanto rimasto ho in seguito chirurgicamente estratto, con qualche inedita aggiunta, le poesie che compongono Kamikaze e altre persone. La storia che racconta Persona presente con passato imperfetto non può dunque che essere puramente testuale. Questo libro è un registro dalle pagine strappare di ciò che è stata e in buona misura non potrà più essere la mia poesia. In parte perché sono ormai altre le sollecitazioni cui mi sottopone il presente, ma anche perché quel libro fantasma si concludeva con il suicidio/omicidio pronominale di Terza persona cortese, alla cui definitiva perentorietà non mi sono più sottratto, salvo pochi episodi regressivi qui appunto documentati. Al corpo principale di quel libro fantasma ho aggiunto, senza punti di sutura, anche altre brevi serie poetiche che non hanno trovato spazio d’articolazione nel disegno di una nuova raccolta che attende faticosamente un futuro. Ringrazio Roberto Cescon per la dedizione e generosità che hanno portato alla pubblicazione di questo libro, e Gian Mario Villalta per averne interpretato le ragioni con acuta sensibilità. 


*


da Misura di Bernardo De Luca



Muoversi sposta l'orizzonte, c'è
altro oltre l'accumulo di questi

resti di cemento. Lei suggerisce
di spostarsi, tu preferisci rimanere

perché stare fermo t'illude di
proteggere quelli che dormono.

Sospetti che abbia ragione, che
il movimento sia il resto che rimane.


*


da In tutte le direzioni di Laura Di Corcia


Italiani a New York


Non capivamo le geometrie del mare.
Lo guardavamo in silenzio contando le onde
pregando per ogni navigante.

Arrivammo in una terra
che aveva dimenticato
l’odore delle arance.

Ma eravamo soli, soli contro un mondo
di colline e alberi scuri
appiccicati e muti contro i grattacieli di cristallo.

Come in sogno ci sciogliemmo in una terra nuova
dove le “t” diventavano “th”
le praterie erano più grandi del mare.

Rimpiangevamo le onde.
Il cielo dagli abbaini
sembrava porzionato.

L’amore era un lontano ricordo
fuori gli elementi continuavano a fondersi
noi eravamo pezzi che non combaciano.


*


da La terra originale di Eleonora Rimolo



Sul delta della tua mano dove il sole
è malato, fiorito cadavere, in punta di piedi
ti chiedo come perdutamente aggiungi
amore alla sottrazione, perché non inchiodi
la penna alla cornice mentre inghiottiti
dai dubbi pensiamo alla fatica come
condanna e la sfinge pretende una soluzione,
uno sforzo che mai si cheta
e ci divide, strappando dal tuo occhio
con morsi insaziati il vizio di brillare.


sabato 18 agosto 2018

"Una nuova sintassi per il mondo. L'opera letteraria di Emilio Tadini" nello studio di Giacomo Raccis

Qualche mese fa avevamo lasciato Giacomo Raccis alla curatela del ricco e utile volume Quando l'orologio si ferma... Scritti (1958-1970) pubblicato da Il Mulino e contenente articoli e contributi critici di Emilio Tadini divenuti difficilmente reperibili (qui la recensione). Il giovane studioso, nato a Padova 31 anni fa, ricercatore all'Università di Bergamo e tra gli animatori del sito "La Balena Bianca", dimostra con un nuovo libro ravvicinato su Tadini di proseguire in questa operazione di analisi e riconsiderazione dell'opera di una figura poliedrica del Novecento italiano. Tolti Mauro Bersani, Alberto Casadei, Clelia Martignoni, Anna Modena, Bruno Pischedda, Gianni Turchetta e pochi altri, leggendo il nuovo libro di Raccis si capisce presto quanto fievole e discontinua sia stata l'attenzione posata sull'opera di Tadini. L'impressione infatti è che soprattutto la sua opera letteraria non abbia mai goduto di una solida cittadinanza nell'universo della critica. Se volgiamo poi lo sguardo al versante editoriale, ci accorgeremo di come oggi molti suoi libri di prosa inizino a diventare difficilmente reperibili. Il ricordo di Emilio Tadini è insomma più legato al successo sul versante pittorico e al suo contributo nell'animazione della vita pubblica di Milano, dove per un periodo fu anche direttore dell'Accademia di belle arti di Brera. E nemmeno la critica attuale, come detto, pare molto interessata al suo lascito che è davvero multiforme (si pensi anche alle sue traduzioni da Shakespeare, Joyce, Stendhal, Artaud o a quel singolare testo teatrale del 1997 intitolato La deposizione). 

In un panorama del genere i lavori ravvicinati di Giacomo Raccis fanno eccezione ed è opportuno segnalare anche il nuovo studio pubblicato nei mesi scorsi da Quodlibet con il titolo Una nuova sintassi per il mondo. L'opera letteraria di Emilio Tadini (pp. 168, euro 19). L'agile libro riesce nel nient'affatto agile compito di restituire la complessità dell'opera tadiniana, il suo mai allineato contributo alla lettura della complessità del reale. Tadini si confrontò davvero con quasi tutti i gruppi e le "situazioni" intellettuali a lui contemporanee, mantenendo un'invidiabile autonomia di pensiero e prassi. Raccis compie un percorso tutto sommato breve e sintetico che sa cogliere gli echi interni del corpo d'opera dell'artista-scrittore, trattando la sua poliedricità come un favorevole ausilio e non come un ostacolo (ostacolo che spesso compare nei casi di quelle figure che non si sono "specializzate" in qualcosa). Poesia, critica, pittura, romanzo, teatro, traduzione sono tutte strade percorse da Tadini e contemplate dall'autore di questo saggio, tuttavia l'accento del volume in questione è finalmente posto sull'opera letteraria, ovvero su quanto più reclamava un'analisi dedicata, con selezionatissimi e puntuali innesti e rimandi all'opera pittorica. E anche la strutturazione del  percorso è cronologica e insegue i salienti di una scrittura in prosa che si contano sulle dita di una mano: Le armi l'amore del 1963, la "trilogia del giornalista miope" composta da L'opera del 1980, La lunga notte del 1987, La tempesta del 1993 e infine, postumo, Eccetera uscito nel 2002, libro nel quale Tadini orienta enigmaticamente e allegoricamente l'antenna parabolica della propria scrittura verso la fiaba, sola creazione mitica concessa all'uomo di oggi quale coscienza di liberazione da sistemi metafisici, ideologici e filosofici.

L'impalcatura cronologica adottata da Raccis diventa presto funzionale a una trattazione che raduna echi plurimi. Anche il saggio La distanza è chiaramente convocato in queste pagine, e resta centrale, se è vero che spesso la scrittura è invece un tentativo di riduzione di distanza. Non vi è un senso di divenire e evoluzione manifesta nell'opera letteraria di Emilio Tadini, semmai vi è un corpo tutto sommato contenuto di opere che lavora contro la storia e un pensiero storicista. L'approccio cronologico, in modo apparentemente paradossale, diventa una chiave per demolire la consequenzialità di visione, di linguaggio, di comprensione (detto diversamente: l'accumulo di tempo sul cervello?) che Tadini non abbraccia, prediligendo una stazione mobile della scrittura che di volta in volta si relazioni con le tante frecce che il prepotente ribollire del reale scocca. Questo accade anche quando il tema diventa prettamente "storico", come succede ad esempio ne La lunga notte, libro prominente nel variegato panorama di testi incentrati sull'Italia fascista e sulle figure che la calcarono. È la stessa frammentazione, talvolta anche linguistica, che Tadini mette in atto attraverso opere distribuite in un arco di tempo piuttosto lungo, che dialoga senza soluzione di continuità con le pressioni del presente, che trascina e compone la "nuova sintassi per il mondo", anche quando queste istanze e pressioni sembrano restringersi, isolarsi e concentrarsi in un solo nucleo, come ne La tempesta, in questo rinnovato dramma della follia consegnatoci dalla letteratura a noi più prossima, in questo regno protettivo inscenato dal Prospero tadiniano del Ventesimo secolo.

venerdì 17 agosto 2018

"Sette pagine", l'opuscolo di settepiani: il numero 0 e il numero 1 in preparazione

Riviste #9



Prende il nome dallo splendido racconto di Dino Buzzati lo studio editoriale settepiani, fondato a Perugia da Costanza Lindi e Elena Zuccaccia. Accanto a un insieme di servizi per editori, autori e aziende (si veda il sito qui), lo studio si è distinto negli ultimi tempi per il varo di una nuova rivista, un "opuscolo" come recita il sottotitolo del numero zero pubblicato qualche mese fa (piè di mosca edizioni, pp. 48 inclusa copertina, euro 8). 

In linea con il naming dello studio, l'opuscolo "Sette pagine", nelle parole delle curatrici, intende essere "una rivista a carattere antologico, quadrata e colorata, contenente testi degli autori che ci colpiscono nel panorama contemporaneo, uniti ad alcuni selezionati tra gli autori seguiti da settepiani, oltre a illustratori, progetti innovativi, eventi da segnalare."

Il numero zero contiene i racconti di Noemi de Lisi, Tommaso Maresca, Matteo Pascoletti e Carlo Sperduti. I quattro poeti scelti per inaugurare la rivista sono Dario Bertini, Angelica Buonaurio, Clery Celeste e Federica Guerra. C'è spazio per un saggio del progetto "Poetryon" di Barbara Pinchi e un'intervista sul primo anno di vita della libreria indipendente perugina Mannaggia - Libri da un altro mondo. Le illustrazioni del numero inaugurale sono di Maria Gabriella Gasparri.

Da qualche giorno è aperta la ricerca di autori (poeti e narratori) e illustratori per il numero 1 di "Sette pagine". Nel sito e nei canali social di settepiani potete trovare i dettagli per sottoporre i materiali, che si potranno inviare all'email info@settepiani.com. Il tema dell'opuscolo numero 1 sembra un chiaro omaggio a uno dei più bei dischi di Piero Ciampi: dentro e fuori.

giovedì 16 agosto 2018

"Il segno rosso del coraggio" di Stephen Crane tradotto da Luciano Bianciardi

La guerra civile americana, che imperversò tra il 1861 e il 1865, fece più di 600.000 morti. È un dato impressionante, sul quale non si ritorna mai a sufficienza. Ci sono i presupposti per dire che la "morte di massa", categoria che fu impiegata per la prima volta per la Prima guerra mondiale da Pierre Chaunu, ebbe un prodromo rilevante anche in quel conflitto. Ed è curioso che il libro più celebre su quel conflitto non sia stato scritto da chi ne ebbe esperienza diretta, ma da quello Stephen Crane che nacque a Newark nel 1871 e morì per le complicazioni della tisi in un sanatorio della Foresta Nera nel 1900. The Red Badge of Courage, uscito nel 1894, ebbe infatti da subito un impatto straordinario e un successo enorme. Chi di quella guerra aveva esperienze e lo lesse rimase impressionato: come poteva una persona nata sei anni dopo la fine del conflitto ricreare con grande rigore e vividezza la situazione fisica, psicologica e anche paesaggistica di un battaglione di soldati? come era possibile farlo seguendo prevalentemente il profilo del protagonista, "il giovane" (come lo chiama il narratore) "Henry Fleming" (come lo chiama qualche commilitone). Un'analisi dell'opera in odore di strutturalismo indugerebbe ancora sulla coppia antitetica data da coraggio e paura, l'asse su cui effettivamente scorre l'opera. Sappiamo, non sono più tempi buoni per lo strutturalismo, anche se non sarà tutto da buttare quello che ha portato. Comunque, per quanto il titolo parli di "coraggio", bisognerà dire che questo resta un grande libro, un classico, sulla paura di guerra, come potrebbe essere, nel caso della Prima guerra mondiale, la novella intitolata proprio La paura di Federico De Roberto (che curiosamente come Crane non fu combattente).

Il libro di Stephen Crane conta ormai diverse traduzioni in italiano, quasi tutte rese con lo stesso titolo (fa eccezione la prima di Bruno Fonzi del 1947: Rosso è l'emblema del coraggio). Vi si sono cimentati in molti insomma, da Giulio Bollati a Gaetano e Giacomo Prampolini, e tra questi si registra anche il caso di Luciano Bianciardi. Non stupisce trovare il nome dello scrittore grossetano tra i traduttori di Crane, considerato il suo interesse per l'Ottocento, per quel periodo storico, per Garibaldi. In questi mesi di ritorno bianciardiano (pensiamo al recente volumone Il cattivo profeta. Romanzi, racconti, saggi e diari pubblicato da Il Saggiatore), la casa editrice SE ripropone nella collana "Assonanze" la traduzione bianciardiana de Il segno rosso del coraggio apparsa per Mondadori nel 1966 e nel 1976 (pp. 160, euro 20, revisione di Luciana Bianciardi). Il libro, che in quanto classico non necessita di troppi cenni alla trama né rischia cedimenti in spoiler pesantemente sanzionati, può rappresentare una lettura diramata su più fronti: al di là dell'eccezionale testimonianza-senza-testimonianza che si trovò a rappresentare questo titolo di Crane, ci troviamo di fronte a uno dei casi di "realismo" di fine Ottocento che più fece discutere. Al centro vi è sia la questione psicologica, sia quella descrittiva e mimetica, come in tutto ciò che riporta a parlare di realismo. Discorsi di gloria, brandelli di eroismo, un'enorme paura, la vergogna e infine il coraggio sono gli stadi sui quali Crane ha dipinto le campate di questo moderno romanzo sulla solitudine di guerra. Immagino si sia già operato in tal senso, ma credo che un raffronto tra l'opera di Crane e la successiva fiumana di scrittura prodotta dalla Prima guerra mondiale possa portare a proficue osservazioni. E la traduzione di Bianciardi, nonostante il mezzo secolo abbondante sulle spalle, non è così invecchiata, anzi. Considerando la velocità alla quale sono invecchiate alcune traduzioni coeve di altri libri, magari anche di autori americani, verrebbe quasi da parlare di un prodigio bianciardiano.

lunedì 13 agosto 2018

Una poesia inedita di Igor De Marchi





"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.



Una poesia inedita di Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971) tratta dal progetto intitolato L'influenza spagnola.



DOPPIO


Il doppio usa la forza sulle parole
che ti colpiscono, te le lancia addosso
cercando per sé attenzione,
per formare un interesse. Essere una persona.

Tu lo vedi – e vedi alle sue spalle
un’invitante apertura palpitare nel buio,
l’attacco di uno spazio dov’è facile sentire
di volercisi ficcare
e sparire.
Lasciami stare dici, anch’io
sono fatto di parole
e per metà di sole cose mute.
Di sopravvivenze inconciliabili. Di simili morti.


domenica 12 agosto 2018

Nicola Attadio ripercorre la vita di Nellie Bly, a free American girl, in "Dove nasce il vento"

Intervallando brevi corsivi, dove lascia posto al punto di vista della protagonista, e ampi stralci di ricostruzione, Nicola Attadio ha scritto un libro sulla vita di Nellie Bly che si lascia leggere appassionatamente capitolo dopo capitolo e che può lanciare diversi interrogativi a seconda del punto di osservazione che scegliamo per valutarlo. Il libro ha una titolazione multipla quasi giornalistica, con sottotitolo e occhiello: Dove nasce il vento. Vita di Nellie Bly. A free American girl (Bompiani, pp. 204, euro 16). Elizabeth Cochrane, alias Nellie Bly, alias Mrs Seaman - quando deciderà, con una mossa apparentemente incoerente, di sposare un industriale di quarant'anni più vecchio - è stata una formidabile giornalista e reporter americana. Il suo lascito è noto e diverse pubblicazioni, disponibili anche in italiano, ne cementano la fama. Ma un libro simile a lei dedicato mancava e Attadio dimostra come il genere della biografia narrativa possa essere rivitalizzato a fronte di una seria conoscenza dei dati e di una rara accuratezza della scrittura. Con i suoi scritti, i suoi viaggi e persino con la sua capacità manageriale (olivettiana ante litteram), quando rilevò e diresse con orientamento filantropico l'industria del marito Seaman, Nellie Bly seppe marcare la vita pubblica americana e il giornalismo internazionale a cavallo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento (si spense nel 1922 a New York, nacque a Burrell, Pennsylvania, nel 1864). Nicola Attadio, che ne aveva seguito le tracce già per il programma radiofonico "Vite che non sono la tua", la insegue chiaramente dagli albori di una carriera fulminante, quando giovanissima e sgrammaticata, si rivolge al giornale "Dispacht" dell'industriosa e industriale Pittsburgh con una lettera che tocca senza giri di parole e nascondimenti la condizione della donna. L'inferno per una donna è la dipendenza da un uomo, circa questa potrebbe essere la sintesi che segna tutta la sua vita, anche quando sposerà Seaman stupendo tutti e venendo meno (solo apparentemente) a questa sorta di motto ispiratore di un'esistenza. Firma quella prima lettera come "Lonely Orphan Girl" e questo appunto dice di un'infanzia travagliatissima, alla quale Attadio dedica i brevi, efficaci cenni iniziali dei primi capitoli.

Il nome d'arte di Nellie Bly si lega quindi da subito alla storia del giornalismo. I primi reportage per "Dispatch" di Pittsburgh segnano il passo di un nuovo modo di scrivere che strizza l'occhio al lettore mantenendo una perfetta aderenza all'inchiesta concordata con la redazione. Ma l'irrequietezza che muove Elizabeth è grande e Pittsburgh non può che starle stretta. Quel suo vento la porterà presto in Messico per cinque mesi in compagnia della fidata madre (fidata fino al colpo di scena finale, che prevede pure un tradimento materno). Da quel viaggio ricavò un reportage memorabile che non si sofferma solamente sulle "facili" aree metropolitane di quella nazione (relativamente facili da raggiungere), ma vorrà toccare anche l'interno, il misterioso interno messicano. Altro colpo del giornalismo di Nellie Bly, probabilmente il colpo della consacrazione, una volta trasferitasi nella più congeniale New York e assunta da Joseph Pulitzer a "New York World", è senza dubbio il reportage sul manicomio femminile dell'isola di Blackwell. Bly si finse pazza per poter trascorrere alcuni giorni in quella struttura e mostrarne le condizioni disumanizzanti (quel testo è stato proposto recentemente anche da Edizioni Clandestine con il titolo Dieci giorni in manicomio). Ma chiaramente non finisce qui. A quindici anni da Phileas Fogg e dal suo giro del mondo in 80 giorni, Pulitzer affida a Nellie un compito simile. Bly parte il 14 novembre 1889 da New York per farvi ritorno dopo 72 giorni, il 25 gennaio 1890, accolta trionfalmente e ormai consacrata come nome del giornalismo e della nuova America. Affrontata la breve indecisione sul leggero bagaglio, Bly porta a termine un viaggio sui diversi piroscafi dai nomi memorabili in rotta tra i continenti. Le tappe sono New York, Londra, Calais, Brindisi, Port Said, Ismailia, Suez, Aden, Colombo, Penang, Singapore, Hong Kong, Yokohama, San Francisco e infine di nuovo a New York. Ogni tappa uno sguardo, ogni tappa un suo ricordo nitido che il lettore può raccogliere.

È sempre il giornalismo a salvare Nellie Bly, questo il suo lavoro primario, la sua àncora quando il vento della fortuna non soffia. Quando deciderà di sposare Seaman e alla sua morte rileverà la gestione di un'industria importantissima, Mrs Seaman rivelerà doti gestionali mai viste prima e si preoccuperà della condizione dei lavoratori. Tuttavia, ad un certo punto, tradita anche dai collaboratori più stretti e da un clima finanziario non più favorevole, abbandonerà la gestione dell'industria di Seaman e partirà per l'Europa, soltanto quattro giorni dopo il 28 luglio 1914. In Europa e nella Mitteleuropa la conoscono bene. Da Vienna le è affidato un settore di guerra giornalisticamente meno coperto del fronte occidentale: la Galizia. Non che la guerra sul fronte francese sia più gentile e meno tragica di quella conosciuta e detta in poesia da Georg Trakl sul fronte galiziano, ma anche in questo caso i reportage di Nellie Bly faranno epoca e getteranno uno sguardo terso sulle condizioni di vita dei militari che uccidono più dei cannoni (anni fa l'editore Viella ha dedicato la pubblicazione Due fronti opposti. Diari di guerra 1914-1915 ai diversi casi delle corrispondenze di Edith Wharton e Nellie Bly). 

A Nicola Attadio va riconosciuto il merito di aver scritto un libro avvincente e utile su una figura chiave del giornalismo e contestualmente su un frangente determinante della storia mondiale. Ad un certo punto storia contemporanea e giornalismo iniziano a essere materie quasi inscindibili e questo libro potrebbe essere una riprova. Quando arriva in Giappone, a Yokohama, Bly ad esempio è conquistata da quella nazione, non solo nel palato e nella cucina, ma anche per quell'inedita forma di innovazione dall'alto innescata in quel paese, un modello unico di evoluzione, anzi, di rivoluzione. Lo sappiamo, è questo uno dei capitoli fondamentali della storia contemporanea. Ma davvero ogni passo della nostra reporter, in questa trama fitta di echi e battaglie, è ricco di rinvii a un'epoca che ha determinato il mondo apparentemente piatto e veloce che brulicanti calchiamo oggi, quasi un secolo dopo la morte di Elizabeth Cochrane.