Bepi Romagnoni, Goya (1959) |
giovedì 1 giugno 2017
"Quando l'orologio si ferma...". Raccolti in volume alcuni scritti critici di Emilio Tadini su arte e letteratura
Per i poliedrici il destino della memoria pare sempre più difficile, di sicuro più tortuoso (ma chi se ne importa, alla fin fine). Del resto uno potrebbe dire che se lo sono andati a cercare questo destino, non specializzandosi in qualcosa nella vita. Già, i noti orrori della specializzazione: e se uno l'opera della sua vita l'intendesse invece in una non-specializzazione che non diventerà solo una serie di romanzi, di libri di poesia, di mostre o esposizioni personali in questo o quel museo? Prendiamo Emilio Tadini (1927 - 2002), noto primariamente per la sua attività di pittore e artista visivo e oggi, potremmo dire, per essere stato tra i più convinti da noi a non credere del tutto alle sirene della Pop-Art americana (alla questa preferì l'omologa inglese). Fu presto poeta e esordì a vent'anni con La passione secondo Matteo. E fu autore di cinque opere di narrativa, comprese tra Le armi l'amore del 1963 e Eccetera del 2002. Tradusse da Shakespeare, Stendhal, Melville e Joyce e alcune di queste versioni uscirono per quella curiosa collana Einaudi "Scrittori tradotti da scrittori" (curiosa in termini di proponimento editoriale, tuttavia non più necessariamente avallo di autorevolezza o qualità, almeno per quel che vale ancora la dicitura scelta per nominarla). E proprio vent'anni fa uscì, sempre per il già citato Einaudi, un contenuto monologo teatrale di Tadini incentrato sulla figura di una donna che si rivolgeva a una corte: La deposizione è un testo con dei moventi secchi che forse dovremmo andare a leggere alla luce degli ormai svariati decenni in cui giustizia, linguaggio e media si sono intersecati in un garbuglio sempre più fuori controllo (e non ci salva di certo con la satira e nemmeno con gli equilibrismi facili dell'ironia). A tutto questo cosa manca? La critica, potremmo dire. In realtà non manca nemmeno quella, perché Tadini fu un critico di cose d'arte e di letteratura. Di una parte della sua attività di critico ne dà testimonianza ora questo recentissimo volume pubblicato da Il Mulino per la cura di Giacomo Raccis, Quando l'orologio si ferma... Scritti 1958-1970 (pp. 145, euro 15), il quale rappresenta una pregevole sorpresa: la raccolta di saggi, accompagnata da brevi note che collocano ogni singolo contributo nel contesto al quale apparteneva, abbraccia poco più di un decennio di interventi su letteratura e arte e mette di nuovo in circolo, in un'edizione di facile consultazione, alcuni scritti "mobili" del nostro autore.
Ho usato l'aggettivo "mobili" per gli scritti del libro, perché in questi dodici anni del sottotitolo si può davvero percepire quanto stia incamerando e scegliendo Tadini nel percorso che lo porterà alla successiva stagione degli anni Settanta. Qui troverete contributi di diversa metratura su Alfredo Chighine, Roberto Crippa, Ennio Morlotti, Picasso, George Grosz, Alik Cavaliere, Joan Mirò, Gianni Dova, Valerio Adami, Bepi Romagnoni. E non mancherà di colpire il lettore interessato ad aspetti teorico-letterari e narratologici la parte centrale di questa raccolta, che racchiude alcuni scritti come l'introduzione a Elefante e Colosseo di Malcolm Lowry e soprattutto i due pezzi intitolati "Lo specchio che pensa" e "Il romanzo è convenzione". Sono articoli così densi di riflessioni attorno allo statuto del narratore che mi sono parsi, per usare una parola che si usa in questi casi, le chicche del volume. Notevole e da richiamare in questa breve nota è anche lo scritto "Il tempo e il cuore", dove i soliti grandi della narrativa del Novecento, Proust e Joyce, sono osservati come due fogli in controluce, alla ricerca della diversa filigrana del tempo che nelle loro opere maggiori traspare (le preferenze del nostro vanno all'irlandese, che appunto tradusse anche). Trasversali, da ogni scritto e direi persino da ogni paragrafo, oltre alla presenza preponderante di una città come Milano che è sfondo e superficie, emergono quello stile e quella distanza di una civiltà di "scienze, lettere e arti" che ormai è definitivamente sepolta (distanza è parola chiave in Tadini, tanto che la usò per un titolo di uno dei suoi libri più celebri). Ma non c'è certo nostalgia, non c'è rammarico in questa constatazione finale, ma solo un ulteriore invito a prendere in mano questo libro anche per simili motivi, per capire com'era, per riguadagnare persino certe buone maniere nell'esercizio sensato e irrinunciabile della critica.
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