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mercoledì 27 luglio 2016

"Addii, fischi nel buio, cenni" di Silvio Perrella: trent'anni di scritti critici in un volume di Neri Pozza

Ha il pregio della semplicità della scansione temporale Addii, fischi nel buio, cenni (pp. 384, euro 18), volume di Neri Pozza dal titolo ternario e montaliano che raccoglie tre decenni di contributi critici di Silvio Perrella, molti dei quali scritti per il quotidiano partenopeo "Il Mattino". Per chi legava il suo nome principalmente a Calvino, La Capria e Parise, autori ai quali ha dedicato monografie e curatele significative, è questa l'occasione di verificare la gittata e la larghezza dello sguardo sul panorama della letteratura italiana del Novecento. Di certo calviniano suona il sottotitolo del volume, che non compare in copertina ma solamente in frontespizio: La generazione dei nostri antenati. E a un giovane Parise, autore che con l'editore Neri Pozza esordì (Il ragazzo morto e le comete, 1951) è dedicata la copertina. Ma non è solamente Parise il protagonista di queste pagine, che interesseranno sicuramente, ad esempio, chi cerca contributi distanziati nel tempo su Cesare Garboli o Anna Maria Ortese (qui rappresentata dagli scritti di viaggio de La lente scura e da L'infanta sepolta). E cito questi solo per far due nomi. In questi ultimi due casi Perrella sa porsi con larghi motivi di interesse e di novità di sguardo davanti ai propri lettori, siano essi già acquisiti o nuovi.

Emblematicamente però il volume si conclude con una rilettura de I sommersi e i salvati di Primo Levi e crea un'arcata di ponte tra il romanzo che per Perrella apre il secolo Ventesimo, La coscienza di Zeno (1923), e l'opera dello scrittore torinese. Restando in Piemonte "la descrizione di una foto" di Fenoglio non mancherà di colpire i tanti amanti della scrittura e dello stile fenogliano. Questo brano con me è riuscito in quello che un buon contributo critico dovrebbe quasi sempre riuscire a fare: condurre a una lettura o rilettura, così è stato con il Fenoglio di Un giorno di fuoco. Racconti del parentado, con quella doppietta indimenticabile dedicata alle spose, una "bambina" e l'altra "bagnata". Letture fradicie, come spesso accade in Fenoglio, scrittore che fa piovere spesso nei suoi libri. Ma non mancano contributi dedicati a scrittori meno frequentati e i cui nomi rimpallano più di rado negli scritti giornalistici sulla letteratura, spesso colpevolmente: Carmelo Samonà, Nicola Chiaromonte, Enzo Striano, il Ricordo di Anna Paola Spadoni di Giuseppe Mazzaglia, Luigi Compagnone.

Volendo seguire la struttura e l'indice e scoperchiando il volume, anticipiamo che il lettore troverà scritti brevi ma anche più articolati e lunghi su Lalla Romano (Nei mari estremi), incursioni sugli autori più assiduamente studiati (La Capria, Calvino e Parise), una circumnavigazione del mistero di Silvio D'Arzo (visto anche in una sorta di trio o "linea" emiliana con Arturo Loria e Antonio Delfini), i due Rea (Domenico e Ermanno), su altri siciliani come Sciascia, sui poeti Caproni, Sereni, Montale o Fortini. Ma a mio avviso importante, in questa raccolta di una cinquantina di scritti, è quello dedicato a Mario Pomilio e a Una lapide in via del Babuino, alla napoletanità lucente di Pomilio, laddove "il nocciolo saggistico di Pomilio viene portato a incandescenza e fuso in una narrazione di viva intelligenza emotiva", ma anche a quella "terza persona di uno scrittore che forse non scrive più".

Più che un livre de chevet, questo genere di raccolte corpose di contributi critici col sottoscritto funzionano come "livre du bidet", e non certo in senso dispregiativo o ironico, anzi: essendo infatti composte da saggi brevi e tutti autonomi, leggibili singolarmente, si prestano alla lettura frammentata negli interstizi di una giornata, prassi contro cui un romanzo, ad esempio, chiamerebbe vendetta. Di certo il montaggio di questi tre decenni di letture critiche incomincia a offrire una chiara autonomia e portata e questo libro lo dimostra. Sarebbe ingiusto chiudere senza riconoscere a Silvio Perrella questa attenzione e questo merito oramai trentennali. Finita l'epoca dei Luigi Baldacci, di alcuni sguardi di Pier Vincenzo Mengaldo, dei Giacomo Debenedetti, dei Franco Fortini e dei non pochi scrittori-critici (penso a Cases, Magris, Pasolini, Zanzotto tra molti altri) iniziano a scarseggiare questi utili coni di luce su porzioni delimitate di storia letteraria. Non è una questione di canone, bensì, più semplicemente, di letture e scritture. In questo spazio Perrella ha collocato una lanterna che fa di tutto per non ridursi mai a lanternino.

lunedì 18 aprile 2016

da "Poesie" di Goffredo Parise: tempestività e inevitabilità totali

Una poesia da #59


Poco si ricorda del Parise poeta. In effetti la sua eredità in tal senso non è voluminosa, è piuttosto luminosa. Si può auspicare che un anniversario, come il trentennale della morte che cade quest'anno, riporti l'attenzione anche su quest'aspetto tardo e non meno interessante della scrittura parisiana, possibilmente in un percorso di analisi non improvvisato e avulso come questo. Si trattò comunque di dettatura, più che di scrittura: le trenta poesie pubblicate da Rizzoli nel 1998 in un'edizione di pregio con l'introduzione di Silvio Perrella (ora fuori commercio, ma sicuramente disponibile in molte biblioteche) sono il frutto di due mesi di dettatura a Giosetta Fioroni e all'amica Omaira Rorato, tra il marzo e il maggio 1986 (Parise morirà di lì a tre mesi, a fine agosto). Lo scrittore, ormai molto malato, fu infatti preso da una strana e cieca (anche fuor di metafora) foga dettatoria che diede vita a versi insoliti per il panorama poetico novecentesco italiano. Mi è capitato di rileggerli poco fa, diciotto anni dopo la prima spaesata lettura. Tra coloro che seppero intravedere in questi "tempestività e inevitabilità totali" vi fu Andrea Zanzotto, che mai si stancava di ricordare questo nucleo di poesie con le quali lo scrittore salutò la vita, invitando a leggerle e studiarle fuori dai tanti solchi in cui Parise fu fatto scorrere (il vitalismo ereditato da Comisso, il poeta-non-poeta dei Sillabari, il darwinismo acuto dell'ultima fase). E allora non andrebbe nemmeno dimenticata, nella direzione opposta, la felice intuizione parisiana sull'inversione della sonda/trivella zanzottiana a un dato punto del suo lungo percorso poetico, poiché son proprio sonde e trivelle che più ci interessa individuare nelle opere e anche nei percorsi della critica.

Fu "stile tardo" quello di questi versi, per usare la formula di Edward Said? Non lo sappiamo e non è questo il posto per provare a confermare o confutare un'idea del genere. Certo che Perrella ha ragione a scrivere di "parola estrapolata dal tambureggiamento primordiale" e tutto ciò è ravvisabile nelle scelte lessicali e persino nei neologismi arditi che costellano la trama di questi testi terminali (si legga anche nel testo riportato in fondo). Poiché è stato citato, ricordo che del curatore Silvio Perrella è da poco stato riproposto Fino a Salgareda - stavolta per Neri Pozza, editore che nel 1951 pubblicò il romanzo d'esordio di Parise, Il ragazzo morto e le comete - un interessante saggio uscito originariamente per Rizzoli che a suo tempo fu capace di offrire una sonda interpretativa nuova della scrittura "nomade" di Jaufré.

In un'intervista di pochi anni precedente la morte (leggibile per intero qui), parlando proprio del morire, Parise aveva detto:
"Ho una paura tremenda, e basta. Paura del niente, del fatto che non mi sveglierò più al mattino a guardare il cielo. Questa consapevolezza mi dà un dolore immenso. Mi piace enormemente vedere il sole, le persone, la vita. Molto." 
Dicendo vita avrà avuto in mente anche il cane Petote, "tra coloro che non fanno banda" e questa è la poesia-ritratto che gli dedicò.


PETOTE


Come me anche tu
cerchi compagnia
ma non tra i canini

Diffidi dei proverbi
e a Darwin credi
quanto basta per esistere

Ma sai che l'onore
ha regole senza specie
il pedigree obbedisce
a chi gli è simile

Magra è l'onda
della bestia di stile
e tu sei bestia di stile
sei tra coloro
che non fanno banda

Pensiero di setola
ma olore di lord
ti degnò la magra
la sprecona lady
dell'universo.



23.4.86


martedì 29 ottobre 2013

"Dobbiamo disobbedire", le risposte di Goffredo Parise ai lettori dalle pagine del Corriere della Sera

Dobbiamo disobbedire (Adelphi, pp. 76, euro 7) è ricavato in parte da Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, libro assai più corposo curato sempre da Silvio Perrella per Liberal Libri nel 1998. Il curatore ci fa presente che gli scritti scelti per questa silloge sono quelli dove lo scrittore, "scrollandosi di dosso la cenere dell''attualità', rende visibile il fuoco sottostante." Vi riscopriamo un Goffredo Parise magnificamente abbandonato, tra la pedagogia e la fantasia. Questa una delle sue cifre. Il volume raccoglie alcuni interventi giornalistici nati attorno a una rubrica che nel biennio 1974-75 lo scrittore veneto tenne sulle pagine del Corriere della Sera. Trovo significativa la collocazione temporale di questo esperimento accolto con entusiasmo da Parise, con un abbrivio poi esauritosi naturalmente, e per la stanchezza accumulata, e per la difficoltà di trovare lettere che lo "aiutassero" davvero a scrivere qualcosa di significativo e pedagogico, stimoli veri per immaginare il futuro e non per rimpiangere inutilmente il passato, lettere-stimolo insomma che non fossero pavide o a circuito chiuso, per nulla dialogiche. Dicevo della significativa collocazione temporale di quest'esperienza, tra la pubblicazione del primo volume einaudiano dei Sillabari e prima della stesura di quel gran libro, scritto sul finire dei Settanta ma pubblicato solo dopo la morte, che si scopre ne L'odore del sangue. Il funzionamento della rubrica del Corriere era quello "classico" di un autore affermato che risponde ai lettori del grande quotidiano "nazionale". Scrivo "classico", ma nello stesso tempo mi chiedo quale autore affermato abbia poi ripetuto l'esperimento riuscendo a suonare con tanto coraggio la tastiera del dialogo con i lettori di un quotidiano. Scrivo quotidiano "nazionale" ma nel farlo mi chiedo se già allora il Corriere vendesse poche copie fuori dalla Lombardia. Parise accettò quel lavoro giornalistico anche per "curiosità umana" (lo afferma lui stesso), la stessa molla che anni prima l'aveva condotto a passare a quello stesso quotidiano scritti di ben altra natura dalle zone calde del pianeta. In questi scritti niente Birmania, Laos, Vietnam, Cina o Biafra, niente frigida eleganza giapponese: qui troverete solamente l'Italia.

Ho letteralmente massacrato questo libretto leggerissimo di pesanti orecchie, tanti sono i passi memorabili della scrittura di Parise e tanto significativi sono pure i brandelli di lettere che Parise preleva e campiona con la sua nasuta sonda, nel gran mare della corrispondenza che non di rado lo accusa, lo biasima o, manco a dirlo, lo taccia di essere, a seconda dei casi, comunista o fascista o giù di lì. Verrebbe da dire che da buon medico, usando i sensi e la lingua, Parise individua molti dei sintomi dei cancri italiani (cosa che del resto aveva già iniziato a fare con Il prete bello o Il padrone). Quest'abilità di diagnosi appare chiara, finanche lampante, quando parla della "povertà", che significa capire bene fino in fondo ciò che è "necessità", capire le differenze tra le cose in un paese che è diventato "un'enorme bottega di stracci non necessari", un rimedio nella "povertà" - aggiungo ora, in questi giorni - ben lontana dalle favolette delle "decrescite" che tengono banco da anni, con aggettivi qualificativi plurimi, in calderoni d'opinioni che si crogiolano spesso in bassezze e vigliaccherie, come quelle dell'agroalimentare minimal-slow-OgmFree per partito preso (signori miei come si tiene in vita una popolazione mondiale in crescita? Tutti alimentati con l'agnello dell'Alpago presidio slow o a pane, magari non banale pane ma un "Pan di Sorc" e "botìro di Primiero di malga"? O con innovative ricette ottenute mischiando la "Pecora Villnösser Brillenschaf" con "Aglio di Resia"? Che vivacchi pure lo Slow Food nel suo territorio definito in negativo rispetto al Fast Food, ma che non si spacci per cultura un'invenzione del marketing più territorialmente segmentato, per quanto possano essere buone le sue cose da mangiare o da bere). Quasi ci inquieta leggere le pagine dove Jaufré "incapsulato / in una botte" (sono i versi lagunari di Montale a lui dedicati) prende di mira quell'uccellin di lettore che vorrebbe un'esperienza di lettura del giornale rilassante ed evasiva, senza le brutte notizie, o quando mette a segno un altro colpo da maestro del giornalismo parlando della dissonanza tra l'umanesimo che impronta l'offerta scolastica italiana, allora come oggi, e la società nata sul gran falò televisivo (ora digital-televisivo) che di questa scuola deve incomprensibilmente servirsi, oppure quando si sofferma sui politici e sulle loro facce, così come sono percepite e pre-giudicate da una cultura contadina (sì, "facce", avete letto bene, e tra tutte sono sicuro che vi resterà l'analisi della faccia di Berlinguer). E poi parte letteralmente in quarta, nello stupendo e doloroso scritto intitolato L'Italia dei "lotti", dove è marcato e ricorrente il senso di uno Stato italiano che non c'è e forse mai ci sarà. In quest'occasione Parise quasi rimbrotta un malcapitato signor Framarin che gli chiede di intervenire sulla questione di tutela del suo (loro) paesaggio d'altopiano vicentino, la montagna veneta Verena-Campolongo. Parise dice che non vuole ricordare quel paesaggio che non c'è più (lo stesso paesaggio onirico che forse s'insinua tra la foschia chagalliana de Il ragazzo morto e le comete), che non avrebbe senso farlo, e produce un pensiero molto più utile, un piccolo capolavoro di prosa giornalistica del quale non riesco a non riportare un brano abbastanza lungo, la cui verità sembra sempre più sotto gli occhi di tutti (anche se sta prendendo magari nuove forme):

"L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere “paesani”, “paisà”, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. 
Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in “lotti”, in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, l’Italia è il “lotto”, il proprio terreno, la propria villetta, il proprio “bicamere e servizi”, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell’assenza non soltanto dello Stato ma dell’idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono."

Ma non pensate che sia solo questo il Parise che risponde ai lettori del Corriere, e meglio ancora potreste fare vostra questa convinzione se venite a capo del più ricco volume Verba volant. Ad una lettera anonima che si interrogava sul suicidio, Parise rispose:

"Mi dispiace molto che non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome, ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato vivere (qualunque essa sia sempre bella appunto, perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo".

(Questo libro si legge in una quarantina di minuti. Ho preso metà di questo tempo per scrivere, forse troppo disordinatamente, un brano che avrei potuto sintetizzare in una frase: se vi capita, leggete questo libro appena uscito. Ogni tanto consiglio apertamente.)