Se in tante case editrici italiane arrivasse oggi un dattiloscritto concepito similmente a questo Ida o il delirio di Hélène Bessette (Nonostante, pp. 184, euro 17, traduzione di Silvia Marzocchi, postfazione di Annalisa Lombardi), credo che ci sarebbero poche possibilità di vederlo passare ai playoff. Di certo se aleggiasse un pregiudizio positivo sull'autore, ingrediente importante e tuttora ingranaggio fondamentale della macchina editoriale, regno primario di un certo pregiudizio, allora potrebbe verificarsi una qualche possibilità di lettura e, infine, di pubblicazione di un testo del genere. Resta il fatto che si tratta di uno di quegli scritti che mettono giustamente in crisi le nostre certezze e abitudini talvolta malsane di lettori nonché quelle degli editori, i quali restano sicuramente interessati alle opere degli autori, ma continuano a usare il filtro autoriale in modo preponderante. Ho cercato di usare la parola "pregiudizio" senza le usuali connotazioni negative, perché non avrebbe senso trascinare quelle connotazioni nell'ambito editoriale, dove il pregiudizio ha un valore di risparmio di tempo e economia/ecologia della scelte. È un libro di prosa questo Ida o il delirio, ma potrebbe essere immaginato come un testo per il teatro a più voci, potrebbe essere addirittura descritto come un continuo intervallarsi di prosa e poesia, tanto sono frammentati gli enunciati, così da assomigliare, persino tipograficamente, alla configurazione di certe nostre chat. In realtà, se ripercorriamo le vicende teoriche che riguardarono la sua autrice, si dovrebbe parlare di "romanzo poetico". Al centro della scena (scena del discorso e non dell'azione) vi è Ida, che è però appena morta. Il personaggio principale è quindi protagonista di una assenza, evocato da un profluvio di voci che ricordano petulanti com'era prima della morte causata da un camion che l'ha travolta, scaraventandola a otto nove metri di distanza, mentre annaffiava i fiori a tarda sera, come le piaceva fare. Si verifica quindi la situazione di un personaggio-fantasma morto da poco, che non riesce da solo a muovere e intrecciare una vera e propria trama, ma che semmai innesca uno stordente e assurdo - in termini logici e terminologici - "monologo a più voci", il quale però non riesce a essere prensile sul "noumeno-Ida". Ed è per questo che Ida o il delirio non presenta una vera trama, altro motivo per cui forse sarebbe poco appetibile a editori in cerca di trame che sostengano libri che si leggono "tutti d'un fiato". Quella "o" del titolo, così in linea con una certa tradizione segnatamente francese (Candide, ou l'Optimisme di Voltaire, Justine ou les Malheurs de la vertu di Sade o Corinne ou l'Italie di Madame de Staël) svolge più una funzione congiuntiva che disgiuntiva, come ricorda con il Genette di Soglie Annalisa Lombardi nella sua mirabile postfazione.
Ida è la domestica dei Bessons, "un uccello notturno" dai piedi grandi che era solita contemplare in continuazione. Sulla scena arriva allora, necessariamente, il silenzio della domestica appena deceduta, annacquato dalle chiacchiere di chi, sopravvissuto, la ricorda. È come se la domestica venisse investita due volte, prima dal camion e poi dalle voci che si attivano dopo la sua morte e che tuttavia non riescono ad acciuffare un bel niente. Un corpo reificato come quello di Ida - la stessa reificazione su cui, più di quanto crediamo, si fonda la trama delle nostre esistenze - è reificato allora persino da cadavere. Sempre Annalisa Lombardi, cercando i modelli attivi in quest'opera, rimanda al Faulkner di Mentre morivo, notando però come in quel caso, attorno alla bara, si stringa una serie di monologhi. L'opera mette in scena le voci, il fiato, il ricordo post-mortem in un profluvio discorsivo che s'avvicina via via all'assurdo, all'inautentico becero del linguaggio, all'abisso delle domande lasciate sospese dalla sua morte, quelle normali che tutti si porrebbero: hanno voluto ucciderla? Si è suicidata? Si è trattato di un semplice incidente? Più che rinverdire certi discorsi sulla letteratura dedicata agli "ultimi" dal "cuore semplice", più che rifarsi alla critica della classe sociale che disponeva del lavoro di Ida (critica che comunque fa parte dell'opera) e più che sdilinquirsi in ragionamenti che riguardino nuove tragiche eroine dell'assenza, Ida o il delirio diventa un discorso di vivi che tastano con certezza l'illusione molle del proprio linguaggio quando riferito all'identità personale, alla storia, diventa una pacchiana fissazione del personaggio eseguita dai sopravvissuti, diversa dalla fissazione che aveva Ida per i propri grandi piedi.
Se oggi leggiamo i libri di Hélène Bessette in italiano è grazie alla casa editrice Nonostante, che fra l'altro sta sostanzialmente riproponendo, quasi in solitudine, una larga parte della letteratura francese uscita dai cataloghi degli editori considerati maggiori (Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras che di Bessette fu tra le più grandi ammiratrici, Nathalie Sarraute, Claude Simon, Jean Cayrol). Si tratta del secondo libro di Bessette tradotto in italiano, dopo l'epistolare vicenda de La rottura, pubblicato lo scorso anno, sempre nella traduzione di Silvia Marzocchi (anche quel libro è intelaiato attorno a un'assenza). Ida ou le délire apparve nel 1973 da Gallimard e fu in realtà l'ultimo di una serie di titoli che l'editore francese riservò a Hélène Bessette, dopo due decenni di collaborazioni iniziate nel 1953. Ora la sua opera in Francia è stata ripresa dall'editore Léo Scheer. L'autrice, che aveva fondato la Gang du Roman Poétique (G.R.P.) a Parigi nel 1956 e che per forza di cose non poteva essere estranea al gran daffare che suscitò la discussione sul romanzo, primariamente in Francia, ci offre così una bella sponda su cui riflettere e far rimbalzare la pallina impazzita del romanzo, restando all'interno della cornice borghese che ha partorito e forse ibernato il romanzo stesso. Al fondo resta in Ida o il delirio il senso di un'opera sull'uomo, sul non sapere nulla di Ida, del suo problema. E quello che colpisce è l'allestimento di voci che Bessette impagina, il ritmo stranito che compongono, pur nella loro risibile sicumera e vanità, persino il pessimismo gnoseologico attorno alla narrazione e al personaggio. Resta la vacuità discorsiva che la morte genera, resta un calco di calcoli affannati e l'impronta. Nella nota già ricordata, Annalisa Lombardi riporta in epigrafe un passo da La riva delle Sirti di Julien Gracq (da poco riproposto da L'orma editore): "Come se le parole, tutte le parole di una giornata, disegnassero ostinatamente una impronta: l'impronta di un qualche cosa; ma un'impronta che resta sempre vuota." Ida è quindi un personaggio-impronta, che resta vuota e riempita solo da un flatus vocis che non crea nulla e celebra la propria inanità sull'altare di un delirio, di ciò che etimologicamente esce dal solco.
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giovedì 26 ottobre 2017
"Ida o il delirio" di Hélène Bessette o reificazione del corpo (morto)
lunedì 14 aprile 2014
"Notte e nebbia" di Jean Cayrol

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Jean Cayrol (1911 - 2005) |
In quel film di Resnais musicato dall'austriaco Hanns Eisler e recitato dalla voce di Michel Bouquet, il testo di Cayrol appare come contrappunto alle immagini. La poesia di Cayrol e il tema del ritorno centrano in pieno i tratti salienti che attraversarono l'esperienza concentrazionaria di Primo Levi e il resto della sua vita fino al tragico epilogo. Nella sua postfazione Boris Pahor ricorda che nei personaggi delle opere di Cayrol esiste una sorta di "perdita della memoria", mentre in Levi spesso si ravvisa il contorno di una sorta di "lacuna della testimonianza". Se il narratore di Levi è testimone, in Cayrol assistiamo a una negazione pressoché totale della testimonianza. Per raccontare l'esperienza disgraziata dei sopravvissuti Jean Cayrol ricorreva alla similitudine biblica con la figura di Lazzaro, colui che ha visitato la morte e vi ha fatto ritorno, e che tuttavia non ricorda pur essendo (o proprio perché) ancora vivo. Pahor è molto accorto nel puntellare le differenti visioni sulla possibilità di raccontare l'incomunicabile, il non condivisibile o l'indicibile (sua, di Cayrol e di Levi). C'è un punto della sua postfazione dove il pensiero grippa, e poi si innalza. Ricorda i mesi del sanatorio successivi al campo, la TBC e il momento in cui si trovò a osservare una ragazza che si pettinava. Proprio da quel gesto Pahor racconta di aver ripreso a raccontare. Sembra quasi esserci una sorta di fede inspiegabile e inspiegata nell'eros che consente il tentativo di un racconto dopo la morte infinita scontata nel campo. Ma la poesia non è sempre racconto, e quella di Cayrol ancor meno. E il punto - scuserete il paradosso sin troppo spinto - non è se si possa raccontare o fare poesia dopo Auschwitz, bensì come abbiamo potuto raccontare e fare poesia prima di Auschwitz. Dopo Auschwitz, scrive Pahor, "raccontare il campo è possibile, difficile invece è comprenderlo. Non è vero che dopo i campi non si può più scrivere poesie. Si può e si deve farlo per non dimenticare i morti, quelli che non possono più leggere poesie. Non ho mai pensato che l’esperienza della deportazione sia, come invece ritiene Cayrol, «inafferrabile, intrasmissibile». Credo piuttosto che il problema sia farla rivivere al lettore, soprattutto far comprenderne la dimensione psicologica. Il male si può descrivere, lo si può dire, resta semmai il problema che chi non è passato per il campo, con quel male non vi si può immedesimare. Il campo rimane e rimarrà incomunicabile. Qui sta forse la differenza di pensiero maggiore tra me e Cayrol: ciò che per lui è indicibile, il male concentrazionario, per me invece è incomunicabile".
Poco oltre Pahor inquadra bene il terrain vague che è diventato l'universo dello sterminio e quello del testo poetico di Cayrol, che ora giunge a noi nella traduzione di Nicola Muschiatello:
"Ciò che più impressiona del documentario di Resnais e del testo di Cayrol è che manca la persona. C’è una voce che racconta, certo. Poi ci sono le immagini. Fotografie e riprese. E in quelle sequenze ciò che manca è più forte di ciò che si vede. Come scrive Cayrol, ci sono «costruzioni che potrebbero essere scuderie, granai, laboratori artigianali, una terra povera ora terra abbandonata, un cielo d'autunno ora indifferente, ecco quanto ci resta per immaginare una notte interrotta dagli appelli, dall'ispezione per i pidocchi, una notte che batte i denti». Nonostante le rovine, i resti del campo ancora visibili, si tratterà sempre di compiere uno sforzo di immaginazione per cercare di capire cosa era quella vita."
SOLITUDE
Depuis qu’il est revenu
il vit avec les chiens
les bêtes veules les arbres morts
de l’été qui finit la guerre.
Depuis qu’il est revenu
son visage est devenu laid
il parle seul dans la rue
il ne sait pas qui l’a trompé.
Il tourne dans sa maison
et siffle un air que lui seul connaît
et parfois tombe sans raison
comme un homme ivre qui se tait
depuis qu’il est revenu
il ne s’est pas encore mis nu
un jour viendra
où il aura deux larmes sous les yeux
tuez-le.
SOLITUDINE
Da quando è tornato
vive con i cani
le bestie ammalate gli alberi seccati
dell'estate che mise fine alla guerra.
Da quando è tornato
il suo viso è diventato brutto
parla per strada da solo
non sa chi lo ha ingannato.
Gira per casa
e fischietta un motivo che conosce solo lui
e qualche volta senza ragione cade
come un ubriaco che non parla più
da quando è tornato
non si è ancora spogliato
un giorno avrà
due lacrime sotto gli occhi
ammazzatelo.
(Traduzione di Nicola Muschiatello)
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