mercoledì 27 luglio 2016

"Addii, fischi nel buio, cenni" di Silvio Perrella: trent'anni di scritti critici in un volume di Neri Pozza

Ha il pregio della semplicità della scansione temporale Addii, fischi nel buio, cenni (pp. 384, euro 18), volume di Neri Pozza dal titolo ternario e montaliano che raccoglie tre decenni di contributi critici di Silvio Perrella, molti dei quali scritti per il quotidiano partenopeo "Il Mattino". Per chi legava il suo nome principalmente a Calvino, La Capria e Parise, autori ai quali ha dedicato monografie e curatele significative, è questa l'occasione di verificare la gittata e la larghezza dello sguardo sul panorama della letteratura italiana del Novecento. Di certo calviniano suona il sottotitolo del volume, che non compare in copertina ma solamente in frontespizio: La generazione dei nostri antenati. E a un giovane Parise, autore che con l'editore Neri Pozza esordì (Il ragazzo morto e le comete, 1951) è dedicata la copertina. Ma non è solamente Parise il protagonista di queste pagine, che interesseranno sicuramente, ad esempio, chi cerca contributi distanziati nel tempo su Cesare Garboli o Anna Maria Ortese (qui rappresentata dagli scritti di viaggio de La lente scura e da L'infanta sepolta). E cito questi solo per far due nomi. In questi ultimi due casi Perrella sa porsi con larghi motivi di interesse e di novità di sguardo davanti ai propri lettori, siano essi già acquisiti o nuovi.

Emblematicamente però il volume si conclude con una rilettura de I sommersi e i salvati di Primo Levi e crea un'arcata di ponte tra il romanzo che per Perrella apre il secolo Ventesimo, La coscienza di Zeno (1923), e l'opera dello scrittore torinese. Restando in Piemonte "la descrizione di una foto" di Fenoglio non mancherà di colpire i tanti amanti della scrittura e dello stile fenogliano. Questo brano con me è riuscito in quello che un buon contributo critico dovrebbe quasi sempre riuscire a fare: condurre a una lettura o rilettura, così è stato con il Fenoglio di Un giorno di fuoco. Racconti del parentado, con quella doppietta indimenticabile dedicata alle spose, una "bambina" e l'altra "bagnata". Letture fradicie, come spesso accade in Fenoglio, scrittore che fa piovere spesso nei suoi libri. Ma non mancano contributi dedicati a scrittori meno frequentati e i cui nomi rimpallano più di rado negli scritti giornalistici sulla letteratura, spesso colpevolmente: Carmelo Samonà, Nicola Chiaromonte, Enzo Striano, il Ricordo di Anna Paola Spadoni di Giuseppe Mazzaglia, Luigi Compagnone.

Volendo seguire la struttura e l'indice e scoperchiando il volume, anticipiamo che il lettore troverà scritti brevi ma anche più articolati e lunghi su Lalla Romano (Nei mari estremi), incursioni sugli autori più assiduamente studiati (La Capria, Calvino e Parise), una circumnavigazione del mistero di Silvio D'Arzo (visto anche in una sorta di trio o "linea" emiliana con Arturo Loria e Antonio Delfini), i due Rea (Domenico e Ermanno), su altri siciliani come Sciascia, sui poeti Caproni, Sereni, Montale o Fortini. Ma a mio avviso importante, in questa raccolta di una cinquantina di scritti, è quello dedicato a Mario Pomilio e a Una lapide in via del Babuino, alla napoletanità lucente di Pomilio, laddove "il nocciolo saggistico di Pomilio viene portato a incandescenza e fuso in una narrazione di viva intelligenza emotiva", ma anche a quella "terza persona di uno scrittore che forse non scrive più".

Più che un livre de chevet, questo genere di raccolte corpose di contributi critici col sottoscritto funzionano come "livre du bidet", e non certo in senso dispregiativo o ironico, anzi: essendo infatti composte da saggi brevi e tutti autonomi, leggibili singolarmente, si prestano alla lettura frammentata negli interstizi di una giornata, prassi contro cui un romanzo, ad esempio, chiamerebbe vendetta. Di certo il montaggio di questi tre decenni di letture critiche incomincia a offrire una chiara autonomia e portata e questo libro lo dimostra. Sarebbe ingiusto chiudere senza riconoscere a Silvio Perrella questa attenzione e questo merito oramai trentennali. Finita l'epoca dei Luigi Baldacci, di alcuni sguardi di Pier Vincenzo Mengaldo, dei Giacomo Debenedetti, dei Franco Fortini e dei non pochi scrittori-critici (penso a Cases, Magris, Pasolini, Zanzotto tra molti altri) iniziano a scarseggiare questi utili coni di luce su porzioni delimitate di storia letteraria. Non è una questione di canone, bensì, più semplicemente, di letture e scritture. In questo spazio Perrella ha collocato una lanterna che fa di tutto per non ridursi mai a lanternino.

giovedì 21 luglio 2016

Piero Cipriano e "La società dei devianti": depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante)

Si apre all'insegna di Michel Foucault, George Orwell e Emmanuel Carrère il terzo libro che Piero Cipriano licenzia per Elèuthera. La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante) (pp. 248, euro 15) segue La fabbrica della cura mentale del 2013 e Il manicomio chimico del 2015. Ogni suo libro è inoltre caratterizzato, sin dai sottotitoli, dalla riluttanza con la quale Cipriano, di professione psichiatra e psicoterapeuta di formazione etnometodologica, si trova a fare il proprio lavoro all'interno delle istituzioni di cui inevitabilmente parla e che inevitabilmente critica. Per questa via di accesso ci ricolleghiamo a Foucault, secondo il quale - è noto - si procedeva verso una forma di controllo statale della devianza. Ritornando sulla lezione del "collega" inglese Derek Summerfield, Cipriano ricorda inoltre che "l’ordine politico-economico trae vantaggi quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale". Di Orwell Cipriano riprende le riflessioni metascrittorie: nel suo distinguere i quattro ricorrenti motivi per cui solitamente si scrive, lo scrittore britannico non dimenticava quello politico (scrivere per cambiare il mondo, anche provando a cambiare una singola disciplina che sta dentro il mondo, la psichiatria ad esempio). Infine arriviamo a Carrère, un autore particolarmente amato dal nostro psichiatra podista, e al suo tipico "patto con il lettore". Anche Cipriano ne fa uno, e lo porge così:
[...] lettore, ti racconto di me, delle mie passioni, dei miei tormenti, ti faccio entrare nel mio flusso di coscienza, però poi mi segui fino in fondo, non mi lasci, non interrompi la lettura appena il gioco si fa duro, quando scrivo venti pagine per provare a spiegare che cos’è la depressione o la schizofrenia o quando riscrivo, in tutti i modi che so, che è necessario slegare i cristi in croce, o che bisogna togliere le pasticche all’umanità.
Da qui e dalla circoscrizione e conferma della riluttanza, parte questa terza fatica di Piero Cipriano (la parola "fatica" qui ci può stare) e questo terzo colpo ai dogmi repressivi, un "grido" che prova a chiamare a raccolta i "cento Basaglia" che ancora in Italia ci sono e che possono provare a fare della psichiatria qualcosa di diverso da un esercito di "tecnici-aguzzini-e-freddi" che spesso alimentano l'imprenditoria e il business della salute.

Il libro è strutturato in 31 capitoli abbastanza brevi, spesso simili a exempla, montati secondo una logica cumulativa e argomentativa serrata, e tenuti insieme dall'occhio del regista (in un romanzo breve uscito per Manni nel 2010, Film anarchico e impopolare. Nella terra dei lupi e dei santi, il protagonista è proprio un regista). Si tratta di un esperimento interessante di fiction che non è fiction (una peculiare non-fiction novel, toh, per scrivere come si dovrebbe, con ampi stralci di saggio narrativo) oppure, se si guarda dal versante opposto, possiamo pensare di avere davanti un saggio informale e colloquiale, concepito come una progressiva aggressione ed erosione del terreno preso in esame, cioè quello della follia con cui si cerca di irretire istituzionalmente e commercialmente... un'altra follia, o perlomeno quanto ci ostiniamo comunemente a chiamare così. Chi ha conosciuto la scrittura di Piero Cipriano nei primi libri non avrà bisogno di queste note provenienti invece da un suo lettore dell'ultim'ora il quale, suggerendo la lettura di questo nuovo nuovo, evidentemente si immagina un lettore altrettanto tardivo interessato sia a questa nuova opera sia alle vecchie opere dell'autore. Chiudono il libro l'utile poscritto e le altrettanto utili bibliografia e - soprattutto - filmografia (da Nei giardini di Abele di Sergio Zavoli del 1968 al recentissimo La pazza gioia di Paolo Virzì, e certo è che la regia e il montaggio ritornano costantemente nell'approccio di Cipriano).


La costituzione del volume sin dal titolo sposta l'attenzione su una parola nuova, "società", mentre nei primi due libri facevano capolino le parole "fabbrica" e "manicomio" (quest'ultima parola parzialmente dematerializzata dall'aggettivo "chimico"), a conferire comunque fisicità architettonica agli aspetti relativi alla salute mentale e alla sua "gestione" dopo la chiusura dei manicomi. Parlare di "società" dei devianti e non solo delle "istituzioni totali", su cui si era soffermato magistralmente il saggio Asylums di Erwing Goffman (libro che ricordiamo fu tradotto da Franca Ongaro e prefato da Franco Basaglia), traduce quel continuum scabroso che va da un'ineffabile e tuttavia esistente "follia" alla "normalità" altrettanto ineffabile. Allo stesso tempo è un libro la cui strutturazione traduce un dubbio di fondo che riguarda la libertà di non sapere chi siano veramente i devianti (pensavo all'epoché leggendo e ad un certo punto questa parola è spuntata nella prosa di Cipriano, e a ben vedere epoché richiama la "messa tra parentesi" della malattia mentale di cui parlava Franco Basaglia, in attesa di sgretolare certe sovrastrutture che la imbrigliano e non aiutano nessuno). Cipriano evita di essere inconcludente in questo loop, soprattutto quando salda il proprio ragionamento in un circuito economico-produttivo che riconduce la non produttività del deviante al lucro che su di questo è prodotto. Tra tutti, di particolare interesse i capitoli che ritornano sull'eredità basagliana, il carteggio diviso in parti con la "decima madonna", ovvero Nicoletta Bidoia, sulla scia del suo libro Vivi. Ultime notizie di Luciano D. (libro di cui ho scritto qui) e quello intitolato programmaticamente "Una nosologia non botanica e non entomologica della sofferenza psichica". Ma non mancano spunti pratici più fecondi come "Il paziente zero".

Di fondo, tra le pagine, resta la "riluttanza" che è la cifra (e forse ormai un'etichetta, pericolosa e a doppio taglio come ogni altra etichetta) con cui Cipriano veicola il proprio pensiero e operato, una postura metodologica che traduce la scarsa propensione a cedere alla follia istituzionalizzata con cui ancora si prova a imbrigliare - magari chimicamente e non architettonicamente o con le fasce e il contenimento - la follia. Alla parola Cipriano riserva sicuramente un'attenzione importante e speranzosa, anche se non altrettanto speranzosa è la prospettiva di certa psicanalisi, su cui emergono alcune riserve. La stessa storia della nostra lingua conserva tracce di espressioni in uso come "matto da legare", ma la stessa lingua e parola diventano, qui come altrove, dei territori dove può accadere qualcosa che si avvicina alla "cura" (che cosa fa Cipriano nel suo lavoro? Scrive che prova a parlare ai pazienti). Resta da capire come la plurisecolare vicenda della sofferenza psichica, che oggi ha per ogni colore la pasticca del colore giusto e rispondente, possa confluire dentro una rinnovata e rinnovabile visione, che raccolga davvero l'eredità basagliana (nonché di molti altri "eretici"); è una vicenda molto lunga che tra l'altro, non di rado, intercetta la scrittura, la letteratura, artisti e scienziati, la musica o il cinema. Oltre un secolo fa uno scrittore come Edmondo De Amicis non scriveva solo libri come Cuore ma varcava i cancelli e affondava da vicino lo sguardo su questo "mondo", portato lì anche da vicende personali tutt'altro che lineari. Eppure di De Amicis ci portiamo appresso soprattutto l'altra immagine, meno interessante. Il dubbio deve rimanere un principio metodologico fondante e su questo Cipriano, per quel che capisco io, mi pare abbia molto da dire e suggerire. Sulle "ricette" con cui rispondere alla sofferenza mentale e ad altri mali dell'anima non è del resto facile pronunciarsi e non lo è mai stato. "Ricette" è un vocabolo principe del linguaggio medico, ed è inevitabile che una critica passi anche per la riconsiderazione di questo linguaggio. Di questa riconsiderazione linguistica la prosa di Cipriano pone già qualche base.


lunedì 18 luglio 2016

da "Tutte le poesie 1971 - 1994" di Dario Villa

Una poesia da #59


Nella non trascurabile raccolta di scritti e saggi La poesia che si fa (Garzanti), dove fra l'altro si pronuncia sulla bella triade dei Villa della poesia italiana del Novecento (Carlo, Dario e Emilio, tutti un po' uniti in un destino di dimenticanza: dannazioni dell'omonimia?), Giovanni Raboni scrive: "Credo che pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, siano stati così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentati dalla grazia come l'autore di questo libro: intendo per grazia, qui, la capacità intrinsecamente tecnica, e tuttavia parzialmente inspiegabile di combinare i modi dell'artificio e quelli della naturalezza sino a rendere l'artificio pressoché inavvertibile e la naturalezza esteticamente rilevante". La nota da cui proviene il passo riportato è la prefazione al volume di cui accanto vedete la copertina, Tutte le poesie 1971 - 1994 (a cura di Katia Bagnoli, seniorservice, 2001, pp. 288, euro 15,49, libro che figura ancora in commercio) ed è intitolata Dario Villa seguace di se stesso. Oltre ad essere una buona definizione di quella che tante volte chiamiamo appunto "grazia" poetica, credo rappresenti un sufficiente spunto per proporre la lettura di un testo. Davvero con Dario Villa - così come con altri poeti, e tempo fa scrivevo in termini del tutto analoghi per Lorenzo Calogero -  ha poco senso perdersi in elucubrazioni sul perché della dimenticanza o della scarsa attenzione o su consolatorie tirate sul tempo galantuomo che saprà prima o poi rendere giustizia. Tanto vale trasformare la poca voglia di impegnarmi in un post più articolato nell'eventualità, forse un pochino presuntuosa, di procurare a Dario Villa un lettore in più. Non si sa mai. Ricordo da ultimo che Dario Villa, nato a Milano nel 1953 e qui morto vent'anni fa, fu anche traduttore (di Un uomo solo di Christopher Isherwood, fra gli altri).



era chiaro che il mondo
finiva lì
               lì dove
aveva cominciato
                               un po' a guardarsi in giro
un po' a considerarsi nel profondo

che poco biblico bitume piove
su tante vite in bilico
e ricordi di tante cose morte
piove nero su nero ovvero nevica
candore su candore
                                    oppure scende
ancora grigio sopra tanto grigio

grigio su grigio aveva cominciato
anche bene però poi s'è assestato
i poli un asse colpi colorati


(da La bambola gonfiabile e altre signore)


giovedì 14 luglio 2016

La gratitudine "periodica" di Oliver Sacks

Gratitude uscì negli Stati Uniti a novembre dello scorso anno, a tre mesi dalla morte di Oliver Sacks, avvenuta il 30 agosto 2015. La traduzione italiana (Gratitudine, Adelphi, traduzione di Isabella C. Blum, pp. 57, euro 9, con 6 fotografie b/n) arriva a fare il paio con In movimento, la sua autobiografia, pubblicata sempre da Adelphi. Il piccolo volume contiene quattro brevi interventi scritti fra il 2013 e il 2015. A Sacks era stato diagnosticato un raro melanoma oculare già nel 2005, un tipo di malattia che solitamente metastatizza in un caso su due. Lui rientrò in quel caso su due, quasi dieci anni dopo quella diagnosi. A febbraio del 2015 questo aveva infatti metastatizzato nel fegato. Un intervento consentì di arrestare il processo per qualche tempo, tanto che nella tarda primavera del 2015, Sacks si trovò persino in un periodo di buona salute: aveva ripreso a suonare il piano, a nuotare (anche un chilometro e mezzo al giorno!) e a viaggiare (nel libro si ricorda la visita al centro studi sui lemuri della Duke University). La primavera del morente durò tuttavia poco e Sacks iniziò presto a sentirsi affaticato all'arrivo dell'estate. I quattro scritti qui radunati, usciti tutti sul "New York Times", non sono tuttavia quattro atti raccolti in articulo mortis bensì quattro lodi della vita, all'insegna di quel sentimento così difficile - eppure così elementare - da dire che dà il titolo all'opera. Sacks parla della gratitudine per la vita e per stati in contatto e relazione con il mondo. Il primo di questi quattro scritti, fra l'altro, "Mercurio" (The Joy of Old Age, 6 luglio 2013), fu scritto in occasione del suo ottantesimo compleanno, quando Sacks non sapeva della fine imminente. "Mercurio" perché Sacks era solito contare gli anni con gli elementi della tavola periodica nella quale il mercurio occupa appunto l'ottantesima posizione (io ho così scoperto di vivere nell'anno del rubidio e di avvicinarmi a quello dello stronzio).


Con "La mia vita" (My Own Life, 19 febbraio 2015) entriamo negli scritti terminali, che manifestano un distacco progressivo dalla vita, sulla scia di quanto aveva scritto l'amato Hume dopo aver saputo di essere stato colpito da un male incurabile ("È difficile essere più distaccati dalla vita di quanto lo sia io adesso"). "La mia tavola periodica" (My Periodic Table, 24 luglio 2015) ritorna sulla passione per la tavola periodica degli elementi, li passa in rassegna. Sacks sa che non arriverà al radioattivo Polonio (elemento numero 84). Il conclusivo "Shabbat" (Sabbath, 14 agosto 2015) - che chi desidera potrà leggere in originale qui - parte dai ricordi della comunità ebraica ortodossa di Cricklewood, in Inghilterra, per ripercorrere alcune tappe della propria vicenda famigliare, intellettuale e lavorativa (è altresì una lode del lavoro e dell'amore questo insieme di pagine, aspetti della vita umana ancora una volta uniti, come nelle canzoni di Celentano o Battisti), l'omosessualità finalmente detta in famiglia, la scoperta del nuovo mondo americano dopo il 1960, la prossimità al suicidio nel periodo delle anfetamine. Evidente è il senso di prossimità al riposo, sin dal titolo.

La reazione all'annuncio di una morte imminente può comportare svariate reazioni in una persona, a maggior ragione se questa conserva una lucidità notevole e, per un certo periodo, persino la capacità di continuare a nuotare per oltre un chilometro (d'accordo, a livello cardiovascolare il nuoto non è l'attività fisica più proibitiva, ma non so quanti ultraottantenni facciano più di un chilometro al giorno di nuoto). La scrittura è sicuramente uno dei luoghi dove il morituro può rifugiarsi, ma è un luogo pericoloso, perché lì può facilmente sopraggiungere il desiderio di scrivere e provare a dire troppo, di fare consuntivi e bilanci, di consolidare la propria "fama" ed eredità, scientifica o artistica che sia. "Rifugiarsi" nel sentimento di gratitudine è stata la scelta di Sacks, interessarsi di quel che resta tralasciando i problemi dei quali dovrà occuparsi necessariamente il futuro (chi sta per morire, pur interessato al global warming, non può farne il pensiero principale). Il neurologo che soffriva di prosopagnosia e che nella sua scrittura ha via via mostrato una possibile strada di incrocio tra esperimento scientifico ed esperimento romanzesco, raccontandoci le allucinazioni come pochi altri, ci potrebbe aiutare ogni volta che proviamo a parlare di poesia (belli i riferimenti a W.H. Auden in questo libro). Sacks descrive senza esitazione la brama con cui attendeva le nuove uscite delle principali pubblicazioni scientifiche e ricordo che lo stesso Andrea Zanzotto consigliava a chi scrive poesia di rivolgersi più a una buona rivista di scienze che ad altri cespiti di "ispirazione". Non ho dubbi che vi sia un legame covalente tra poesia e scienza che può essere avvertito da tutti noi, sicuramente a differenti livelli di profondità. Non so se nell'estate poetica italiana, in cui gli effimeri bisticci e baruffe su Facebook diventano carburante di "attesi" incontri in festival/sfilate letterarie, quintessenza del narcisimo delle patrie lettere, tutto questo interessi ancora a qualcuno di quelli che scrivono versi. Ma, come potete immaginare, son altri discorsi, per giunta poco interessanti. Di interessante c'è piuttosto il legame tra il sentimento di gratitudine, di lode e di intima relazione con la vita e il cosmo, un legame che la poesia e la scienza hanno sempre parimenti cantato.

venerdì 8 luglio 2016

"I profughi" di Arno Schmidt: la vita è un ripiego

Via via si sta ampliando il panorama delle traduzioni delle opere di Arno Schmidt, grazie anche alla collaborazione stretta con la fondazione che porta il nome di questo scrittore nato ad Amburgo nel 1914, la Arno Schmidt Stiftung. I profughi (pp. 160, euro 16, una curiosa copertina col volto a metà che forse riprende un certa tendenza delle foto dei "profili", volto che poi compare nella sua interezza sul retro) esce ora per Quodlibet nella cura e commento di un sempre più attivo Dario Borso (sua è anche la recente versione del primo libro di poesie di Paul Celan, La sabbia delle urne, proposto negli ultimi giorni da Einaudi). Di Borso, che assieme a Domenico Pinto forma la coppia dei principali artefici della proposta di Schmidt in Italia, va segnalato il ricco "Commentario" che accompagna il volume, quasi un'opera dentro l'opera. Il breve romanzo, che ha caratteristiche peculiari anche di impaginazione e passo, fu scritto nel maggio del 1952. Il quadro storico è tanto fondamentale quanto poco noto, oscurato com'è dalle grandi conferenze postbelliche e meno concentrato a fotografare gli effetti che queste produssero. Tale quadro coincide, nel caso della Germania, con quell'emigrazione forzata di milioni di tedeschi dalle zone orientali dell'Oder, nella cosiddetta linea dei fiumi Oder-Neiße, divenute territori di Polonia e Cecoslovacchia in seguito agli accordi di Potsdam, e del conseguente ammassamento coatto nell'area del Reno. In questo tremendo e brutale spostamento Est-Ovest di una fiumana di persone nel ventre dell'Europa centrale, in un panorama di macerie che non riusciamo forse più ad immaginare, si cala la storia d'amore tra chi prova a campare di traduzioni e una giovane vedova di guerra, Katrin, che ha perso una gamba, cammina grazie a una protesi e si sostiene grazie alla pensione di guerra del marito (è lei il personaggio vitale e chiave in questa vicenda).

La foto di copertina (per intero)
Unstoria d'amore, dicevamo. Ma non c'è tenerezza o intimità in queste pagine. Tutt'altro, è una storia d'amore mai letta o quantomeno rara in letteratura. C'è semmai la sopportazione di una vita quotidiana che si fa sempre più insopportabile, c'è la vera condivisione (non quella che chiamiamo oggi "condivisione"), c'è l'amore diverso e scorticante di chi è profugo fino al midollo (il titolo originale del libro è Die Umsiedler). Definito dall'autore "svelto e non breve", nella lettera che ne accompagnava il primo invio a Martin Walser, giovane redattore di "Süddeutsche Rundfunk", questo libro è un buon punto di partenza per cimentarsi nella lettura di questo autore e di una prosa che qui si muove in brevi capitoletti introdotti da riquadrate fotografie di parole seguite da uno "svolgimento". Il "metodo Schmidt", a livello scrittorio, non incontrò i favori di grandi traghettatori della letteratura tedesca nel Novecento (penso al deux ex machina di tanta editoria italiana novecentesca, Roberto Bazlen, a Cesare Cases, i cui pareri di lettura sono disponibili in un'opera meritoria pubblicata da Aragno o al tentativo di Einaudi di pubblicarlo trent'anni fa, tentativo che però finì per non agevolare la sua penetrazione in Italia). Ed è proprio nella ricerca di oggettività, così diversa da quella perseguita dal nostro Italo Calvino negli stessi anni, che oggi troviamo motivi di grande interesse nell'affrontare l'opera di questo autore. Certo leggere Schmidt può assomigliare a una fatica perché nella sua pagina si riversa una riflessione radicale sul senso della scrittura e della testimonianza, e questo riversamento non è quanto di più entertaining possiamo trovare oggi in libreria. Per Schmidt lo scrittore fa quello che lo storico non fa quasi mai con il proprio tempo, tanto è schiacciato su un asse orizzontale di diacronia: ne traccia un quadro, fissa, restituisce anche i processi mentali degli uomini che abitano questo preciso tempo. Non deve assolutamente passare il concetto che la suddetta fatica sia necessariamente sinonimo di spreco inutile di energie (sta già passando, anche in contesti un tempo insospettabili come quelli universitari). Non abbiamo nulla contro gli scrittori bravissimi che sanno tenere incollati alla pagina o che scrivono un libro-parallelepipedo di 1200 pagine che si fa leggere tutto d'un fiato (tutti campioni d'apnea siamo improvvisamente diventati!), ma abbiamo parimenti a cuore chi, scrivendo un libro breve o "svelto" che sia, sa farci alzare gli occhi dalla pagina di tanto in tanto, perplessi o riflessivi, e chi ci fa anche tirare il fiato mentre leggiamo e ci regala un respiro rivoltato. In quegli sguardi alzati dalla pagina o in quel fiato tirato possono celarsi infatti i più fervidi piaceri della lettura. Con la prosa di Arno Schmidt questo può accadere (non dobbiamo necessariamente correre tutti la maratona insomma e gli 800 metri sono sempre stati una delle più affascinanti gare dell'atletica leggera).

martedì 5 luglio 2016

Carl Dahlhaus e "L'idea di musica assoluta"

Musicali pretesti #13

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.


Da poco è disponibile nel catalogo della casa editrice Astrolabio il volume di Carl Dahlhaus intitolato L'idea di musica assoluta (pp. 208, euro 19, traduzione di Laura Dallapiccola), opera uscita nel 1978 in Germania. Il musicologo tedesco, per anni professore di Storia della musica a Berlino e responsabile della "Richard-Wagner-Gesamtausgabe", ha racchiuso in queste pagine una larghissima riflessione su un concetto cardine della storia della musica, vale a dire quell'idea di musica sciolta da testo, concetto, oggetto, scopo e qualsivoglia riferimento extramusicale che si è manifestata quasi come riflessione teorica sulla sinfonia e anche come contrappunto ed emancipazione dal successo della musica operistica. Torneremo sull'epoca di formazione di questo concetto che ha avuto vita travagliata, più o meno latente, così come più o meno latente continua a vivere anche oggi (la musica, forma espressiva solo per l'orecchio, si è via via aggrappata al visivo o alla lettura e anche la "musica assoluta" potrebbe assomigliare a una categoria-dinosauro se non siamo pronti a coglierne una possibile evoluzione). Ad un livello editoriale, si sta arricchendo quindi la proposta delle opere di Dahlhaus in traduzione italiana, dopo quanto gli ha dedicato EDT (un volume su Beethoven e uno sulla drammaturgia dell'opera italiana) e i due libri già proposti da Astrolabio (L'estetica della musica e Dal dramma musicale alla Literaturoper). Questo volume, già uscito in italiano a dieci anni dall'edizione tedesca in questa stessa traduzione per La Nuova Italia, volle fissare un punto di riferimento della speculazione attorno al paradigma estetico di "musica assoluta" che ha informato di sé larga parte della vicenda musicale d'Occidente. Dahlhaus ne ricostruisce dapprima storia e "peripezie", per poi addentrarsi a far percepire, mediante una prosa nutrita di rimandi storici, sociologici, scenici e soprattutto filosofici, la vitalità del concetto che lui ha inteso illuminare da dentro il Novecento, ovvero un secolo che aveva spento i riflettori sulla "musica assoluta".

Richard Wagner
"Assoluta" perché è musica sciolta da un testo o da un programma letterario, "assoluta" perché richiama anche l'art pour l'art. Il costrutto, che nasce tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento, trova una sua canonizzazione e molla grazie all'uso che ne fa Wagner nel 1846, fino a diventare un'idea abbastanza diffusa dal decennio successivo. L'azione di riproporre oggi questo testo di Dahlhaus è fortemente costruttiva e sarebbe (dico "sarebbe" perché l'educazione e il dibattito musicale forse sono ai minimi storici) anche largamente stimolante. Sebbene si possa addirittura pensare di sovrapporre questo concetto con una certa fase del pensiero musicale (soprattutto tedesco), qualcosa di questo costrutto-idea di "musica assoluta" sembra resistere, di certo con connotati completamente lontani da quelli che sono emersi in epoca romantica e che poi sono stati fissati una volta per tutte dal potere definitorio di determinati compositori e teorici. Tutta quella musica che è scritta per un testo, un film, un'installazione, una sonorizzazione site-specific, e ancora per un'opera di teatro o una musica scritta per una canzone popolare o meno (larga parte della musica di oggi) non è musica assoluta, in quanto legata fortemente all'impiego che ne verrà fatto. In questo il Novecento, con la non trascurabile eccezione teorica di Stravinskij, non ha saputo rinverdire una riflessione sul concetto di musica assoluta, che pure avrebbe più di qualche motivo per riproporsi con nuove spoglie che rivestano forma e contenuto di una composizione musicale. Quindi che cos'è quella sorta di intuito che la musica assoluta acciuffa e che poi albergherà immanente nella logica stessa di una composizione musicale, senza alcun riferimento extramusicale?  Questo testo, che si destreggia anche tra concetti affini come quello di "musica pura", "musica strumentale" o quelli di "poésie absolue" (Valéry), rimane una lettura di riferimento per chiunque voglia interrogarsi sulla natura della musica, ben al di là (e anche al di qua) degli scossoni teorici che il Romanticismo ha inevitabilmente comportato su questo tragitto filosofico e storico. E poi ci sono Richard Wagner e la sua eredità sempre sullo sfondo di queste pagine e pure questo lascito, in qualche modo, va sempre "attraversato" (con o senza la luce dei notori Nietzsche contra Wagner).

La disquisizione di Dahlhaus va ben oltre questi spartani appunti che ho tracciato e abbraccia necessariamente anche il possibile essere "sciolta dall'uomo" di questa musica. E non poteva, nel suo incedere, diventare parimenti un libro di filosofia della storia e delle forme simboliche. Sappiamo che dal Romanticismo sempre più le categorie estetiche si sono sovrapposte a quelle storico-filosofiche. La realtà del pensiero fu comunque assai sfaccettata e lo stesso Romanticismo non si presenta certo ai nostri occhi come un monolite. Il pregio di quest'opera sta appunto nella capacità di distinguere i singoli contributi che via via si sono coagulati attorno a questo involucro del nostro concetto, il quale, nel lambire la poesia, non può non riprendere il lascito di Poe, Mallarmé e Baudelaire e quell'epoca in cui poesia e musica hanno provato rimpiazzare la religione con l'arte (va ricordato il concetto di musica assoluta trova in ambito letterario le più forti spinte definitorie). Un libro di riferimento, quindi, ma anche un ottimo ripasso di alcune boe fondamentali del pensiero filosofico e musicale (oltre ai già citati Wagner e Nietzsche, va ricordata la prominenza di Tieck, Hanslick, Hoffmann, Hegel, Herder, Rousseau, Busoni e soprattutto Schopenhauer, che tornerà a stracciare i suoi veli).


sabato 2 luglio 2016

Su "Breviario di novembre" di Alessandra Conte: una lettura di Giusi Montali

Ospito un nuovo contributo critico di Giusi Montali, che ringrazio. Anche stavolta il libro in questione non è recente: parliamo infatti di Breviario di novembre di Alessandra Conte uscito per Raffaelli Editore nel 2009.

Un breviario da recitare a novembre, mese che si trova agli antipodi di quello mariano, presenterà una sacralità rivista, addirittura ribaltata che si esprime attraverso la voce di una «suora bambola» che dal suo letto di morte invoca dio e la Madonna, rosario alla mano («La suora bambola antica | si infila perle di pepe | nelle mani a sgranare il tempo | scaduto in giorni e pagine»). La suora infatti si prepara alla morte, al viaggio nell'aldilà e a una presunta rinascita, recitando le sue preghiere («E la santa ammalata | schiamazzava alla pioggia | tra maioliche vaghe | segnate dalle febbri»; «Rimuore, si chiama femmina | un'ultima volta»). Tale personaggio è però presente solo nel primo testo, nel ventunesimo - e siamo a metà della raccolta -, nel trentanovesimo e infine nell'ultimo: nel mezzo le litanie, le preghiere, le orazioni pronunciate dalla suora che delineano una religiosità altra rispetto a quella ufficiale. Si è infatti di fronte a una religione materica, infantile, grottesca ma immediata che si prende in carico lo stesso dio, ridotto a così poca cosa da dover essere protetto («Prega per dio e gli ammalati») perché appunto ferito («signore dai polsi rotti, | che cadi e t'inabissi | a farti male»), oppure perché puerile («Signore dei giocattoli»). Un dio che si ritrova ovunque proprio a causa della sua assenza:

Ovunque ti vedo signore, e ti lodo,
nell'ovunque del corpo quando trema

e perde le ginocchia e i polsi, nel bacino
rotto caduto dal ciliegio, nella pelle
che fa male. Canti nella tua lingua,
signore. dio iddio il santissimo
ti ho visto nelle ferite in bocca
a sagoma del dente che le ha intagliate,
cesellatore iddio. Le canto, le lodi,
come canto lascivo e sguattero, e so
che sei la corda segnata dai nodi,
sei la vite americana che ha sprecato
le foglie all'autunno e ovunque
ti lodo, signore,
per ovunque nessun luogo che ti dai.

Il dio del Breviario di novembre è una divinità minuscola, inutile, e spesso le invocazioni ne riducono ulteriormente il ruolo e il potere («dio piccolo, | mosca senza un'ala»). È un dio che non è più capace di dare risposte o di risolvere determinate situazioni («signore | delle chiavi perse e delle risposte sbagliate»), ma può essere invocato affinché possa concedere la fortuità di trovare ciò che si va cercando («fammi trovare i libri, miei per diritto, | e che anzi essi trovino me, e si aprano | alle pagine segnate, le più consunte»). Oppure, nonostante la pochezza di questo dio, il fedele lo invoca con una certa voluttà masochista per divenirne vittima, per subire sul suo corpo i dolori della divinità stessa e riecheggiarne i tormenti («Sono il tuo | confessionale, dio, straccio lurido, mi faccio | concavo per te, per risuonare ai tuoi lamenti»). Il fedele arriva persino ad annullarsi pur di ricevere l'amore di questo «ladro dio folle», chiedendogli di essere da lui sepolto e in seguito amato («sepoltomi il corpo amami»). Ma quello di cui può beneficiare il fedele è un dio che è morto, cadendo dalla sua precedente altezza e ciò che ne rimane è ben poca cosa, anzi occorre che il fedele si trasformi in badante («Il dio del coraggio è morto | rotolando nella scarpata. Al fondo, | è rinato senza memorie, ma | con le dita rotte la faccia livida. | o dio, tu non che ti è successo. | Muori davvero, dormi. | Muori che ti veglio; dormi che sorveglio»). Mentre altrove dio viene bestializzato, rivelando la sua natura ferina e teriomorfa: «dio testuggine dio porcospino dio piuma, gatto | dio animale, bestia che sputa che maledice». In tal caso, il fedele pratica una forma di teriolatria, rendendo evidente come nel Breviario ci sia un recupero di forme arcaiche di religiosità.

Analogamente viene virata anche l'immagine consueta della Madonna: le invocazioni mariane cedono il passo a litanie che inscenano una Madonna logorata dalla fatica di vivere, protettrice degli aborti e delle donne che subiscono la loro maternità («Madonna delle madri controvoglia»; «Madonna sei, di sangue e mestruazioni | del ciclo anovulatorio, che gioca a palla | con chi non vuol covare uova, | a rimpiattino con chi rinnega l'anatroccolo»; «Madonna, tu che sei | controvoglia tout court»). Una Madonna che ha perso la sua innocenza e diviene «rea dei mille peccati», una Madonna «delle acque | rotte e dei veleni al seno» dalla quale i fedeli colgono i «frutti abortiti». In particolare, viene esaltata la sua similarità con una qualsiasi donna, privandola quindi di ogni connotato mistico, sebbene continui la propria azione di protezione e di rifugio («Accoglici sotto la tua gonna trendy»). Si ha poi un intero repertorio di Madonne, colte nelle più varie attività quotidiane e trascinate nella contemporaneità («Ecco la madonna delle rocce, | ha scordato il mantello pesante | e sta correndo, centometrista»).

Il Breviario non risulta però completo: delle originarie 365 invocazioni ne sono rimaste 300 e quelle andate perse erano essenziali («Trecento le invocazioni | - perdute le sessantacinque | necessarie -»). Il lettore si trova quindi sotto gli occhi una selezione delle invocazioni superstiti prive però di un qualsiasi potere. L'essenzialità è altrove e così come ci si deve accontentare di pregare un dio misero, analogamente ci si deve accontentare di preghiere – ma sarei tentata di ricorrere al termine formule magiche – ininfluenti. Preghiere che si innestano su orazioni presenti effettivamente nella tradizione cristiana, ma che vengono stravolte da Alessandra Conte. Così, succede ad esempio per la preghiera O Gesù d'amore acceso non ti avessi mai offeso, per un passo biblico («Qual è il tuo nome, signore?», Giudici 13:17) e per una litania lauretana («O Causa Nostrae Letitiae»). La serie di preghiere contemporanee contenute nel Breviario scardinano quindi violentemente la religione tradizionale e pongono al centro della pagina alcune immagini inedite di dio e della Madonna. Tutto diviene materia, come ad allontanare un rapporto esclusivamente spirituale con la divinità: il fedele cerca il contatto, il rapporto diretto privo di qualsiasi mediazione. Questa volontà si esprime attraverso espressioni violente, concrete, quasi sacrileghe. Anche la ritualità si fa materia e le preghiere si trasformano in filastrocche, in forme rituali e apotropaiche che sostituiscono al dio cristiano uno totemico. Si perviene così a una nuova teogonia costituita sì di un linguaggio esoterico ma al tempo stesso concreto, immediato, apparentemente comprensibile («Dammi parole cifrate, ma le più | chiare possibile, per costruire la mia teogonia»).

E se dal 2009 Alessandra Conte si ritrova a presentare pressoché ogni anno Breviario di novembre, si deve proprio alla potenza del linguaggio utilizzato e alla struttura che unisce e potenzia i testi creando un immaginario inusuale, e tutto ciò dimostra che la prova del tempo sta dando un ottimo esito.



Giusi Montali