venerdì 8 luglio 2016

"I profughi" di Arno Schmidt: la vita è un ripiego

Via via si sta ampliando il panorama delle traduzioni delle opere di Arno Schmidt, grazie anche alla collaborazione stretta con la fondazione che porta il nome di questo scrittore nato ad Amburgo nel 1914, la Arno Schmidt Stiftung. I profughi (pp. 160, euro 16, una curiosa copertina col volto a metà che forse riprende un certa tendenza delle foto dei "profili", volto che poi compare nella sua interezza sul retro) esce ora per Quodlibet nella cura e commento di un sempre più attivo Dario Borso (sua è anche la recente versione del primo libro di poesie di Paul Celan, La sabbia delle urne, proposto negli ultimi giorni da Einaudi). Di Borso, che assieme a Domenico Pinto forma la coppia dei principali artefici della proposta di Schmidt in Italia, va segnalato il ricco "Commentario" che accompagna il volume, quasi un'opera dentro l'opera. Il breve romanzo, che ha caratteristiche peculiari anche di impaginazione e passo, fu scritto nel maggio del 1952. Il quadro storico è tanto fondamentale quanto poco noto, oscurato com'è dalle grandi conferenze postbelliche e meno concentrato a fotografare gli effetti che queste produssero. Tale quadro coincide, nel caso della Germania, con quell'emigrazione forzata di milioni di tedeschi dalle zone orientali dell'Oder, nella cosiddetta linea dei fiumi Oder-Neiße, divenute territori di Polonia e Cecoslovacchia in seguito agli accordi di Potsdam, e del conseguente ammassamento coatto nell'area del Reno. In questo tremendo e brutale spostamento Est-Ovest di una fiumana di persone nel ventre dell'Europa centrale, in un panorama di macerie che non riusciamo forse più ad immaginare, si cala la storia d'amore tra chi prova a campare di traduzioni e una giovane vedova di guerra, Katrin, che ha perso una gamba, cammina grazie a una protesi e si sostiene grazie alla pensione di guerra del marito (è lei il personaggio vitale e chiave in questa vicenda).

La foto di copertina (per intero)
Unstoria d'amore, dicevamo. Ma non c'è tenerezza o intimità in queste pagine. Tutt'altro, è una storia d'amore mai letta o quantomeno rara in letteratura. C'è semmai la sopportazione di una vita quotidiana che si fa sempre più insopportabile, c'è la vera condivisione (non quella che chiamiamo oggi "condivisione"), c'è l'amore diverso e scorticante di chi è profugo fino al midollo (il titolo originale del libro è Die Umsiedler). Definito dall'autore "svelto e non breve", nella lettera che ne accompagnava il primo invio a Martin Walser, giovane redattore di "Süddeutsche Rundfunk", questo libro è un buon punto di partenza per cimentarsi nella lettura di questo autore e di una prosa che qui si muove in brevi capitoletti introdotti da riquadrate fotografie di parole seguite da uno "svolgimento". Il "metodo Schmidt", a livello scrittorio, non incontrò i favori di grandi traghettatori della letteratura tedesca nel Novecento (penso al deux ex machina di tanta editoria italiana novecentesca, Roberto Bazlen, a Cesare Cases, i cui pareri di lettura sono disponibili in un'opera meritoria pubblicata da Aragno o al tentativo di Einaudi di pubblicarlo trent'anni fa, tentativo che però finì per non agevolare la sua penetrazione in Italia). Ed è proprio nella ricerca di oggettività, così diversa da quella perseguita dal nostro Italo Calvino negli stessi anni, che oggi troviamo motivi di grande interesse nell'affrontare l'opera di questo autore. Certo leggere Schmidt può assomigliare a una fatica perché nella sua pagina si riversa una riflessione radicale sul senso della scrittura e della testimonianza, e questo riversamento non è quanto di più entertaining possiamo trovare oggi in libreria. Per Schmidt lo scrittore fa quello che lo storico non fa quasi mai con il proprio tempo, tanto è schiacciato su un asse orizzontale di diacronia: ne traccia un quadro, fissa, restituisce anche i processi mentali degli uomini che abitano questo preciso tempo. Non deve assolutamente passare il concetto che la suddetta fatica sia necessariamente sinonimo di spreco inutile di energie (sta già passando, anche in contesti un tempo insospettabili come quelli universitari). Non abbiamo nulla contro gli scrittori bravissimi che sanno tenere incollati alla pagina o che scrivono un libro-parallelepipedo di 1200 pagine che si fa leggere tutto d'un fiato (tutti campioni d'apnea siamo improvvisamente diventati!), ma abbiamo parimenti a cuore chi, scrivendo un libro breve o "svelto" che sia, sa farci alzare gli occhi dalla pagina di tanto in tanto, perplessi o riflessivi, e chi ci fa anche tirare il fiato mentre leggiamo e ci regala un respiro rivoltato. In quegli sguardi alzati dalla pagina o in quel fiato tirato possono celarsi infatti i più fervidi piaceri della lettura. Con la prosa di Arno Schmidt questo può accadere (non dobbiamo necessariamente correre tutti la maratona insomma e gli 800 metri sono sempre stati una delle più affascinanti gare dell'atletica leggera).

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