venerdì 30 agosto 2013

Crediting Poetry. L'imballatrice di Seamus Heaney

Seamus Heaney (1939-2013)
Strano, straniamento. Proprio durante la settimana mi sono trovato a stampare dal sito della Fondazione Nobel il discorso che Seamus Heaney tenne in occasione della consegna del massimo premio, nel 1995. Lo trovate (si fa per dire, visto che il libro è fuori catalogo) anche in traduzione in un volumetto curato da Marco Sonzogni per Archinto nel 1997 e intitolato Sia dato credito alla poesia. (Lo stesso Sonzogni è il traduttore dell'opera di Heaney per i Meridiani Mondadori, programmata in uscita il prossimo anno.) Credo si potrebbe comporre un libro-antologia con i vari discorsi dei poeti premiati con il Nobel. Forse già esiste altrove. Ne uscirebbe, quasi sinotticamente, una qualche idea di poesia, in contrappunto alle opinioni fiacche che spesso ascolto oggi. Tali "prolusioni" invece risiedono in pubblicazioni isolate, oppure online, oggi, per chi è disposto a pescarle da quegli archivi. Vi ho spesso trovato spunti notevoli. Anche quello di Montale o quello di Wisława Szymborska, a mio avviso, restano discorsi importanti, come Crediting Poetry di Heaney, che vi consiglio, caldamente, come il caldo buono di questo esodo (non controesodo) dell'estate.


Di Heaney, in Italia, è recentemente uscito un libro breve per un editore interessante come Tre Lune (un catalogo da tenere sott'occhio). Si intitola Virgilio nella Bann Valley (pp. 104, euro 13, a cura di Giorgio Bernardi Perini e Chiara Prezzavento) e rappresenta, volendo tirare un po' lo sguardo, un inedito e bell'incrocio tra il grande irlandese e il nostro Zanzotto, all'insegna di Virgilio. Il volume rimanda alla traduzione della Bann Valley Eclogue (già in Electric Light assieme all'altro testo virgiliano intitolato Virgil: Eclogue IX) e contiene contributi saggistici inediti disparati, tutti confezionati per un'occasione importante, quale fu la consegna del "Premio Internazionale Virgilio" avvenuta Mantova nel 2011. Anche la presenza di Virgilio, trasversale, in sincronia e diacronia, potrebbe essere oggetto di un qualche studio. A me interesserebbe leggere qualcosa di simile, detto in altre parole. Credo che questo piccolo libro, uscito un paio di mesi fa, diventi ora, a pochi istanti dalla notizia della morte del poeta, un bell'omaggio, proprio quando in Italia, nel frattempo, cresce anche l'attesa per la traduzione "integrale" di Marco Sonzogni.


L'ultima traduzione di peso pubblicata sinora in italiano rimane quella di Human Chain (Catena umana, Mondadori, 2011). Ne ho già accennato, in uno dei primissimi post di questo blog. Con questo libro Mondadori aveva avviato tra l'altro una nuova veste grafica per la collana Lo Specchio e pubblicato quattro bei (anche se orribili nel formato e nella carta) volumi di poeti "giovani" (Bernini, Carabba, Pellegatta e Ponso). La traduzione, come nel caso di Electric Light, era stata affidata a Luca Guernieri, dopo anni in cui il lettore italiano aveva conosciuto la poesia e le prose di Heaney nelle versioni dell'amico Massimo Bacigalupo o di Roberto Mussapi. Di questo libro pesco un testo soltanto. Come si legge anche in Virgilio nella Bann Valley, a volte non sono importanti "molti testi". A volte, per ciascuno di noi, basta il senso del trascolorare di pochi testi nell'arco di una vita. La mia scelta cade allora su The Baler, una poesia che mi riporta molto indietro, alle balle di fieno della mia infanzia, anche se quelle erano parallelepipedi e non cilindri come queste irlandesi di Heaney o quelle che troviamo ormai ovunque anche nei nostri paesi. La traduzione è mia. Ce l'avevo, quasi pronta.

L'imballatrice

Il rumore di un'imballatrice tutto il giorno
senza sosta, monotonia cardiaca,
dato per scontato

al punto che arrivò la sera prima
che capissi cosa stavo ascoltando
e perdendo: le ore più piene dell'estate

come erano trascorse dal principio,
sollevate dalla forca, solcate di sudore
e quasi ricompensate quanto basta

dal trotto di un trattore in corsa
sul finire del giorno
all'ultimo giro del campo di fieno.

Ma quello che ricordai anche,
mentre i colombacci corteggiavano al bordo
di trenta acri spigolati

e io stavo a inspirare il fresco
in un eldorado crepuscolare
di possenti balle cilindriche,

furono le parole di Derek Hill,
l'ultima volta che sedette al nostro tavolo:
non ce la faceva più a guardare

la discesa del sole
e chiese se per favore poteva
essere messo con le spalle alla finestra.


The Baler

All day the clunk of a baler
Ongoing, cardiac-dull, 
So taken for granted

It was evening before I came to
To what I was hearing
And missing: summer's richest hours

As they had been to begin with,
Fork-lifted, sweated-through
And nearly rewarded enough

By the giddied-up race of a tractor
At the end of the day
Last-lapping a hayfield.

But what I also remembered
As woodpigeons sued at the edge
Of thirty gleaned acres

And I stood inhaling the cool
In a dusk eldorado
Of mighty cylindrical bales

Was Derek Hill's saying, 
The last time he sat at our table,
He could bear no longer to watch

The sun going down
And asking please to be put
With his back to the window.

lunedì 26 agosto 2013

Femminicidio e "femminimondo". Intervista con Alessandra Carnaroli

Librobreve intervista #21


Alessandra Carnaroli
per nulla convinta
di "Violata", una statua
che trovate ad Ancona
"Femminicidio": parola ricorrente nella statistica lessicale dei giornalisti italiani negli ultimi mesi. Eppure si tratta di qualcosa che è stato solo recentemente "tematizzato". Ora che il "tema" è salito in primo piano nell'agenda setting dei media se ne parla con maggior frequenza, metodo e continuità. Eppure c'è chi già nel 2011 pubblicava un libro di poesia interamente incentrato sul "femminicidio" e sull'oscuro e laido magazzino, sempre più carico di orrori, della violenza sulle donne. Mi riferisco a femminimondo di Alessandra Carnaroli, uscito per Polìmata (con l'Associazione "Erinna-donne contro la violenza alle donne" - Centro antiviolenza di Viterbo, pp. 100, € 10, postfazione di Tommaso Ottonieri). Ho ascoltato l'autrice leggere le poesie di questo libro durante la rassegna trevigiana curata da Marco Scarpa. Poi lei stessa mi ha contattato ed è nata questa chiacchierata attorno al libro, al suo "pre" e al suo "post". Per concludere l'intervista, Alessandra Carnaroli ha preferito regalare ai lettori di Librobreve un inedito. A chi volesse approfondire segnalo questa recensione di Cecilia Bello Minciacchi pubblicata da Puntocritico.eu.


La copertina di
"femminimondo"
LB: "femminimondo": com'è arrivato questo titolo?
RISPOSTA: il titolo è un’addizione: femminicidio (neologismo usato per definire la violenza sulle donne ritenute oggetto e preda sessuale che spesso culmina nel femicidio ovvero l’uccisione della donna in quanto donna. Un termine che individua le cause del sessismo in una cultura di tipo patriarcale, trasmissibile per stereotipi, chiamando in causa le istituzioni che nulla o pochissimo fanno per prevenire tale violenza e promuovere una cultura del rispetto) + finimondo, usato spesso nel racconto dei “testimoni” per descrivere la mattanza (è successo un). L’operazione non è riuscita visto che molti hanno interpretato il titolo come “mondo al femminile”, cose da femmina, allontanandosi dal motivo di denuncia del testo, ricadendo in quella divisione portata avanti dal femminismo della differenza (per cui le donne sono vittime e i maschi carnefici, le donne “amiche” da difendere sempre e i maschi “il nemico” da distruggere a prescindere, le donne sensibili per natura e gli uomini invalidi sentimentali e così stereotipando) che continua a non mettere in luce una delle cause fondamentali della violenza sulle donne: il rapporto di potere impari tra generi, tra chi lo detiene e chi lo subisce. Me batto il petto. 

LB: Una volta hai detto che per te la materia di questa poesia (femminicidio, violenza sulle donne) veniva prima della forma scelta per parlarne. Allora è la materia che ha scelto la strada/forma della poesia? Può sembrare una domanda marzulliana, ma perché proprio in poesia e non, ad esempio, un documentario o altro?

RISPOSTA: Perché faccio (con risultati alterni) poesia: una forma di preghiera laica, una base breve, veloce per raccontare il danno. Se vuoi molto facile per chi fatica, come me, a tenere il passo di un raccontare più lungo. Sono pigra una meraviglia e stanchevole quanto basta per andare a capo spesso. Scrivo per immagini corte quindi, tipo Lascaux, in un tentativo rupestre di procacciarmi il pranzo (cosa non si fa per). Un primitivissimo pittore di bisonti, insomma.

Rosaria Lo Russo
LB: Il lettore che prende in mano il tuo libro s'accorge subito di uno stacco profondo da tanti "dettati" più comuni della poesia attuale. Eppure io ho ritrovati, rielaborati lungo le tracce che lasci, anche molti segnali di una tradizione. Quali sono state le letture fondamentali per te?

RISPOSTA: Per femminimondo fondamentale è stata la pagina di cronaca di Repubblica: la riduzione della tragedia a trafiletto. Lo stereotipo nascosto dall’efficienza tecnica del compitino per casa. L’insinuazione della complicità della vittima (perché prostituta, straniera, divorziata o in via di separazione, perché ubriaca, perché sola di notte, perché vestita da troia). E poi, più in generale, c’è la mia attrazione bassissima per lo scrosto. Che non è impegno civile (quello l’ho costruito dopo, avvicinandomi al femminismo di piazza) né volontà di denuncia: ha motivazioni meno degne (visto che di dignità si parla tanto per giustificare inasprimento delle pene e censure). Lo Scrosto è la passione insana che dimostrano i bambini nel levarsi le croste dalle ferite, quel farsi male con piacere, per vedere cosa c’è sotto, per amor del Cicatrene. Me la porto dietro, in forme diverse, da taglio intimo a scartata a femminimondo
Mi si accosta spesso ad autori di poesia prosastica ma “ritengomi” figlia dell’omino ciao di Italia’90 per parte di padre e wild boys dei duran duran per parte di madre. Profondissimamente scappo fuori dal pulp italiano, questa disperata battaglia da bagnodoccia: ecco più prosa che poesia. Più posa (tipo vino che s’assesta infondo alla bottiglia). La sedimentazione storta dei rapporti, che sono spesso forza e potere in pressione altissima. Da qualche parte deve pure uscire. Un po’ di sangue. Della mistica del tramonto poco m’importa, per capirci. Della mistica in quanto donna e corpo e fisica della schianto sì invece e tanto. E ti cito Rosaria Lo Russo sopra, fisiologicamente sopra, tutt*.

LB: Quali sono state le principali reazioni a un libro così costruito? Quali quelle che ti hanno fatto più piacere, pur nella terribilità del tema trattato e quelle che magari ti hanno pure contrariata?
RISPOSTA: La più bella e la più terribile (che come sempre stanno accoppiate, una sull’altra, missionarie) : “hai scritto quello che ho beccato”, by una donna cassonetto, lei risorta. 

LB: Credo sia stato un libro molto faticoso. Dopo la fatica, quali sorprese ti sta riservando la scrittura?
RISPOSTA: Faticoso, sfibrante e insieme rigenerante come ogni dramma che ti tocca sì ma di striscio. Vomitevole se penso che raccontare la violenza sugli altri serve (pure) ad esorcizzarla. Sono un prete tremendo. Anche. Continuo comunque a scrivere di rapporti di forza, di tensioni, di squilibrio tra le parti: ci sta annammatta 467 membri, inedito finalista al premio delfini 2013, riscritto in fase polmonitica e sotto l’effetto di dosi massicce di cortisone, dove la vittima di questo giochetto (che genera sempre minoranze e ghetti, sennò si vasectomizza) è donna e schizofrenica, la matta dunque, oggetto di scherno e violenza sessuale (pure lei a detta di molti consenziente, visione ortodossa di una malattia che ce piace finché ci si concede senza freni). Ci sta prec’arie (inedito finalista al premio miosotis della d’if edizioni) dove la conta ha detto che tocca ai precari, agli immigrati, ai senza tetto saltare per aria il 12 febbraio. Ci sta La rabbia di me racconti inediti dove il carnefice stavolta è la donna e la vittima il figlio in quanto figlio: oggetto da venerare e distruggere quando s’inceppa e perde la sua funzione di beatificazione del materno. Il torbido con l’uomo intorno che gira fortissimo e investe tipo bay blade atomico l’infermo di turno. Smontare la norma e rivendicare una ripartizione della Forza tipo cartone animato giapponese senza lieto fine: c’è una quotidianità infetta che non ci pare, che ci conclude finiti nel bene e nel male. Superare, please, superare. Magari con un’invettiva che ribalta, come è successo con l’antologia Bastarde senza gloria uscita per Sartoria Utopia, nella quale ci si sollazza, con altre poete cosiddette eterodosse, a far uscire il latte dal pentolino. Questo sbricco dell’a capo che potentemente distrugge prodotti tipici-poetici, tipo appunto cuore, sole, amore.

LB: Scegli tu un testo col quale chiudere questa chiacchierata? Grazie.
Scelgo un’inedita non proprio recentissima e totalmente fuori contesto dedicandola a certa R.M. e tal’altra miccia attivata che han raccolto più d’una volta questo modo mio di far nascere poesia dalla cronaca, tipo calendula dalla merda, parafrasando. Così tanto per lenire, se vi pare.


Sfughe: una serie di coincidenze e vanghe
I musulmani gli puzzano le mani
Dice mia figlia di sei anni
Che glielo ha detto la collega bambina anche lei
Della scuola primaria
Primaria dell’odio
Delle razze
Magrebini marocchini africani
Nerissimi
Dice c’hanno pure la pelle marroncina schifina
Bambina
Sima
Bella asinina non c’hai
Mai la gomma
Cancelli coi denti
Le macchie della pellaccia
Negra conserva/pummarola che tuo padre raccoglie
Diretta dai campi a 3 euro l’ora 
Già piccolina
Vermicina
Fiumicina
Dentro un tubo
Di sfiga natale
Ed errori grammaticali
A senz’acca
Apostrofi
Dell’olio e aglio
E raglio ghi ghe gi ge
La tua svastichina
È un ginocchio sempre sbuccio 
E acqua ossigenata per ossigenare


Prego

giovedì 22 agosto 2013

Viceversa Letteratura, la Svizzera in una rivista trilingue

Riviste #1

Da tempo cullo l'idea di tornare a un vecchio amore, cioè quello per le riviste. (In fondo questo blog è nato dopo aver collaborato per diversi anni a una rivista e per non aver accettato del tutto la fine di quell'esperienza.) E volevo tornare alle riviste proprio da questa cornice del blog, visto che alcune di loro si comportano (o noi le facciamo comportare) come dei piccoli libri brevi, che apriamo, spulciamo, leggiamo a più riprese, a salti. Certe riviste sono come una collezione di libri brevi, di piccole sillogi, di minuscoli libri-intervista. Le riviste poi, quando sono ben fatte, sono importanti tanto quanto i libri ben fatti. Le riviste parlano di libri e a volte si possono ricavare bei libri dalle riviste (in Italia ricordiamo gli esperimenti di Minimum Fax o di Isbn). Canova ad esempio, editore della mia città, pubblicò tanti anni fa una serie bellissima di riviste-antologia in una collana intitolata "Riviste dell'Italia moderna e contemporanea" (Pègaso-Pan, Cronaca bizantinaProspettive/Primato, Strapaese e Stracittà, Fanfulla della Domenica, Riviera Ligure, Il caffè, La frusta letteraria del grande Baretti e molte altre). Io credo che quella collana abbia un discreto potenziale commerciale tuttora, se opportunamente ripubblicata, ma sembra che non sia pensabile una ristampa o riedizione a breve: misteri dell'editoria.

Cercavo comunque il giusto stimolo per aprire uno spazio dedicato alle riviste e questo finalmente è arrivato dalla Svizzera, da Friburgo per l'esattezza, dove ha sede la rivista "Viceversa Letteratura", pubblicata, per quel che concerne l'edizione in lingua italiana, dall'editore Casagrande di Bellinzona. "Viceversa" è una rivista annuale, un volume brossurato ricco che può davvero tenervi compagnia attraverso dodici mesi e quattro stagioni. Ha una redazione multilingue e prende poi tre strade: un'edizione in italiano, una in tedesco e una in francese. Non manca tuttavia, e nei vari dossier e nella consueta "Annata letteraria svizzera" pubblicata alla fine di ogni numero, l'attenzione costante a ciò che si scrive in romancio (così come a quello che si scrive nei dialetti tedeschi).

Il numero di cui vi parlo è il più recente, ma vi consiglio di andare a guardarvi l'archivio degli arretrati, visto che ogni annata cela dei dossier ricchi e polposi. Si crea così uno strano rapporto tra l'anno che trasforma il volume quasi in un annuario e una sorta di intramontabilità di ogni singolo volume. Il numero 7 del 2013 porta in copertina i nomi di Paolo Di Stefano, Anne Perrier, Händl Klaus, Leta Semadeni, Kurt Marti, Monique Schwitter, Étienne Barilier, Maurizia Balmelli (qui già ricordata per le traduzioni da Ágota Kristóf), Christian Viredaz, Christina Viragh, i testi inediti di Ugo Petrini, Noëlle Revaz, Werner Lutz, Ángela Pradelli. Molto interessante per me è stata la scoperta, grazie al contributo dedicatogli da Matteo Ferrari, della figura di Plinio Martini, giunto alla notorietà con il romanzo del 1970 Il fondo del sacco.

Un cenno deve essere riservato anche alla cura tipografica di ogni volume, segnatamente svizzera verrebbe da dire, se non fosse che anche gli italiani, troppo spesso dimentichi dei padri e delle madri che hanno alle spalle in fatto di tipografia e cultura visuale, potrebbero giocarsi qualche buona carta nella storia della cultura tipografica.

Per concludere pubblico (e così farò con le prossime puntate dedicate ad altre riviste) una breve scheda, per agevolare la rintracciabilità e i contatti con la rivista stessa:

Viceversa Letteratura
Periodicità: annuale
Direzione e redazione: Yari Bernasconi (redazione italiana), Ruth Gantert (edizione tedesca), Marion Rosselet (edizione francese)
Sito web: www.viceversaletteratura.ch
Contatti: contact@viceversaletteratura.ch
Twitter: https://twitter.com/viceversa_l

Rivista pubblicata con il sostegno di Ufficio federale della cultura, Pro Helvetia, Fondation de Famille Sandoz, Loterie Romande, Percento culturale Migros, Fondation Leenaards.
Edizione italiana: Edizioni Casagrande
Edizione tedesca: Rotpunktverlag
Edizione francese: Éditions d'En Bas

domenica 18 agosto 2013

La casa editrice Kolibris: partenza e ritorno al testo. Intervista a Chiara De Luca

Librobreve intervista #20

Prosegue la piccola serie di interviste estive, stavolta con l'intento preciso di introdurvi ad un progetto editoriale meritevole della vostra attenzione. Parliamo della casa editrice Kolibris, fondata da Chiara De Luca. Ad una semplice sbirciata del catalogo, rapidamente ispessitosi, è evidente lo sforzo "stoico" di andare oltre le secche delle discussioni modaiole che spesso sterilizzano il dibattito letterario italiano, il quale tra l'altro si pone assai di rado, almeno in ambito poetico, il "banale" e semplicissimo interrogativo di capire cosa accada e come si scriva poesia al di fuori dei nostri confini. I libri, spesso piccoli e brevi, confezionati da Kolibris sono invece un'ottima risposta alle curiosità e all'interesse di chi si pone, più o meno frequentemente, questo tipo di domande. Ci auguriamo naturalmente che questi lettori diventino sempre di più in numero. E che la critica o il fantomatico dibattito facciano pure il percorso che credono, anche ignorando queste pregevoli traduzioni. Spesso non si sa cosa si perde...

LB: Quando e come nasce Kolibris e come definiresti la sua linea editoriale? Quale la scintilla?
RISPOSTA: Kolibris è nata ufficialmente nell’ottobre del 2008 a Bologna, da una duplice esigenza: quella di inventarmi un lavoro, e quella di creare promuovere e diffondere poesia che ritenevamo meritevole esclusivamente sulla base della lettura del nudo testo, in virtù di criteri di valutazione dell’effettiva qualità letteraria dell’opera, a prescindere da qualsiasi linea, scuola, orientamento di pensiero e da qualsiasi altro condizionamento accessorio.

LB: Da chi e come viene la produzione dei volumi, l'aspetto grafico, l'impaginazione e gli altri aspetti legati al "fare libri"?
RISPOSTA: Viene da lontano, da quando da bambina realizzavo piccoli libri di racconti ritagliando fogli a quadretti e cucendoli insieme. Ho sempre pensato che le parole non abbiano bisogno di molto altro che di un foglio bianco. Questa convinzione si è tradotta in volumi tascabili di formato 12x17, dall’aspetto grafico sobrio ed elegante al contempo, con copertina monocroma bianco avorio di una tonalità poco più scura dell’interno, molto curati nelle finiture e nei materiali. Mi occupo io stessa dell’impaginazione e seguo personalmente tutte le fasi della lavorazione dei libri.

LB: Parliamo di traduzione, un argomento che ti riguarda da vicino ma che investe in pieno l'essenza del progetto Kolibris, visto che non sono poche le traduzioni che pubblicate. Come avvengono le scelte e come vengono assegnati i lavori di traduzione, valutate eventuali proposte e ultimato l'editing?
RISPOSTA: Sì, Kolibris è nata anche con l’intento di promuovere e valorizzare il lavoro di traduzione, di cui non sempre è riconosciuta l’importanza. Circa il 70% dei libri del catalogo Kolibris, suddivisi in venti collane, ciascuna dedicata a un paese europeo o extraeuropeo, sono opere di autori stranieri pubblicati con testo a fronte. Gli autori vengono scelti sulla base di consigli e indicazioni di editori stranieri o dei collaboratori di Kolibris, tutte persone già attive da anni nei rispettivi ambiti culturali di pertinenza in qualità di ricercatori, docenti universitari, traduttori, critici letterari e poeti. Spesso sono autori stranieri che hanno già pubblicato con Kolibris a presentarmi l’opera di altri autori, connazionali o meno, che ritengono meritevoli d’interesse e di attenzione. A volte sono gli autori stessi a proporre le proprie opere per una eventuale traduzione e pubblicazione in Italia. Altre volte sono i traduttori a presentare un progetto editoriale relativo a un autore che amano e di cui spesso si occupano da tempo, e che vorrebbero vedere pubblicato in Italia. Solitamente si tratta di traduttori di professione, dunque le loro traduzioni non necessitano di un editing “pesante” e interveniamo più che altro su eventuali refusi e distrazioni. Anche perché se diamo uno stesso testo da tradurre a venti traduttori diversi avremo venti testi ben diversi l’uno dall’altro. Da traduttrice poi nutro un forte rispetto per il lavoro altrui e tendo a non intervenire se non dove ritengo che sia strettamente necessario.

LB: E con gli autori italiani, qual è il rapporto?
RISPOSTA: Valutiamo tutti i manoscritti che pervengono in casa editrice, in forma cartacea o a mezzo e-mail e forniamo in ogni caso una risposta. Nel caso di risposta affermativa si comincia a lavorare insieme a un progetto comune che non ha come unica finalità quella della pubblicazione di un libro, bensì anche un dialogo in vista di future collaborazioni.

LB: Quali sono i titoli di cui andate più fieri e quali sono quelli che hanno suscitato maggiore interesse?
RISPOSTA: Tutti i titoli sono stati accuratamente vagliati e ogni libro è l’esito di un percorso. Ciascuno quindi riveste per me la stessa importanza.

LB: Con quali mezzi si affaccia nel grande mare librario una sigla editoriale come Kolibris? Quali le strategie di promozione e visibilità?
RISPOSTA: Lavoriamo molto sulla promozione online. I nostri libri possono essere ordinati in tutte le librerie italiane e su vari siti, tra cui ibs, webster, libreria universitaria, uni libro, amazon, e nella nostra libreria online www.kolibrisbookshop.eu. Penso che i lettori accorti di poesia non vadano a cercarla nelle librerie, dove lo spazio a essa riservato è sempre più esiguo e orientato a strategie che nulla hanno a che fare con la qualità dell’opera.

giovedì 15 agosto 2013

da "Ferragosto" di Daria Menicanti (e l'opera poetica integrale "Il concerto del grillo" uscita per Mimesis)

Una poesia da #22


Nella storia della poesia in lingua italiana, in quella che conta e che si racconta (anche se a volte finisce sotto i sassi come certi fiumi) c'è chi a questa giornata ferragostana ha dedicato pure un titolo di un libro. Mi riferisco a Daria Menicanti, che nel 1986 pubblicò appunto una raccolta intitolata Ferragosto. Per la precisione e per la cronaca, nello stesso anno, uscì con due titoli: l'altro è Altri amici (1956-1985) pubblicato dalla Forum di Forlì. Ma chi è Daria Menicanti? Nacque a Piacenza alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel 1914 e morì a Mozzate (Como) nel 1995. Visse in altre città, che potrete scoprire nel libro di cui vi parlerò a breve. I suoi libri di poesia ricaddero in collane importanti come "Lo Specchio" di Mondadori (Un nero d'ombra del 1969 e Poesie per un passante del 1978). Per lei hanno scritto quarte di copertina non firmate poeti come Vittorio Sereni (per Città come, libro d'esordio, sempre per Mondadori, ma nella collana "Il Tornasole", del 1964). Nella sua formazione contribuì non soltanto il grande poeta di Luino, ma anche altre menti, tra le più importanti tra quelle che l'Italia possa annoverare nel suo Novecento: Enzo Paci, Luciano Anceschi e Adelchi Baratono. Sposò Giulio Preti nel 1937 e il matrimonio durò 17 anni. Si interruppe il matrimonio, ma non quel sodalizio fruttuoso. Per la sua poesia, "leggibilissima" e lontana dai trend sempre attivi del poetichese, ebbe parole di grande stima Sergio Solmi. Se avete letto Ariel di Sylvia Plath da La campana di vetro sappiate che era sua la traduzione. Tradusse anche Paul Géraldy, Dylan Thomas e John Keats, autore sul quale si era laureata con Antonio Banfi. Per la maggior parte della sua vita lavorò come insegnante. Servono tutti questi dati? Forse no. Ma anche forse sì, quando si prova a riproporre una voce uscita "dal giro" già da qualche anno.


Parlare ora di Daria Menicanti, parlarne oggi, significa necessariamente dare notizia di un'operazione editoriale che sa di piccolo grande evento (grande soprattutto per la mole del volume). Mimesis ha infatti da poco mandato in libreria il volumone dal titolo Il concerto del grillo (pp. 818, euro 40, a cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo) contenente l'opera poetica completa e tutte le poesie inedite. Non è di questo libro non breve che vi parlerò pertanto, ma trovo significativo darne notizia ricordando ferragosto e Ferragosto, libro naturalmente qui contenuto. L'opera di Mimesis, portata a termine assieme al Centro Nazionale Insubrico, è davvero meritoria da più punti di vista e lettura, anche perché raccoglie l'intera bibliografia di Daria Menicanti, la quale, ad una semplice sfogliata, lascia intravedere quante e quali persone si siano occupate della sua poesia.


Ferragosto, pubblicata originariamente da Lunarionuovo, è una raccolta però dal titolo ingannevole. Non di vacanze o di città svuotate qui si legge, e la poesia che ho scelto e che riporto qui sotto credo lo dimostri abbastanza bene. Temporalmente è insomma un titolo che potrebbe depistare. Marco Marchi scrisse nella prefazione al volume, ripresa anche nel succitato libro appena uscito per Mimesis, "Ferragosto dà intanto il titolo indovinato all'intera raccolta, e introduce un mondo in cui molti - i più -non ci sono, e i superstiti, quelli che sono rimasti, basano le loro fiducie nella realtà, la speranza di un bello nella realtà, sullo scarto della norma. Eliot stigmatizzava in noi l'attaccamento agli "oggetti creati". In queste poesie il lettore incontrerà invece - ammirate, temute, e comunque fascinose - non solo le classiche sirene metà donna e metà pesce, ma anche quell'impasto fisionomico di più nature che è la mitica chimera, quel terrore al quadrato di non sopite leggende vampiresche che è la lamia, addirittura un marziano". Se vi viene voglia della poesia di Daria Menicanti ora avete quel libro edito da Mimesis dove poter riscoprire tutti i suoi brevi e importanti libri di poesia.


Pensionati


Ho ritrovato le panchine gialle di foglie
la piazza con le sue zuffe di vento e la pigrizia
dei pensionati su e giù per lo slargo
a spiare ogni poco di tasca
le loro cipolle di smalto.
   In alto ho veduto nel cielo quadrato le nuvole sfarsi
assiduamente in sempre nuove compagne.
L’autunno è molte cose, ma soprattutto queste foglie
che cadono senza capire e nuvole in viaggio
e gente di fame che sosta quaggiù
per appena quel tanto.

[da Ferragosto di Daria Menicanti, Lunarionuovo, 1986 (ora anche in Il concerto del grillo, Mimesis, 2013)]

venerdì 9 agosto 2013

"Incontri con Clemente Rebora". Intervista con Gianfranco Lauretano

Librobreve intervista  #19












Da poco è uscito nella collana Bur Saggi di Rizzoli il volume Incontri con Clemente Rebora (pp. 192, euro 10,50), curato da Gianfranco Lauretano. L'autore, che è poeta, traduttore e operatore editoriale, è riuscito nel non facile compito di illuminare la statura di una figura chiave del Novecento inseguendo inclinazioni e percorsi nuovi di scrittura. Gli ho rivolto alcune domande, alle quali ha risposto nell'intervista che segue.


LB: Vorrei partire dal titolo. Perché si è scelto la parola, semplice ed enigmatica, di "Incontri"?
RISPOSTA: La parola “incontri” descrive sinteticamente il percorso biografico, culturale ed esistenziale di Clemente Rebora. Nella sua vita gli incontri hanno infatti svolto un ruolo decisivo, perciò ho voluto tenerne conto nel mio racconto. Il primo incontro fondamentale è, attraverso l’educazione paterna e scolastica, con Giuseppe Mazzini e la sua visione storica, politica e anche religiosa: Rebora sarà un mazziniano convinto fino agli anni Venti ed anche dopo la conversione al cattolicesimo l’ideale mazziniano sembra non essere abbandonato, ma, in molti aspetti, verificato e precisato alla lettura del Vangelo. Importante fu per lui la sensibilità della Russia di allora, sia personalmente, per l’amore e la convivenza con la musicista russa Lydia Natus intorno agli anni della Prima Guerra Mondiale, sia letterariamente, per le traduzioni degli scrittori russi, tra i quali Tolstoj e Gogol’. Oltre al cenacolo di amici –Banfi, la Malaguzzi- degli anni universitari, determinanti furono gli incontri di Rebora con scrittori dell’epoca, soprattutto con Prezzolini, che permise la pubblicazione del Frammenti Lirici e, da ricordare, almeno quello con Sibilla Aleramo, che rappresentò Rebora tra i protagonisti di un suo romanzo, Il frustino. Poi, naturalmente, l’incontro con Antonio Rosmini, il geniale filosofo e teologo dell’Ottocento, che indirizzo il cammino vocazionale della seconda parte della sua vita, fino a farlo entrare, appunto, nell’ordine rosminiano.

LB: Nelle nostre prime battute scambiate, ci siamo subito confrontati su un aspetto controverso di Rebora e della sua eredità poetica ovvero un'immagine di poeta diviso tra l'essere "misconosciuto" o poeta ancora letto e frequentato, saldamente presente nelle letture. Qual era la sua percezione prima della pubblicazione del libro e come sta cambiando ora dopo l'uscita del libro?
RISPOSTA: Ho scritto il mio libro viaggiando un po’, col desiderio di incontrare anche personalmente chi ha conosciuto l’uomo e studiato l’opera. Che Rebora sia poco insegnato nelle scuole, si sa. Spesso anche numerosi giovani poeti lo ignorano; ma questi viaggi mi hanno messo in contatto con un mondo intero di reboriani, spesso giovani: insegnanti, universitari, scrittori. Rebora è il tipico caso di scrittore che persiste nella cultura del suo paese non perché proposto dal livello istituzionale ma in virtù, direi, della forza intrinseca alla sua opera.

LB: Nel libro che è appena uscito hanno un ruolo fondamentale i luoghi di Rebora. Potrebbe tratteggiare e puntellare quest'aspetto contenuto in Incontri con Clemente Rebora?
RISPOSTA: Il mio volume su Rebora è anche un po’ un libro di viaggi. Per formazione e per desiderio io non intendo scrivere studi di tipo filologico o monografie accademiche su un autore. Preferisco, semplicemente, introdurre alla sua lettura, con la massima aspirazione che, chiuso il mio libro, al lettore prenda un gran desiderio di leggere Rebora. Per questo il mio lavoro assomiglia più a un romanzo, in cui, assieme ai racconti degli incontri fondamentali e a paragrafi di lettura delle poesie, anche singolarmente, la visita ai luoghi reboriani (Milano, Stresa, Rovereto, Domodossola) renda leggero il seguirlo. La vera domanda a cui mi interessa rispondere è: cosa dice Rebora a me, oggi?

LB: Parliamo di lei e della sua personale esperienza di lettura di Rebora. Qual è il "suo" Rebora, il periodo poetico sul quale magari ritorna con più assiduità?
RISPOSTA: Rebora pubblicò in vita quattro raccolte: Frammenti lirici e Canti anonimi nella prima parte della sua vita e Curriculum vitae e Canti dell’infermità nella seconda parte, dopo un “buco” di 33 anni! Ad esse occorre aggiungere una miriade di poesie non raccolte, spesso d’occasione, che forma quasi la metà del suo corpus poetico. Le poesie che preferisco sono quelle dei Canti anonimi, raccolta di cerniera che contiene le domande drammatiche della giovinezza e il preludio alla maturità. È un’opera in cui anche la lingua poetica si fa più chiara, dopo le asperità e oscurità dei Frammenti lirici, assomigliando in ciò molto più alle poesie ultime, tanto che Pasolini, recensendo il suo ritorno alla poesia negli anni Cinquanta, disse che tra queste e i Canti anonimi sembrava essere passata solo una notte…

LB: Esattamente cent'anni fa uscivano i Frammenti lirici, una delle raccolte più importanti dell'anteguerra. Le risulta che siano in corso delle iniziative particolari, in ambito accademico ma non solo, che mirino a ricordare quella fondamentale pubblicazione?
RISPOSTA: Letture, cicli di studi e pubblicazioni ne avvengono in continuazione, anche adesso e, tra l’altro, in ogni ambito ideale e persino politico (Rebora sembra mettere d’accordo tutte le intelligenze aperte del nostro paese). Ricordo ad esempio che durante l’ultimo autunno s’è svolto un grosso convegno reboriano presso l’Università di Urbino, a cura del prof. Gualtiero De Santi, uno dei suoi studiosi maggiori. Intorno al mio stesso libro, pur così semplice (o forse proprio per questo) si sta preparando una piccola tournée di presentazioni e incontri in tutt’Italia.

LB: Può scegliere per i lettori del blog una poesia di Rebora che riporteremo a conclusione dell'intervista?
RISPOSTA: Rebora pone a tutti i poeti d’oggi la questione fondamentale dell’ultimo secolo: cosa viene prima? Qual è il senso primo del fare dei poeti? Il filone vincente del Novecento poetico italiano, da Montale a Luzi a molti giovani (filone a cui Rebora non appartiene) direbbe che la poesia stessa è il cuore del lavoro dei poeti, il senso principale. Rebora appartiene invece a quel gruppo più stretto per cui c’è qualcosa prima: la vita, il rapporto col mondo, come dice in conclusione di questa poesia del Curriculum vitae:


Poesia e santità


Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.

martedì 6 agosto 2013

Fabiano Alborghetti e "L’opposta riva" dieci anni dopo

Librobreve intervista #18


Di Fabiano Alborghetti ho già scritto brevemente, dando notizia di un bel ciclo di letture che si teneva al Parco Basaglia a Gorizia. Ora c'è l'opportunità di andare più dentro il suo lavoro. L'occasione è la recente pubblicazione de L'opposta Riva (dieci anni dopo) (La Vita Felice, pp. 97, euro 14), raro esempio di riscrittura di un libro già apparso con il medesimo titolo per Lietocolle nel 2006. Alborghetti è nato a Milano nel 1970 e da anni risiede nel Ticino. La sua è una poesia non facile, e non tanto nel senso della scrittura/lettura, dell'intrico lessicale-sintattico-metrico, bensì non facile per i temi che avvicina, così lontani dalla rassicurante patina "glamour" che sembra aver ricoperto tanta poesia in lingua italiana. Ecco, io credo che la scrittura e l'apertura di Alborghetti al mondo costituisca anche una sorta di antidoto a tante chiacchiere alle quali abbiamo assistito con le braccia penzolanti, increduli. Qui, in queste pagine, ritornano la vita e il suo dramma al centro. Un motivo in più inoltre per guardare con la massima attenzione a quanto accade nella Svizzera di lingua italiana, regione in grado di offrire uno spettro di letture poetiche davvero ampio e mosso.


Il libro uscito
per La Vita Felice
LB: Borges sosteneva che un testo definitivo è il risultato e frutto della stanchezza o della religione. Nel tuo caso ci troviamo davanti ad una non frequente o comunque non comune operazione di riscrittura di un importante libro di poesie caduto quasi come un seme lungo la traccia del tuo percorso. A distanza di dieci anni, cosa scatta nel cervello di che si cimenta a riscrivere un libro? Eri "stanco" dopo la prima stesura de L'opposta riva e, se sì, in quale accezione dell’aggettivo?
RISPOSTA: non stanco del libro o di una stesura, non in questa direzione. Stanco della noncuranza, piuttosto. Stanco dei proclami dati da punti di vista disinformati, raffazzonati, cialtroni. La riscrittura è stato un atto arrabbiato, e consapevole di quanto nulla sia cambiato dall’arrivo in Italia dei primi immigrati. Era il 1991 e il mercantile “Vlora” attraccò al porto di Brindisi sbarcando oltre 20.000 albanesi in fuga da un paese al collasso economico e dal regime totalitario di Hoxha. Fu una cosa mai vista: le persone a grappolo sulla nave, come api aggrappate ad un ramo che fischiavano e e salutavano i pochi italiani che a quell'ora erano in porto, i pochi poliziotti, qualche vigile del fuoco, qualche finanziere, pochi operatori televisivi o giornalisti. Quel momento segnò una svolta epocale per l’immigrazione: ne seguirono moltissimi altri dall’Albania, lentamente raggiunti dal resto del mondo in fuga. Quando ho iniziato a vivere con i sans-papiers era il 2001 e le istituzioni ancora brancolavano in cerca di soluzioni ed erano passati dieci anni. Nel 2011 quando ho iniziato a riscrivere il libro, nulla era cambiato, ancora: L’Italia continuava (e continua) ad altalenare tra proclami e situazioni inadatte o imbarazzanti, al limite dell’incivile ed inumano. In questi vent’anni, sono stati decine di migliaia gli arrivi quanto le morti in mare. Perché ho voluto riscrivere il libro? Per cercare di ridare loro una voce, cercare una forma di giustizia, seppur minima. Le cronache ad oggi ancora riportano di arrivi e morti ma non sono più una notizia. Sono l’indignazione dei dieci minuti guardando un telegiornale, una pietà senza spessore né empatia. Sono una pagina di giornale che non si legge. Non hanno volto, né nome, né storia ai nostri occhi. Questo è scattato. Per questo li ho rivissuti, riscritti. 

La precedente edizione
Lietocolle
LB: Ci puoi raccontare come è avvenuta la riscrittura? Intendo da un punto di vista quasi artigianale. Partivi dall'originale sempre e riscrivevi passo-passo oppure la riscrittura avveniva secondo altre dinamiche?
RISPOSTA: ho ripreso i vecchi appunti, i centinaia di quaderni. Ho ricercato le storie, richiamato le loro voci. Soprattutto ho ricercato tutti i loro nomi perché li stavo dimenticando. Li stavo negando una seconda volta. Ho iniziato dalla prima poesia proseguendo sino all’ultima, riscrivendone ogni singola parola. Riscrivendo ho cercando di renderle ancora più chiare, lasciandone alcune intatte perché erano voci ancora chiarissime a distanza di così tanti anni: un grido che non andava soffocato né snaturato. Ho portato quella che era la mia lingua nel 2006 ad oggi, una lingua che è mutata in qualche modo, cercando però di rispettare il tono originario. Un equilibrio. Una questione di calibrature. È stato un lavoro complesso, che ha richiesto quasi due anni col sostegno del direttore editoriale de La Vita Felice, Diana Battaggia, che è stato punto di scambio, scontro, confronto, illuminazione e infine, successo. Riscritture su riscritture si sono susseguite, rincorse. Anche se apparentemente i testi attuali sembrano ricalcare quelli passati la realtà è fatta di ripensamenti dell’intera opera e di ricreazione da zero. 

LB: C’è anche una ricerca metrica quasi lampante. Le terzine, in numero variabile; sempre un verso da solo a concludere i singoli testi. Quali pensieri hai fatto, orientandoti su questi schemi?
RISPOSTA: l’uso della terzina e di un verso, spesso epigrammatico, in chiusura, è la forma nella quale più mi riconosco. Una forma chiusa, se vogliamo, ma per me vastissima. Così fu scritto - ed ho riscritto - L’opposta riva, così sono Registro dei fragili e Supernova. In questa stessa forma sono tutti i testi apparsi su riviste o quelli commissionati per specifici eventi quali mostre d’arte o interventi dedicati. È la mia forma naturale, la giusta casa per le parole. 

LB: Qual è stata la difficoltà maggiore nel tornare ad affrontare il tema tragico di questo libro, ora divenuto duplice, quale il passaggio più difficile da affrontare per tornare a scrivere di quei tre anni vissuti coi clandestini, con gli illegali o i sans-papiers?
RISPOSTA: la mia fragilità. La mia incompiutezza, l’inesperienza folle che mi vide vivere per tre anni una doppia vita per capire come vivono i clandestini, i sans-papier; il timore di non avere una giusta voce -anche a distanza di dieci anni- capace di rimandare non la mia, ma loro devastante esperienza, fuga, resistenza, sopravvivenza. Il mio essere disarmato, l’essere parte di un popolo colpevole di rifiuto e razzismo ignorante. Dopo tre anni ad un certo punto non ressi più. Mi allontanai, sovrastato da troppa vita, mancanza di vita, mancanza di giustizia. Ancor’oggi mi sento colpevole per questo. Io avevo potuto tornare alla normalità, alla mia vita, a una sicurezza non solo domestica ma di appartenenza alla nazione. Potevo interrompere “la finzione” del vivere con loro. Tornavo ad essere “legale” e al contempo non avevo mai smesso d’esserlo. Ho dovuto farci i conti, negli anni a seguire e poi daccapo riscrivendo tutti i testi. Riscrivendoli e vivendo “al sicuro”. Poi ho dovuto combattere la dimenticanza, il fatto che molto avevo perduto o forse rimosso. I loro nomi, soprattutto, che nell’edizione del 2006 avevo volutamente escluso (come anche i luoghi) per avere l’assieme di una storia globale e non una lente d’ingrandimento su una singola vicenda. Ora li ho recuperati, richiamati quasi tutti. L’indice del libro è un libro di nomi e luoghi. Una forma di parziale giustizia, spero. Queste le maggiori difficoltà ma ce ne sono ancora, substrati innominabili e molto personali. Cicatrici. 

LB: Nei dieci anni che stanno tra la prima versione e questa, come è mutata in te la materia trattata, il ricordo di quell'esperienza raccontata, di quelle persone e di quelle voci-volti che raduni in un indice che ho letto non certo tutto d’un fiato bensì con il fiato rotto?
RISPOSTA: è mutata non tanto la materia trattata, ma la mia coscienza. Forse, nell’ora che mi vede adesso, distante di dieci anni dal primo giorno di convivenza, riesco ad essere più distaccato e lucido e pertanto più partecipe, immerso e a fuoco. Una distanza che avvicina, anche se suona come un paradosso. Ho forse più esperienza come persona ed è qualcosa che adesso posso mettere al lavoro non per me, ma per far comprendere l’enormità di questo infame male. Di conseguenza, la materia trattata acquista un peso diverso, ed è diverso il modo di presentarla. Forse ho guadagnato delle armi strada facendo, armi non belliche ma morali.

Thierry Gillyboeuf 
LB: I tuoi libri sono spesso tradotti (penso al Registro dei fragili, ad esempio, che a breve uscirà pure in inglese per la cura di Marco Sonzogni). Anche questo libro sarà proposto in altre lingue?
RISPOSTA: Registro dei fragili ha visto estratti tradotti in nove lingue e traduzioni complete in francese (per le Edizioni d’en bas di Losanna con traduzione mirabile di Thierry Gillyboeuf) ed in inglese, come tu annoti. Per L’opposta riva è prevista una edizione francese ancora grazie alla traduzione di Thierry e ci stiamo già lavorando. Altre sono in fase di discussione per almeno cinque lingue. Le traduzioni sono però processi lunghi, sono processi di pazienza e lavoro. Il tema è d’attualità ovunque, sono pochi i paesi illesi: quelli che la migrazione vivono per accoglienza ed altri per esodo. È un libro che troverà spazio nell’attenzione di chi vorrà ascoltare. 

LB: “La distanza è direzione, il respiro è un fiato fatto passo…”. Scegli tu ora, per favore, i due testi da riportare a chiusura dell’intervista per i lettori del blog? Grazie.
RISPOSTA: la prima poesia è per ricordare quanto possa pesare il nostro rifiuto. La seconda è per farci riflettere su qualcosa che raramente è considerato, e per avere un lieto fine. I miracoli non accadono da soli, vengono fatti accadere. Per azione e volontà. 


*

Altri i fatti e forse abituerò.
Assomiglio al vicino, ne ho la forma: 
ho le medesime stanze da abitare a un altro piano

e in similitudine che importa l’origine nella somiglianza?
Resta uguale la sveglia la rata la maternità.
Soltanto la ricorrenza ci distingue 

ma oltre il Dio restano uguali gli affetti. 
Ci albergano dentro dove è pari il senso, il sangue. 
Solo gli occhi hanno differenze:

all’uguale altezza i miei abbassano, al tuo non vedere.


*

Il primo impegno al tempo nuovo mi indicava, il foglio 
tra le mani su cui rideva in girotondi. La busta paga
dà la prova che il pane che si mangia è guadagnato mi diceva

nessun sospetto ora, che si vive alle spalle di qualcuno…

sabato 3 agosto 2013

"Lasciarsi cadere" di Brigitte Schwaiger

Qualche lettore conoscerà Brigitte Schwaiger per il fortunato libro intitolato Perché il mare è salato?, traduzione forse un po' furba di Wie kommt das Salz ins Meer? Questo titolo costituì una sorta di "caso" editoriale (ed era un libro breve tra l'altro, che magari - chissà - potrei riprendere). In Italia lo pubblicò Rizzoli nell'ormai lontano 1979, nella traduzione di Carla Vinci-Orlando. Ora, a distanza di 34 anni, l'editore  gran vía di Narni (Terni) manda in libreria Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore (pp. 136, euro 11,80), ovvero la traduzione italiana che Giovanni Giri ha fatto di Fallen lassen, uscito nel 2006. L'autrice è morta tre anni fa a Vienna, proprio in questo periodo dell'anno. Il libro che ho letto non è di facile definizione. Non è un reportage (parola che sarebbe bene rifuggire, quando ci sono di mezzo le parole, lasciamo agli obiettivi di macchine fotografiche e da presa i "reportage"), non è un vero e proprio romanzo, non è nemmeno un flusso di coscienza. Non è nemmeno un'autobiografia o un'autobiografia parziale o sommaria di un segmento della propria vita. In queste pagine in prima persona Brigitte Schwaiger ci porta con crudezza, ma con quella strana e difficilmente descrivibile dolcezza della sua scrittura, dentro l'universo della psichiatria e delle cliniche psichiatriche austriache. Chi fa l'esperienza di questo libro, non può che uscire scosso, così come si è scossi dall'esperienza di tanti altri reparti di ospedale.

Per i motivi che cito sopra non è nemmeno facile descrivere o recensire un simile testo. Non solo per la mancanza di facili coordinate nel quale mapparlo (anzi, l'assenza di tali coordinate talvolta può agevolare i compiti di chi prova a recensire), ma proprio perché in questo viene frullato di tutto e tutti gli ingredienti mantengono alla fine, inspiegabilmente, consistenza, le proprietà, una riconoscibilità, il proprio colore distinto: gli ambienti "totalitari" della clinica psichiatrica (più d'una clinica, a essere precisi), i rapporti con gli altri pazienti o i famigliari, il personale medico che dovrebbe curare questi pazienti "speciali", le telefonate, la membrana tra il dentro e il fuori (acquistano una diversa luce le scene d'esterno in un libro così costruito), l'omosessualità dell'autrice cacciata in un fondo di un sacco di ricordi che al tatto provoca dolori da cilicio. Sono solo alcuni dei fasci di relazioni e rimandi che questo libro ha con la quotidianità della malattia e che poi costituiscono il motivo principale per il quale potremmo (dovremmo?) avvicinarsi a scritture simili.

Un libro come questo semplicemente serve, perché ancora, troppo spesso, ci troviamo a relegare la malattia mentale ad una sorta di cumulo di briciole da scopare e nascondere sotto il tappeto rosso della società. Non è difficile immaginare il disturbo che questo testo può aver creato nella vicina felix Austria. E lo stesso disturbo potrebbe causare nel nostro paese, se iniziassimo a leggerlo in tanti. "Schiavo del mondo, sei gravato di catene, / Ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe. / Vegli e nel buio vai scrutando intorno, / A ignota via d’uscita tu sei volto." sono le parole di Ingeborg Bachmann succhiate dall'autrice da Invocazione all'Orsa Maggiore ad accompagnare questa scrittura, dolente e odorosa testimonianza. Quattro versi che stanno in apertura. In chiusura, invece, sempre dallo stesso testo della Bachmann: "Quel che è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi, / Quel che è vero morte e sonno ti chiederanno / Come incarnato, saggio per ogni dolore, / Quel che è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro."