giovedì 31 marzo 2016

"...del cul fatto trombetta": peti per poeti (qualche appunto sull'aria che tira)

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #10

Il dibattito attorno alla poesia e il meta-discorso che la avvolge da qualche tempo a questa parte stanno prendendo delle pieghe pericolose nonché, alla fine, assai noiose. Il fatto che siano pieghe noiose dovrebbe scoraggiare un intervento che le riguardi, ma la noia non si è ancora trasformata del tutto in indifferenza. Non sto parlando del discorso critico, bensì del discorso fatto da poeti e "operatori del settore" attorno alla poesia. Sembra che il piccolo mondo antico di chi nutre qualche interesse per la poesia (interesse intellettuale, ma anche economico o di prestigio e riconoscibilità) provi improvvisamente a mondarsi di tutti i risaputi vizi che lo attanagliano e che sono - ne elenchiamo alcuni così vediamo se è vero che repetita iuvant - un banale do ut des, clientelismo, logiche di cartello-servizio-favore, altre scorciatoie e situazioni in cui giudizio fa fin troppo rima con orifizio, il trascurare il progetto e l'opera, concetti troppo difficili ai quali si preferisce un più semplice ammaliamento per l'immagine di un autore o editore. Sono tutte problematiche di sfondo facilmente superabili, non sostanziali, a patto che si voglia veramente superarle o lasciarle sullo sfondo, dove possono tranquillamente rimanere senza troppo disturbare. Attenzione va prestata affinché queste problematiche di sfondo non intacchino la sostanza, se c'è, e non infestino tutti i pozzi. In questo scenario, mancava solo che si iniziasse a parlare di editori, collane e selezionatori "leali", di poesia "onesta" (vecchio cavallo di battaglia sabiano buono per tutte le stagioni, non importa se completamente avulso dal suo contesto originario), addirittura di poesia e poeti difesi e salvati da una legge apposita. Chi più ne ha più ne metta ed è prevedibile che a ridosso della Giornata mondiale della poesia si alzi il tiro e se ne sentano di cotte e di crude. Ognuno può raccogliere dati del genere da più fonti (siti, comunicati stampa delle case editrici, profili di social network, quarte di copertina, discorsi a festival e presentazioni ecc.). Si salvi chi può. E poi il c'è il fantomatico "lettore", questo Carneade: nominato, invocato, ripetuto come un mantra come se la ripetizione ne generasse miracolosamente di nuovi, protetto con un piglio da WWF o come ennesimo presidio Slow Food. Quanta inutilità e, nei casi peggiori, quanta velenosa approssimazione si cela tra questi discorsi? 

Nella maggior parte dei casi tutti questi dibattiti, discorsi e annunciazioni si riducono a grasso che cola, ad aria fritta, a peti centripeti buoni soltanto per gli stessi poeti, in un circuito che come noto si dipinge solitamente chiuso e centripeto, appunto. Bisognerebbe capire come si fa veramente a spalancare le finestre per cambiare l'aria viziata di quelle scoregge concettuali che insiste tra le stanze e i poetici salotti. Prendete il discorso attorno al lettore, questa (compatibile?) creatura sacrificata al moloc della lettura: il "lettore" non può essere dato una volta per tutte e studiato solamente con parametri sociologizzanti. Per me il lettore è una persona che in un dato momento della propria vita mette in gioco la propria intelligenza nella lettura (o rilettura) di un'opera testuale. Ora come ora non saprei trovare una definizione più aderente, tetragonale, puntellata sulle quattro parole che ho messo in corsivo, con particolare accento su opera, dal momento che persona, intelligenza e lettura sono chiamati in causa anche per leggere un commento su un social network o una comunicazione dell'Agenzia delle Entrate (e non fa male continuare a pensare che ogni OPUS è zero più pus, come scriveva Zanzotto). E poi il testo, il benedetto testo: dov'è finito in tutti questi discorsoni sulla poesia? Parimenti, la lingua: dove si è spostata la questione della lingua, la quale non può mancare in qualsiasi riflessione o dibattito sulla poesia che siano degni di questi appellativi?

Non è il caso di dilungarsi, basti esprimere ora un disagio ma soprattutto la necessità che si inizi a dibattere in termini mutati. Questo intervento non è uno sfogo. Di sfoghi abbiamo piene le tasche e non sappiamo bene cosa farcene ormai. Ognuno saprà trarre le proprie riflessioni e nei casi più fortunati le proprie conclusioni. Credo che sia utile sollevare dei dubbi sull'utilità di una certa "antifona delle virtù" che ci stiamo abituando ad ascoltare e a leggere ogni volta che l'argomento è la poesia e i guardiani del suo tempio salgono in cattedra. Io penso che la poesia stia di gran lunga meglio nell'incerto, soprattutto quando non è più di tanto invocata e tirata per la giacchetta per esplicitare strategie e visioni del mondo "leali", "buone", "generose", "eque", "politically correct" o "oneste". Ci manca solamente che a questa serie di aggettivi s'aggiunga la "purezza" e poi la palude sarà esiziale. In questo panorama il tanto vituperato "censimento dei poeti" di Pordenonelegge - criticato anche da chi ha poi partecipato - è meno problematico e pericoloso di quel che si possa pensare, è una pratica finalmente "empirica" e asettica (nonché un'operazione di web marketing semplice, economica ed efficace come poche altre ai tempi di Google). Molti discorsi ruotanti attorno alla poesia stanno diventando pericolosamente noiosi, ottundenti e ridondanti. Poco interessanti, in ultima analisi. La situazione è così già da un bel pezzo, ma mi pare che stia peggiorando a vista d'occhio. Lealtà e onestà restino fuori dai discorsi, restino sullo sfondo e in orizzonte, ma si eviti di nominarle troppo, perché più si tirano in ballo più si sente puzza di bruciato e di flatulenza nauseabonda. E infine non c'è niente da salvare e tutelare se non il testo poetico, che fra l'altro si salva e si tutela benissimo da sé, se è aggrappato a tappe e boe inaggirabili del pensiero e della storia, di un dato immaginario, di una lingua.

lunedì 28 marzo 2016

"No memory, desire, understanding"? Per una riabilitazione dell'oblio

Nella copertina blu, in corpo aumentato, campeggia la parola-titolo da sola: oblio. Qualcuno direbbe una parola "poetica". Altri una parola "poco usata". Abbiamo tutti una vaga idea di che cosa sia, di cosa fosse il Lete: si beveva e si dimenticava (per Dante questo fiume si trovava in Paradiso). Se n'è occupato bene e trasversalmente il filologo romanzo tedesco Harald Weinrich in quel libro edito da Il Mulino intitolato Lete. Arte e critica dell'oblio, dove tra le altre cose si puntava il dito su un fatto semplice, paradossale, cortocircuitante: ci siamo dimenticati dell'oblio o magari questa dimenticanza è diventata altro. Del resto, di fronte a certi orrori del Ventesimo secolo si è voluto innestare una sospensione dell'oblio e se ne capiscono chiaramente le ragioni. Ma ancora, andando a ruota libera: "Passa la mia nave colma d'oblio" recita il verso celebre di Petrarca. Oppure Funes el memorioso era invece quell'uomo che ricordava tutto nel racconto di Borges (e che strazio essere "memorioso", forse). Ma esiste davvero l'oblio al di fuori di situazioni cliniche e medicalizzate, come ad esempio l'Alzheimer? In che rapporti stanno oblio e rimozione? Si tratta del contrario e della negazione della memoria e del ricordo? Sappiamo del potere creativo dell'oblio, dell'utilità dell'attività onirica in tal senso. Iniziamo anche a sentir parlare di "diritto all'oblio", al di fuori della normale valenza giuridica di questa dicitura e alla faccia del voler esser ricordati (e la rete gioca la sua parte in questo nuovo dibattito, viste le molte tracce che lascia, sicuramente evanescenti ma pur sempre tracce). Sappiamo insomma che se parliamo di oblio stiamo parlando di qualcosa che, se non ne è l'esatto contrario, va quantomeno nella direzione opposta al tema insistente e da decenni portante della "memoria". La parola "oblio" non è quindi di facile e univoca definizione. Il suo etimo sembrerebbe semplificare drasticamente la questione, riportandoci all'oblivium dei latini, eppure stavolta l'etimologia non ci soccorre del tutto, tanto meno per introdurre al libro-quaderno di oggi. Oblio non è dimenticanza, non è soltanto quella almeno e non perché "dimenticanza" ha assunto le disidratate valenze di una "svista". Sta in questo nucleo di pensieri, volutamente semplificati, un trampolino per tuffarsi nel tentativo di riabilitazione completa dell'oblio contenuto in questo volume della serie "quaderni dell'espressione" pubblicato da Cronopio (pp. 176, euro 15), il quale ci devia verso una forte componente di trascolorazione, di calma e di serenità insite nella possibilità di obliare. Evidenti per il lettore saranno i rimandi alla psicanalisi (dai più normali Freud e Lacan, ai meno scontati Wilfred Ruprecht Bion, Ignacio Matte Blanco e Armando Ferrari).

Scrive nell'introduzione Walter Procaccio, curatore dell'opera, che il quaderno è un'antologia di capitoli in sé chiusi che tentano l'operazione ardua e coraggiosa della riabilitazione dell'oblio. Prosegue scrivendo che "una sterminata letteratura conferisce alla memoria, all'archiviazione diligente, alla testimonianza il rango di dovere etico e all'oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere". Alla fine di tutto, l'intento di chi contribuisce a questo volume è mostrare come l'oblio possa considerarsi "risorsa prosperosa". Insomma, come riporta Paolo Carignani nel suo scritto, l'antitesi che mette di fronte memoria e oblio è ingiustificata in quanto questi sono due atti un unico processo. Per Maurice Blanchot chi vuole ricordare deve affidarsi all'oblio, "a quel rischio che è l'oblio assoluto e a quel caso fortunato che allora diventa il ricordo". Le continue cicatrici con cui si graffia il corpo e l'intelletto, le relative tracce mnestiche e tutto un filone di studi sul trauma possono avere molto più a che fare con l'oblio che con il ricordo. E per molti versi, l'atto di ricordare non ha nulla a che vedere col passato. Di qui, e anche dalla profonda inalienabile necessità dell'uomo di calmarsi, passa questo interessante tentativo di riabilitazione dell'oblio, espresso in questo fascicolo a più voci color carta da zucchero.

L'operazione editoriale di questo quaderno è evidentemente in contrappunto con le tante pubblicazioni che ingolfano il versante apparentemente opposto e contrario della "memoria", soprattutto nei primi mesi di ogni nuovo anno (e questo quaderno è uscito nei primi mesi dell'anno 2016, quando è la calendarizzazione della memoria a tenere banco). La composizione del "quaderno" è volutamente eterogenea e rimanda a spunti di origine filosofica, letteraria e psicanalitica. Gli autori sono, in ordine di apparizione, Felice Cimatti, Silvia Vizzardelli, Walter Procaccio, Paolo Carignani, Alessandra Ginzburg, Daniela Angelucci e Antonio Ciocca. Il tema intreccia i tanti assi dell'espressione filosofica e letteraria. Ad esempio il rapporto tra scrittura e oblio andrebbe indagato tanto quanto quello tra scrittura e memoria/testimonianza. Ma ci si sposta continuamente nei terreni dell'analisi, del desiderio, del giudizio, dell'osservazione e non si tralasciano infine le "scorribande" mistiche della riflessione sull'oblio, particolarmente evidenti nel caso di Wilfred Ruprecht Bion, lo psicanalista anglo-indiano da cui è tratto quella sorta di slogan del titolo ("No memory, deside, understanding"). Proprio nel contributo più incentrato sull'opera di Bion e sulla sua ricezione, Antonio Ciocca conclude scrivendo che "l'oblio, la pratica assidua e rigorosa dell'oblio, è il fiume Lete dove lavar via il noto, il saputo per rischiare di incontrare un'idea, un pensiero nuovo che fluttua ma che nessuno reclama." O come oblio.

lunedì 21 marzo 2016

La scrittura della violenza e i sentimenti elementari. Un'intervista a Lucia Rodler sull'opera di Goffredo Parise a trent'anni dalla morte

Librobreve intervista #66


Goffredo Parise (Vicenza, 1929 - Treviso, 1986)
Il 31 agosto di quest'anno sarà trascorso un trentennio dalla morte di Goffredo Parise, avvenuta a 57 anni non ancora compiuti all'ospedale di Treviso, dopo una lunga serie di sofferenze cardiache e dialisi. Sono già diverse le iniziative e le pubblicazioni che si immaginano per questo anniversario. In anticipo, già lo scorso anno Adelphi aveva mandato in libreria «Se mi vede Cecchi, sono fritto». Corrispondenza e scritti 1962-1973, ovvero il carteggio con Gadda curato da Domenico Scarpa. S'annuncia anche un numero monografico della rivista "Riga", curato da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa. Oggi vogliamo dedicare attenzione al recente studio di Lucia Rodler, docente allo IULM di Milano. Si intitola Goffredo Parise, i sentimenti elementari e l'ha pubblicato Carocci nelle ultime settimane (pp. 224, euro 17).


LB: Come si dice ai colloqui di lavoro, "le faccio una domanda cattiva". Io vorrei partire in medias res, anzi, vorrei partire postumo, cioè dal romanzo L'odore del sangue. Quando lessi il libro lo trovai una delle opere più radicali e coraggiose di Goffredo Parise, quasi come il suo esordio (anche se per motivi ovviamente diversi). Ad un livello critico è invece questa l'opera che più ha diviso, anche in seguito al film che ne ha ricavato Mario Martone. Qual è il suo punto di vista sul dibattito che riguarda il "libro postumo"?
R: Sono contenta che mi faccia questa domanda perché ammetto di essermi avvicinata a L’odore del sangue con numerosi pregiudizi, suggeriti da una certa critica al libro e alla versione cinematografica (che non mi è piaciuta anzitutto perché altera l’equilibrio particolarissimo tra dialoghi e fantasie del romanzo). Ma subito mi ha conquistato il racconto senza censure della violenza delle parole dell’intimità (quelle di Filippo e Silvia, marito e moglie cinquantenni che si raccontano i rispettivi tradimenti) sullo sfondo della violenza sociale e politica degli anni di piombo, cioè gli anni Settanta. Perciò mi trovo del tutto d’accordo con quella critica (da Cesare Garboli ad Arturo Mazzarella) che ha parlato di un romanzo in qualche modo necessario che produce un turbamento complesso, verbale, sensuale, relazionale.


LB: Ritorno ora doverosamente al suo libro da poco edito da Carocci che è un'utile monografia su tutta l'opera dello scrittore del "Veneto barbaro di muschi e nebbie" che girò tutti i continenti. Quasi ogni lato del "poligono-Parise" è affrontato nel suo contributo. Se però domani dovesse approfondire uno di questi lati della sua attività di scrittore cosa sceglierebbe? E soprattutto, al di là dell'approccio generale, quale luce specifica ha cercato di gettare sull'opera e quali incendi ha tentato di appiccare, magari sugli aspetti più controversi?
R: Non amo appiccare incendi e preferisco cercare di comprendere la complessità di uno scrittore, senza necessariamente fare riferimento agli aspetti controversi. Perciò nel testo ho sottolineato ciò che mi ha più colpito, e cioè la ricerca costante e pertinace del nucleo di violenza nascosto dietro ogni spazio, ogni circostanza, ogni individuo, ogni popolo, ogni oggetto, ogni azione, ogni evento. E da questo punto di vista approfondirei il romanzo Il fidanzamento e la raccolta di racconti brevi contenuta nel Crematorio di Vienna. Sono due testi che concentrano in modo splendido la capacità che Parise ha dimostrato nel descrivere la violenza sia privata, familiare, sia pubblica, lavorativa.


La casa in golena del Piave, a Salgareda
LB: Il titolo del suo libro è un omaggio ai Sillabari. Rappresentano davvero il culmine della sua scrittura, a suo avviso? Esistono dei sentimenti, altrettanto elementari, coi quali andrebbero "aggiornati" i Sillabari oggi, quasi mezzo secolo più tardi?
R: Il titolo del volume non è una invenzione dell'editore o mia, ma una citazione. In almeno due circostanze infatti Goffredo Parise afferma di essersi occupato dei sentimenti elementari della vita umana. E non fa riferimento solo ai Sillabari dove, peraltro, accanto ai sentimenti, ci sono le emozioni, le sensazioni, le passioni, insomma le varie forme del divenire umano. E per questo, forse, i Sillabari sono racconti senza tempo, che commuovono e fanno pensare. Sono brevi, spesso hanno un finale inaspettato che non offre una soluzione, ma solleva dubbi e interrogativi sui rapporti umani. Da questo punto di vista rappresentano una prova eccezionale della scrittura parisiana e non vanno aggiornati perché si rinnovano ogni volta che un lettore li rilegge e prosegue dentro di sé la riflessione, ricordandone qualcuno e non qualche altro, raccontandone qualcuno e non qualche altro.


Prima edizione
LB: Spesso vediamo nei Sillabari il libro della fama e della notorietà, eppure non bisogna dimenticare che Parise fu un autore di successo già da subito. Quello che fa impressione oggi è come ricordiamo i primi titoli (Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza, Il prete bello). Sono davvero titoli fondamentali di un'epoca del nostro paese, naturalmente assieme ad altri titoli di altri autori. Sembra davvero un altro mondo quello. Oggi faticheremmo a citare dieci titoli che rimarranno nell'immaginario (almeno quello letterario o delle persone "che leggono") tra quelli usciti negli ultimi 15 o 20 anni. Non crede che sia cambiato qualcosa in quello che potremmo chiamare, magari volgarmente, la "filiera produttiva" del romanzo? (Non mi riferisco necessariamente all'editoria e non è questa una domanda di editoria soltanto).
R: Non sono d'accordo sul fatto che oggi non potremmo fare un elenco di autori, di romanzieri in particolare, che possano rimanere nell'immaginario. Senza dubbio molte cose sono cambiate, soprattutto nei lettori che si costruiscono un canone individuale, scegliendo testi di scrittori stranieri, italiani, migranti, leggendo opere nella lingua originale, insomma avendo a disposizione molte più opzioni di un tempo. E questa è una fortuna, a mio avviso. Significa che le biblioteche personali sono inclusive, che non esiste più l'idea di un canone unico e indiscutibile. Il problema è piuttosto che i lettori sono ancora troppo pochi, almeno in Italia.


In Vietnam
LB: Da un punto di vista stilistico, uno degli aspetti meno studiati di Goffredo Parise è forse il reportage, genere che tuttavia ha contribuito alla notorietà dello scrittore. Quali aspetti stilistici citerebbe come aspetti fondamentali introdotti dal Parise giornalista di guerra?
R: Trovo che la scelta di intervistare la gente del posto e riferirne le voci sia l'aspetto più interessante della scrittura del Parise reporter perché risponde all'esigenza di evitare i luoghi comuni, gli stereotipi, i pregiudizi che ogni individuo si fa su un popolo altro da sé. E questo riguarda il coraggioso reporter della guerra del Vietnam che unisce al diario, toccante, della sua trasferta presso l'esercito americano, una straordinaria intervista al comandante supremo delle forze americane William Childs Westmoreland che espone il suo punto di vista sul conflitto. E lo stesso metodo si ritrova anche nel reporter che racconta la Cina, il Biafra, il Laos e il Cile.

LB: Una deviazione ora: una riabilitazione o riavvicinamento a Parise potrebbe comportare, quasi come un automatismo, una parallela "riabilitazione" o un tentativo di riproposta dell'opera Giovanni Comisso, che fu a tutti gli effetti un maestro per Parise. A ben vedere però, nonostante il Meridiano, sembra che le cose per Comisso non stiano proprio così...
R: Al proposito conviene forse interrogare gli studiosi di Comisso. Mi permetto solo di dire che gli automatismi non riguardano la critica letteraria.



Il cuore di Giosetta Fioroni
LB: Questa sua ultima puntualizzazione sugli automatismi che non devono riguardare la critica letteraria è molto interessante perché mi sembra densa di conseguenze, a maggior ragione se pensiamo che certi automatismi (o certe associazioni) governano talvolta le mosse della critica, soprattutto ad un livello di "nomi", più o meno consciamente. Ma fermiamoci. Un'ultima domanda: leggere Parise, soprattutto agli albori, assomiglia al perdersi dentro un quadro di Chagall. Per chiudere le vorrei chiedere però di un'opera (quadro, foto, scultura) che per lei ha senso ricordare parlando di Parise. Faccio insomma una "domanda cattiva" anche in chiusura e non vale la "Mademoiselle Pogany" di Constantin Brâncuşi di cui la casa di Ponte di Piave dello scrittore conserva una copia in giardino. Grazie.
R: A dire il vero non c'è cattiveria nella sua domanda. Senza dubbio ricorderei un'opera di Giosetta Fioroni, la compagna di Parise che è una pittrice e un'artista che Goffredo Parise ricorda anche in uno splendido articolo del 1965 sulla Pop-art italiana, raccolto nella silloge Artisti. E sceglierei il cuore rosso rappresentato sulla copertina del primo Sillabario nell'edizione Einaudi del 1972 (foto a lato: smalto rosso con foglie piume e sassi, sempre del 1972, ndr) perché rappresenta in un modo discreto, allusivo, denso, uno dei sentimenti elementari più importanti per un autore che ha analizzato la violenza tra gli individui.

domenica 20 marzo 2016

I cambi di stagione: equinozio di primavera


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno se non mi stufo prima, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi pigri post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.


L’accento perso


Non c’è quasi più traccia
d’accento, tutta sciacquata da anni
la lingua nei fiumi d’Europa. Fino
a qua arriva il ripulirsi le piume
e il mondare il riso, nei panni
dell’essere via, fuori da qui.
Rimanere e partire. Basta. Non c’entra
più nulla il nulla di un luogo:
vedi tu cambi tu e muti noi. Qui
non c’è traccia
d’accento, manca tutto salendo
le scale salendo le luci
attento ormai
al dire dare fare…
Tutto cosparso d’accento mondato, ma
senza taglio non c’è amore, non c’è
acqua che sciacqui le lingue dalle teste,
non c’è il verde dell’erba intiepidita.
E aggiungere parole non serve, e i luoghi
non sanno di questa bassacorte
riparata da latte e lamiere di una sera
lenta che diventa campo, diventa
prato e arriva sventata come una Pasqua.

mercoledì 16 marzo 2016

Il grande nulla e il sogno della griffe (pasquinata)

Pubblico di seguito l'intervento che ho scritto per il sito Diaforia.org. Questo testo è già comparso all'interno della serie di contributi sull'editoria di poesia raggruppati nel format "una modesta proposta". Sul sito Diaforia.org sono sinora usciti sul tema i contributi di Luca Rizzatello, Ermanno Moretti e Gualberto Alvino. Ringrazio Daniele Poletti per l'impulso e per l'ospitalità.

Mi è stato chiesto di contribuire a questa serie di interventi sul tema solitamente scivoloso, vischioso e persino viscido che sta sotto l’etichetta “editoria di poesia”. Sarò breve davvero. Difficile sostenere una tesi precisa in poche battute, ma è quello che vorrei fare, anche se mi è chiaro che un “testo argomentativo”, così come si prova a insegnarlo a scuola sin dalle medie, non è ciò che più piace o ciò che si legge più volentieri in rete. Negli spazi del web è più facile infatti sfrizzolare il velopendulo, puntare alla pancia e scivolare nella polemica-commento infinita, nella capziosità acchiappalike con la quale i social (ma anche gli strumenti di comunicazione comprati dai social, come Whatsapp ad esempio) ci hanno oramai intossicato. Proverò allora a ricorrere a un parallelismo e a descrivere la situazione così come la percepisco, di modo che possa alla fine emergere una tesi, un nuovo punto di partenza, quindi qualcosa di contestabile e attaccabile, finanche condivisibile (parolina magica: condividere!).

Parecchi anni fa, non ricordo bene quando, uscì uno studio specialistico sul modo in cui le case di moda gestivano la propria comunicazione pubblicitaria. Il titolo, se ben ricordo, era “Il grande nulla”. In sostanza si sosteneva quello che è tuttora sotto gli occhi di tutti, cioè che nella comunicazione pubblicitaria le case di moda non comunicavano proprio un bel niente (nessun posizionamento, nessuna idea del mercato o di prodotto, nessun beneficio funzionale o psicologico, nessuna presa di posizione o uno stare sul campo, talvolta nemmeno un’idea precisa di stile, il che per la moda poteva risultare persino imbarazzante). Comunicavano soltanto la griffe, ovvero un logo appoggiato sopra uno scatto fotografico pescato tra quelli delle ultime collezioni che si volevano pubblicizzare. In ambito pubblicitario questa piega si è poi allargata. Pensate all’arredamento o anche ai manufatti dell’architettura e delle archistar, designer inclusi: vale solo il brand, pardon, la griffe, che è diversa e ancora più irrazionale ed “emozionale” del brand. Si passa quasi ai campi della “fede”. In questo contesto, da un punto di vista di tecnica della comunicazione pubblicitaria, uno spot come quello del pennello Cinghiale aveva stile da insegnare a pacchi ai pubblicitari e agli stilisti delle più rinomate case di moda ed era nato dalla mente di copywriter che conoscevano ancora il valore della posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo. In questo nuovo contesto invece i copywriter e la parte verbale dell’annuncio vengono meno.

Ulteriore premessa nonché risposta a confutazioni che intravedo già sorgere: qualcuno vorrà rilevare che questo mio è un approccio troppo tecnico ad un tema così semi-esistenziale ed esistenzialista. Eppure stiamo parlando di “editoria di poesia”, quindi di attività legata al lucro, per quanto marginale e per quanto di marginalità bassa. Una domanda: qual è il lucro dell’editoria di poesia? Tale approccio tecnico insomma non è del tutto peregrino. Inoltre le dinamiche di brand sono note alle nostre case editrici, che non disdegnano un certo modo di cavalcare l’onda, o, come si dice in gergo “keep the hype up”, aiutate da stuoli di recensori annoiati e addomesticati, blogger o autori che si fanno portatori (sani?) del virus in rete, giovani critici intervistati che ruminano solo le novità editoriali statisticamente più citate dai blog “mainstream”. Il grande nulla intravisto nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda anni fa è del tutto analogo al grande nulla dal quale rischia di essere sempre travolta l’editoria di poesia. Cambia solo il giro di soldi, e non di poco, anche se sussiste una certa idea di lucro. D’accordo, vi sono eccezioni a questa situazione desolante, ma ad un livello quantitativo apprezzabile non rilevo nessuna linea precisa, nessuna idea di poesia riconoscibile e quindi anche, finalmente, contestabile e attaccabile (sussistono gli attacchi ad personam tipici dei social, belli schermati… da dietro lo schermo). Non sto parlando di mancanza di un’identità di gruppo - e mai mi hanno troppo interessato i gruppi letterari - bensì della mancanza di un sacrosanto e basilare interesse per la scrittura poetica alla quale l’editoria di poesia deve rivolgere una vera attenzione. Quasi ovunque prevale l’idea e il sogno (scorciatoia) di diventare griffe poetica, magari con il ricorso a sistemi altri rispetto a quelli della selezione e della “qualità” del testo, del dibattimento e del rischio d’impresa (fuori e dentro metafora). L’autore e la sua immagine prevalgono sull’opera mentre l’editore, se ha la griffe per anzianità (pardon, per heritage) o se è riuscito a costruirla col tempo, può arrivare a prevalere su tutto. Proprio di recente un editore come Marcos y Marcos ha introdotto una “sfilata letteraria” per presentare le novità della “collezione primavera estate 2016”, curioso episodio che sembra dimostrare questa pulsione delle case editrici a farsi griffe e a mimare gli strumenti utilizzati nel campo della moda. 

Quel grande nulla intravisto nelle campagne pubblicitarie delle case di moda (banalmente: scatto fotografico + logo e morta lì; selfie?) è più vicino di quello che pensiamo al grande nulla dell’editoria di poesia contemporanea. Siamo intossicati e abbagliati dalla griffe, autoriale o editoriale che sia. Il problema della gran quantità di libri di poesia che si pubblica/stampa è un falso problema se la carta la riciclano davvero e se esisteranno editori capaci di fare “seriamente” gli editori e quindi capaci di conversare, costruire un dialogo con gli autori, filtrare senza necessariamente flirtare, proporre un’illuminazione di un lato del diamante della scrittura poetica all’altezza dell’anno duemilasedici. Il diamante è lo stesso ma più editori possono contribuire a illuminarne un lato di volta in volta diverso. Il problema più volte sollevato che in troppi scrivono poesia e troppo pochi ne leggono è un ulteriore falso problema. Chi se ne frega, non possiamo bruciare la vita a rincorrere questi falsi problemi. Le problematiche reali su cui invito a riflettere sono allora queste tre: 1) il divismo e la costruzione autoriale ritenuta purtroppo primaria delle case editrici, dagli uffici stampa e da certi autori che hanno sempre saputo come perseguire determinate strategie di personal branding; 2) lo scadere dell’interesse per l’opera, per il pensiero e il progetto che la sottende e 3) l’editore che troppo spesso e troppo presto sogna di diventare griffe ovvero una sorta di Re Mida. Secondo il dizionario la griffe è “firma, marchio o etichetta di un artista, di uno stilista o di una azienda, specialmente su capi o accessori d’abbigliamento”. Ecco, non trascurerei il finale della definizione che ho messo in corsivo: capi o accessori. Di questo passo rischiamo di diventare tutti capi (capoccia) e accessori (aggettivo), intercambiabili. Non mi sembra un grande affare, ma se va bene a voi, buona camicia a tutti.

lunedì 14 marzo 2016

Tre poesie di Primož Čučnik nella traduzione di Michele Obit

 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


Pubblico di seguito tre poesie di Primož Čučnik (Ljubljana, 1971) nella traduzione di Michele Obit. Li ringrazio entrambi. Sotto troverete una breve nota del traduttore.


I VECCHI MUOIONO PIÙ GIOVANI


Quale senso ha per te, quale per me
l’aria che respiro, e/o l’acqua che bevo,
e/o la lingua che parlo, e posso continuare?
Così camminavo nel bosco, dove spiccano la felce
ed i cespuglio di mirtilli, là avevi
camminato anche tu, un tempo, forse avrai fatto caso
alle stesse incisioni nel taglio dei tronchi, al muschio sul lato esatto.
A tutti coloro che incontravo ho proposto
di parlare la mia lingua; ma in realtà non ve n’erano molti,
sui marciapiedi rotti ho scorto solo dei rami.
Leggero e sottile ero, quasi una foglia, quasi un sentimento
annacquato, quasi un’antera sparpagliata,
un’altra natura. Senza un senso messo in mostra,
senza preavviso. Una scritta strana sulla tua fronte,
bolle di sapone dei sorrisi dalle labbra,
rastrelliere rotte e granai colmi di attrezzi da giocoliere,
li usavi abilmente. In questo traffico confuso
è meglio rimanere giovani, agli occhi degli altri
e nel proprio bosco incantato. Con occhi altrui,
in un’altra natura che a volte ti esclude,
poi prende un’altra direzione, quella dove ti decidi per queste due parole
in una stanza silenziosa, silenziosa sino a che non cominciano a parlare
e/o a suonare un violino vaporoso,
i sussulti di corde amare.
 

VARIAZIONI SU APORIE, STRADE E VOCI

più di uno, occorre
che le parli più di uno...
JACQUES DERRIDA

più di uno, occorre che le parli più di uno
ripeto, per questo servono più voci
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi

ripeto, per questo servono più voci
come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
quando lei dice: a voi va bene, voi potete saltare, ragazzi
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso

come se fosse una prova generale, davanti ad una sala vuota
dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
più a lungo di quanto è ragionevolmente concesso
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile

dio si preoccupa per le cure mediche urgenti
quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
non fraintendetemi, è sempre impenetrabile
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto

quando il medico è ancora a metà strada, avvolto in una tormenta di neve
o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
solo non essere come gli altri e sarai sempre in un deserto
questo devi scriverlo, pur se non conviene

o quando oltrepassa la porta, la vede già guarita
qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
questo devi scriverlo, pur se non conviene
devi essere stata tu a non chiudere la porta

qualcosa succede per la strada, per tutto il viaggio qualcuno pregava
anche quando facciamo ritorno, è spalancata
devi essere stata tu a non chiudere la porta
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo

anche quando facciamo ritorno, è spalancata
il caldo ronzava attraverso il lucernario
la solitudine è necessaria, non so a chi si potrebbe negarlo
anche se di questo non si parla e non ci si vanta

il caldo ronzava attraverso il lucernario
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
anche se di questo non si parla e non ci si vanta
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
 
ti lascia continuamente, ma non se ne va da te
più di uno, occorre che le parli più di uno
davvero non vi è morte senza vita, e viceversa
ha piovuto tutto il giorno, il sole avanza ancora sulla facciata
 

DUE FRAMMENTI


1


Nessuno ricordava nulla.
Orologi da taschino sulle bancarelle, forchette e coltelli usati,
cornici di poco valore, vetro e metallo...
tutta questa cianfrusaglia, sa.
Com’è vedersi nelle lenti di grandi occhiali
o almeno negli specchietti – specchio dimmi
chi in queste lande
ha comprato tutti i cucchiaini da te.

Per questo le cose più belle,
più vicine a ciò che ci circonda ed al mondo,
preferisco portarle in discarica che al mercato delle pulci.
Là forse qualcuno le prenderà
e sfrutterà meglio. Finalmente mi vedrò visibile.
Un paio di stelle nasceranno ed i lampioni.
Tutti, tranne quelli fulminati.
Instabile è la mia condizione.


2


Ma anche questo sarà come un magnete.
Le bancarelle stanno sotto gli ombrelli per via della pioggia.
Preferirei ascoltarmi che vedermi,
preferirei ascoltarmi ascoltato.
Così sussurrano i sussurri
del mondo sussurrante – sibili e  fruscii
più vicini a ciò che ci circonda.
Instabile è la nostra situazione.

Preferirei non badarvi.
In quel tu, che scrive,
diventare ciò che solo si dice.
Perché poi nessuno ricordava nulla.
Tutto era già stato. La cianfrusaglia sa come va con gli oggetti.
Gli oggetti sono qui per l’oggettività.
Per vedersi così come dico:
onda oppure vento – una esplode, l’altro affonda.








STARI LJUDJE UMIRAJO MLAJŠI


Kaj tebi pomeni to, kar meni pomeni
zrak, ki ga diham, in/ali voda, ki jo pijem,
in/ali jezik, ki ga govorim, in tako naprej?
Tako sem se sprehajal skozi gozd, kjer sta poganjala
praprot in borovničevo grmičje, tam si se
sprehajal tudi ti, nekoč, mogoče si opazoval
iste zareze na deblih zasek, mah v pravi smeri.
Vsakomur, ki sem ga srečal, sem predlagal,
naj govori moj jezik; pa jih v resnici ji bilo veliko,
na strtih pločnikih sem samo oplazil nekaj vej.
Bil sem lahek in tenak, skoraj list, skoraj razvodenelo
čustvo, skoraj razsuta prašnica,
drugačna narava. Brez izpostavljenega smisla,
brez svarila. Čuden tekst na tvojem čelu,
milni mehurčki nasmehov z ustnic,
podrti kozolci in kašče, polne žonglerskih rekvizitov,
tvoja spretnost. V tem zmedenem prometu
je bolje ostati mlad, v očeh drugih
in v svojem začaranem gozdu. Z očmi drugih,
v drugačni naravi, ki ti včasih pusti zraven,
potem pa steče v drugo smer, kjer se odločiš za teh par besed
v tihi sobi, ki je tiha, dokler ne spregovorijo
in/ali zaigrajo na izparelo violino,
trzaje grenkih strun. 



VARIACIJA NA APORIJE, POTI IN GLASOVE
več kot eden, nujno je,
da jih govori več kot eden ...
JACQUES DERRIDA

več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
 
ponavljam, za to je potrebnih več glasov
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
ko ona pravi: vam je dobro, ker lahko skačete, fantje
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
 
kot da bi šlo za generalko, pred prazno dvorano
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
dlje od tistega, kar je razumno dovoljeno
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
 
bog poskrbi za nujno zdravniško oskrbo
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ne razumite me narobe, še vedno je skrivnosten
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
 
ko je zdravnik šele na pol poti, zavit v snežni metež
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
samo ne bodi tak kot drugi in povsod boš v puščavi
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
 
ali ko stopi skozi vrata, jo zagleda že ozdravljeno
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
to moraš zapisati, čeprav je neustrezno
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
 
nekaj se zgodi na poti, vso pot je nekdo molil
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
najbrž si ti pustila nezaprta vrata
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
 
tudi ko se vrnemo, je na stežaj odprto
toplota je bučala skozi strešno okno
samota je potrebna, ne vem, čemu bi to tajili
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
 
toplota je bučala skozi strešno okno
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
čeprav se tega ne omenja in ne hvali
zares ni smrti brez življenja in narobe
 
nenehno te zapušča, ne da bi odšla od tebe
več kot eden, nujno je, da jih govori več kot eden
zares ni smrti brez življenja in narobe
ves dan dežuje, sonce se šele prebija na fasadi
 

 
DVA FRAGMENTA



1


Nihče se ni ničesar spomnil.
Žepne ure na stojnicah, stare vilice in noži,
malovredni okvirji, steklenina in kovina ...
vsa ta krama, ve.
Kako se je videti v večjih špeglih
ali vsaj v ogledalcih – ogledalcih povej,
kdo je v tej deželi
kupil vse čajne žličke in žličice.
 
Zato bom najlepše reči
bližnje okolice in sveta,
raje odnesel v smeti kot na bolšjaka.
Od tam jih bo mogoče kdo pobral
in unovčil bolje. Končno se bom videl videnega.
Par zvezd bo vzšlo in ulične svetilke.
Vse, razen pregorelih.
Nestabilna je moja kondicija.
 
 
2

 
Ampak tudi to bo kot magnet.
Stojnice so pod dežniki zaradi dežja.
Raje bi se slišal kot videl,
raje bi se slišal slišanega.
Tako šumijo šumi
šumečega sveta – sičniki in šumniki
bližnje okolice.
Nestabilna je naša situacija.
 
Najraje pa bi se preslišal.
V tistem ti, ki piše,
postati, kar se samo govori.
Saj se ni nihče ničesar spomnil.
Vse je že bilo. Krama ve, kako in kaj s stvarmi. 
Stvari so tu zaradi stvarnosti.
Da bi se uzrl takšnega kot pravim:
val ali veter – ta raznese, tisti potopi.



Una nota di Michele Obit

Queste tre poesie sono tratte da ‘Trilogija’, raccolta poetica di Primož Cučnik pubblicata nel 2015 dalla casa editrice Lud Literatura di Lubiana che raccoglie i versi di tre libri precedentemente editi: Nova okna (Nuove finestre) del 2005, Delo in dom (Casa e lavoro) del 2007 e Kot dar (Come un dono) del 2010.
Primož Čučnik è nato nel 1971 a Lubiana, dove si è laureato in filosofia e sociologia della cultura. La sua prima raccolta Dve zimi nel 1999 ha ottenuto il premio come miglior libro esordiente in Slovenia. I suoi successivi libri sono stati: Ritem v rokah (2002), Oda na manhatanski aveniji (2003, assieme a Gregor Podlogar e Žiga Kariž), Akordi (2004), Nova okna (2005), Sekira v medu (2006) e Delo in dom (2007). A Cracovia, presso la casa editrice Zielona sowa, nel 2002 è uscita una sua miscellanea intitolata Zapach herbaty. Sue poesie sono state pubblicate nell’antologia A Fine Line: New Poetry from Eastern & Central Europe. Traduce dal polacco e dall’inglese. Scrive in oltre critiche letterarie e saggi ed è redattore della rivista Literatura nonché fondatore e redattore della casa editrice di tascabili Šerpa.

sabato 12 marzo 2016

A Treviso il 19 marzo l'anteprima di CartaCarbone festival 2016

Segnalo questo appuntamento marzolino nato da un'idea di Paola Bellin attorno al tema sterminato della guerra. La serata appartiene alla programmazione di anteprima di CartaCarbone Festival 2016 organizzato dall'Associazione culturale Nina Vola.



ANTEPRIMA CARTACARBONE FESTIVAL 2016
ASSOCIAZIONE CULTURALE NINA VOLA
UNO_PUNTO_TRE

NELLA DEMENZA CHE NON SA IMPAZZIRE
Per una poesia civile

Sabato 19 marzo, ore 20.45
Sala Luigi di Francia
Via Roggia, 12 - Treviso




La serata, ideata e curata da Paola Bellin, rientra nella programmazione 
di eventi-anteprima del CartaCarbone festival 2016
L'evento si propone la partecipazione corale del pubblico ad una riflessione e sensibilizzazione sulle tragedie umane, individuali e collettive, delle guerre, attraverso conversazioni di impegno civile con tre poeti ospiti della serata:
 Nicoletta Bidoia, Alberto Cellotto, Loretta Menegon

Improvvisazioni sonore di Lucio Bonaldo.

Alla serata parteciperanno Emily Pravato e Tommaso Zambon 
del Laboratorio Teatrale del Liceo Scientifico "Leonardo da Vinci" di Treviso.

mercoledì 9 marzo 2016

Tradurre in italiano Roberto Bolaño, Luis Cernuda, Julio Cortázar, Almudena Grandes, Juan Carlos Onetti, Luis Sepúlveda e altri. Ricordi e riflessioni di Ilide Carmignani

Librobreve intervista #65


Ilide Carmignani (foto: Arianna Sanesi)
La lunga attesa è servita e finalmente posso ospitare all'interno della serie di interviste dedicate da Librobreve alla traduzione le risposte di Ilide Carmignani, che da oltre trent'anni svolge attività di traduzione, consulenza, editing e revisione dallo spagnolo. Se avete letto traduzioni italiane di Roberto Bolaño, Jorge Luis Borges, Luis Cernuda, Rodolfo Fogwill, Carlos Fuentes, Almudena Grandes, Gabriel García Márquez, Pablo Neruda, Juan Carlos Onetti, Octavio Paz, Arturo Pérez-Reverte o Luis Sepúlveda è assai probabile che vi siate imbattuti in un testo da lei tradotto. Buona lettura.

Luis Cernuda
LB: Qual è stato il primo libro intero che ha tradotto e quando è successo? Che ricordi ha di quei momenti (l'ingaggio, la traduzione, la revisione, il rapporto con l'editore)?
R: Il primo libro intero che ho tradotto è stato Ocnos di Luis Cernuda, una scelta molto audace per una ragazzina di ventitré anni, ma un professore all’università voleva pubblicare un volumetto senza perdere tempo con la traduzione, che non valeva nei concorsi, e mi propose di occuparmene. Ricordo che, per allettarmi, disse: «Ti affido le note che invece fanno titolo». Mi sembrò il mondo alla rovescia, le note degne di riconoscimento quando bastava copiare qualche edizione critica e un bel nulla la traduzione, così difficile, anzi impossibile, diceva Ortega y Gasset. Però quell’estate dopo laurea, trascorsa a tradurre in giardino poemi in prosa su Siviglia, fu così bella che ci presi gusto e quando l’anno dopo andai a perfezionarmi alla Brown University, negli Stati Uniti, chiesi uno special course a un grande traduttore, oltre che studioso, Alan Trueblood, e al ritorno presentai due proposte a case editrici di Milano. Erano tutte e due molto sbagliate, editorialmente parlando, poemi in prosa appunto e una raccolta troppo lunga di racconti di una scrittrice ancora sconosciuta, ma gli editori pur non accettandone nessuna mi fecero fare delle prove e arrivò il primo libro, dall’inglese, Figlia del Tibet di Rinchen Dolma Taring per la Serra e Riva. L’inglese l’ho poi abbandonato appena possibile, mi sembra già difficile conoscere adeguatamente una lingua, figuriamoci due, solo che in quegli anni dallo spagnolo si faceva pochissimo, era il calo del dopo boom. Ricordo come fosse adesso l’emozione quando, nel monolocale di un’amica che mi ospitava durante quei viaggi della speranza a Milano, mi telefonò Michele Riva, l’editor, e mi disse: la prova è andata bene, il libro è tuo. Venticinque anni dopo, ogni volta che lo vedo, provo ancora l’impulso di baciarlo. Il compenso, specie in confronto a quanto accade oggi con gli esordienti, era più che dignitoso. Il contratto in compenso mi spaventò a morte e corsi a mostrarlo all’unico traduttore che conoscevo: l’editore, a suo insindacabile giudizio, poteva questo e quello e l’altro ancora, come in tutti i contratti di allora e anche di adesso, e infatti il traduttore mi disse bonario “stai tranquilla”. La revisione la feci una domenica di primavera a casa dell’editor, che con grande pazienza passò la giornata a spiegarmi gli errori, le sviste, le sciatterie, le ingenuità, anche qualche alzata d’ingegno. Privilegi dell’editoria artigianale di quei tempi. Da allora non ho più smesso di tradurre. Ho avuto molta fortuna e poi all’epoca nessuno voleva fare il traduttore, gli editori erano quasi allibiti quando chiedevo. I colleghi erano tutti traduttori per caso.


Julio Cortázar
LB: E l'ultimo lavoro consegnato? Tra la prima e l'ultima traduzione portata a termine, quali sono gli aspetti più macroscopicamente mutati e quelli invece che hanno conservato intatto il loro colore, sapore?
R: L’ultimo lavoro consegnato è L’inseguitore di Cortázar per SUR. Non so cosa è cambiato. Sintetizzando, probabilmente tutto. Conosco molto meglio lo spagnolo e conosco molto meglio l’italiano, ma soprattutto, grazie anche alle letture di teoria della traduzione e alla condivisione di esperienze con colleghi di lungo corso in occasioni come il Salone di Torino o le Giornate della traduzione, ho perso l’innocenza di allora, so in quanti e quali modi diversi si potrebbe tradurre un certo passo, vantaggi e svantaggi, e conosco ormai per esperienza le strategie di mediazione linguistico-culturale preferite dall’editoria italiana contemporanea. L’acribia, anzi l’ansia di controllo è la stessa. Ma anche il piacere, grandissimo, si rinnova ogni volta: lasciarsi possedere da un’altra voce, respirare al ritmo di un’altra esistenza. Questo per quanto riguarda me e il lavoro sulla pagina. Per quanto riguarda invece l’editoria, be’, capita sempre più spesso che i tempi siano frenetici e che il revisore sia un collaboratore esterno mai visto né conosciuto. Per fortuna il genere di testi che traduco, classici contemporanei sostanzialmente, mi tengono un po’ al riparo. Lavoro con editori che si rivolgono a lettori forti e che curano ancora molto la traduzione. 


Juan Carlos Onetti
LB: Qual è il libro che l'ha tribolata di più? E che ricordo ne conserva ora? Quale era la vera difficoltà?
R: Non lo so, mi verrebbe da rispondere che ogni libro ha le sue difficoltà, tradurre è impossibile, come dicevo sopra che diceva Ortega. Certo, ci sono libri terribili, come per esempio Un certo Lucas di Cortázar, l’opera più inafferrabile (e divertente) che mi sia capitato di tradurre. Un certo Lucas non è un romanzo, perché non c’è una storia, una trama, anche se ci sono decine di storie, e per di più ha un protagonista ricorrente, un certo Lucas appunto. Non è una raccolta di racconti, perché non tutti i testi rientrano nei canoni della short story. Non è un saggio perché c’è molta fiction e per di più fantastica. Non è un’autobiografia, anche se Lucas è senz’altro Cortázar e il suo passato argentino un tema onnipresente. Non è un libro filosofico, anche se riflette a fondo sul rapporto fra realtà e conoscenza. Non è un saggio di critica letteraria, eppure indaga ripetutamente i meccanismi e il senso del linguaggio e della scrittura. Non è un libro erotico, anche se ci sono pagine di estrema sensualità. Insomma, anche solo seguirlo su tutti questi registri espressivi è stata un’impresa, per non parlare del lunfardo, dei giochi di parole, dei neologismi, dello swing che modula il ritmo del testo. È vero però che poi, per altri versi, trovo non meno difficile Onetti, che apparentemente è limpidissimo, non fa giochi di parole né tanto meno se ne inventa di nuove, ma ogni volta che ti aspetti un aggettivo ti presenta un verbo, ogni volta che ti aspetti un verbo ti presenta un sostantivo... La sua traduttrice francese scriveva che tradurlo era come cercare di far camminare all’ambio una zebra. Nemmeno Roberto Bolaño è facile. E sento molto la responsabilità anche per un autore come Luis Sepúlveda, che ha un’incisività e una freschezza difficilissime da restituire, e per di più finisce nelle scuole di ogni ordine e grado come libro di lettura.


LB: Parliamo di sintassi. Nei libri che traduce e nei libri che legge in lingua italiana, quali sono le principali divergenze tra le lingue usate dagli scrittori? Capisco bene che non si può generalizzare, ma ad un livello di percezione le sembra che ci siano degli andamenti di apprezzabile diversità nella sintassi degli autori di lingua spagnola se confrontati con quelli di lingua italiana?
R: Purtroppo i linguisti si occupano di analisi contrastiva più a fini didattici che traduttivi e quindi, per risponderle, mi devo basare semplicemente sulla mia esperienza, una cosa poco scientifica insomma. La sensazione è che lo spagnolo letterario sia una lingua più libera, più esuberante, per esempio non esita a costruire frasi a senso, a cambiare soggetto in modo implicito, oppure a costruire romanzi con flashback potendo segnalarne l’inizio con un solo trapassato per poi tornare con disinvoltura alla sveltezza del passato remoto. Immagino sia perché nasce da una tradizione barocca, senza contare che è la lingua di cinquecento milioni di persone. L’italiano mi appare ancora molto legato all’eredità classica, è una lingua simmetrica, per chi non è toscano forse anche un po’ artificiosa. Un bellissimo giardino di bosso potato ad arte. 


LB: Conoscere gli autori che si traduce: è sempre una risorsa e qualcosa di positivo o talvolta può tramutarsi in insidia? Se sì, in che modo?
R: Io credo che sia una risorsa. Mi piace molto incontrare i pochi autori viventi che traduco. Mi piace ascoltare il loro parlato, la lingua spontanea, l’idioletto. Mi conforta poterli interrogare se ho dei dubbi. Certo, essendo un matrimonio combinato dall’editore, può capitare che l’incontro funzioni solo sulla carta e l’uomo, di persona, si riveli molto meno interessante dello scrittore. Ma insidie non ne vedo, al massimo delusioni. E comunque io delusioni non ne ho avute mai. Anzi.


LB: La situazione "economica" che investe la condizione del traduttore letterario (ristrettezze, urgenze, difficoltà continue) sta già riverberandosi pesantemente sulla "qualità" dei risultati? Secondo lei è vicino il momento in cui questa condizione produrrà dei risultati così inaccettabili tanto da produrre un ripensamento generale e un passo indietro (che sarà però, finalmente, un passo in avanti)?
R: Sì, a volte si vedono traduzioni imbarazzanti. E infatti davanti a certi scempi si imbarazzano anche gli editor della casa editrice che li ha pubblicati, si imbarazzano i redattori, solo chi decide il budget per la traduzione resta impermeabile all’imbarazzo e continua a contare sull’ingenuità, per non dire ignoranza, della maggioranza dei lettori italiani, che sembrano capaci di ingoiare tutto. Comunque negli ultimi tempi, a mio avviso, si è rafforzato lo spazio per gli editori che lavorano sulla qualità, editori che rispettano i loro lettori e quindi – non dimentichiamolo -  i loro scrittori. Oltre a, va da sé, i traduttori.


LB: Da un po' di tempo si è soffermata su Roberto Bolaño. Ma volevo chiudere con un pensiero che la riguardi sulla traduzione di poesia in lingua spagnola (un testo tradotto, un ricordo o citazione, un'omissione). Grazie.
R: Chiudo volentieri con dei versi di Nicola Gardini, da un suo libro di poesie sulla traduzione che ho appena finito di leggere: 


La traduzione è un bacio.
È avere nella bocca
Non una, ma due lingue
Contemporaneamente