Mi è stato chiesto di contribuire a questa serie di
interventi sul tema solitamente scivoloso, vischioso e persino viscido che sta
sotto l’etichetta “editoria di poesia”. Sarò breve davvero. Difficile sostenere
una tesi precisa in poche battute, ma è quello che vorrei fare, anche se mi è
chiaro che un “testo argomentativo”, così come si prova a insegnarlo a scuola
sin dalle medie, non è ciò che più piace o ciò che si legge più volentieri
in rete. Negli spazi del web è più facile infatti sfrizzolare il velopendulo, puntare
alla pancia e scivolare nella polemica-commento infinita, nella capziosità
acchiappalike con la quale i social (ma anche gli strumenti di comunicazione
comprati dai social, come Whatsapp ad esempio) ci hanno oramai intossicato.
Proverò allora a ricorrere a un parallelismo e a descrivere la situazione così
come la percepisco, di modo che possa alla fine emergere una tesi, un nuovo
punto di partenza, quindi qualcosa di contestabile e attaccabile, finanche
condivisibile (parolina magica: condividere!).
Parecchi anni fa, non ricordo bene quando, uscì uno studio specialistico sul modo in cui le case di moda gestivano la propria comunicazione pubblicitaria. Il titolo, se ben ricordo, era “Il grande nulla”. In sostanza si sosteneva quello che è tuttora sotto gli occhi di tutti, cioè che nella comunicazione pubblicitaria le case di moda non comunicavano proprio un bel niente (nessun posizionamento, nessuna idea del mercato o di prodotto, nessun beneficio funzionale o psicologico, nessuna presa di posizione o uno stare sul campo, talvolta nemmeno un’idea precisa di stile, il che per la moda poteva risultare persino imbarazzante). Comunicavano soltanto la griffe, ovvero un logo appoggiato sopra uno scatto fotografico pescato tra quelli delle ultime collezioni che si volevano pubblicizzare. In ambito pubblicitario questa piega si è poi allargata. Pensate all’arredamento o anche ai manufatti dell’architettura e delle archistar, designer inclusi: vale solo il brand, pardon, la griffe, che è diversa e ancora più irrazionale ed “emozionale” del brand. Si passa quasi ai campi della “fede”. In questo contesto, da un punto di vista di tecnica della comunicazione pubblicitaria, uno spot come quello del pennello Cinghiale aveva stile da insegnare a pacchi ai pubblicitari e agli stilisti delle più rinomate case di moda ed era nato dalla mente di copywriter che conoscevano ancora il valore della posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo. In questo nuovo contesto invece i copywriter e la parte verbale dell’annuncio vengono meno.
Parecchi anni fa, non ricordo bene quando, uscì uno studio specialistico sul modo in cui le case di moda gestivano la propria comunicazione pubblicitaria. Il titolo, se ben ricordo, era “Il grande nulla”. In sostanza si sosteneva quello che è tuttora sotto gli occhi di tutti, cioè che nella comunicazione pubblicitaria le case di moda non comunicavano proprio un bel niente (nessun posizionamento, nessuna idea del mercato o di prodotto, nessun beneficio funzionale o psicologico, nessuna presa di posizione o uno stare sul campo, talvolta nemmeno un’idea precisa di stile, il che per la moda poteva risultare persino imbarazzante). Comunicavano soltanto la griffe, ovvero un logo appoggiato sopra uno scatto fotografico pescato tra quelli delle ultime collezioni che si volevano pubblicizzare. In ambito pubblicitario questa piega si è poi allargata. Pensate all’arredamento o anche ai manufatti dell’architettura e delle archistar, designer inclusi: vale solo il brand, pardon, la griffe, che è diversa e ancora più irrazionale ed “emozionale” del brand. Si passa quasi ai campi della “fede”. In questo contesto, da un punto di vista di tecnica della comunicazione pubblicitaria, uno spot come quello del pennello Cinghiale aveva stile da insegnare a pacchi ai pubblicitari e agli stilisti delle più rinomate case di moda ed era nato dalla mente di copywriter che conoscevano ancora il valore della posizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo. In questo nuovo contesto invece i copywriter e la parte verbale dell’annuncio vengono meno.
Ulteriore premessa nonché risposta a confutazioni che intravedo già sorgere: qualcuno vorrà rilevare che questo mio è un approccio troppo tecnico ad un tema così semi-esistenziale ed esistenzialista. Eppure stiamo parlando di “editoria di poesia”, quindi di attività legata al lucro, per quanto marginale e per quanto di marginalità bassa. Una domanda: qual è il lucro dell’editoria di poesia? Tale approccio tecnico insomma non è del tutto peregrino. Inoltre le dinamiche di brand sono note alle nostre case editrici, che non disdegnano un certo modo di cavalcare l’onda, o, come si dice in gergo “keep the hype up”, aiutate da stuoli di recensori annoiati e addomesticati, blogger o autori che si fanno portatori (sani?) del virus in rete, giovani critici intervistati che ruminano solo le novità editoriali statisticamente più citate dai blog “mainstream”. Il grande nulla intravisto nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda anni fa è del tutto analogo al grande nulla dal quale rischia di essere sempre travolta l’editoria di poesia. Cambia solo il giro di soldi, e non di poco, anche se sussiste una certa idea di lucro. D’accordo, vi sono eccezioni a questa situazione desolante, ma ad un livello quantitativo apprezzabile non rilevo nessuna linea precisa, nessuna idea di poesia riconoscibile e quindi anche, finalmente, contestabile e attaccabile (sussistono gli attacchi ad personam tipici dei social, belli schermati… da dietro lo schermo). Non sto parlando di mancanza di un’identità di gruppo - e mai mi hanno troppo interessato i gruppi letterari - bensì della mancanza di un sacrosanto e basilare interesse per la scrittura poetica alla quale l’editoria di poesia deve rivolgere una vera attenzione. Quasi ovunque prevale l’idea e il sogno (scorciatoia) di diventare griffe poetica, magari con il ricorso a sistemi altri rispetto a quelli della selezione e della “qualità” del testo, del dibattimento e del rischio d’impresa (fuori e dentro metafora). L’autore e la sua immagine prevalgono sull’opera mentre l’editore, se ha la griffe per anzianità (pardon, per heritage) o se è riuscito a costruirla col tempo, può arrivare a prevalere su tutto. Proprio di recente un editore come Marcos y Marcos ha introdotto una “sfilata letteraria” per presentare le novità della “collezione primavera estate 2016”, curioso episodio che sembra dimostrare questa pulsione delle case editrici a farsi griffe e a mimare gli strumenti utilizzati nel campo della moda.
Quel grande nulla intravisto nelle campagne pubblicitarie delle case di moda (banalmente: scatto fotografico + logo e morta lì; selfie?) è più vicino di quello che pensiamo al grande nulla dell’editoria di poesia contemporanea. Siamo intossicati e abbagliati dalla griffe, autoriale o editoriale che sia. Il problema della gran quantità di libri di poesia che si pubblica/stampa è un falso problema se la carta la riciclano davvero e se esisteranno editori capaci di fare “seriamente” gli editori e quindi capaci di conversare, costruire un dialogo con gli autori, filtrare senza necessariamente flirtare, proporre un’illuminazione di un lato del diamante della scrittura poetica all’altezza dell’anno duemilasedici. Il diamante è lo stesso ma più editori possono contribuire a illuminarne un lato di volta in volta diverso. Il problema più volte sollevato che in troppi scrivono poesia e troppo pochi ne leggono è un ulteriore falso problema. Chi se ne frega, non possiamo bruciare la vita a rincorrere questi falsi problemi. Le problematiche reali su cui invito a riflettere sono allora queste tre: 1) il divismo e la costruzione autoriale ritenuta purtroppo primaria delle case editrici, dagli uffici stampa e da certi autori che hanno sempre saputo come perseguire determinate strategie di personal branding; 2) lo scadere dell’interesse per l’opera, per il pensiero e il progetto che la sottende e 3) l’editore che troppo spesso e troppo presto sogna di diventare griffe ovvero una sorta di Re Mida. Secondo il dizionario la griffe è “firma, marchio o etichetta di un artista, di uno stilista o di una azienda, specialmente su capi o accessori d’abbigliamento”. Ecco, non trascurerei il finale della definizione che ho messo in corsivo: capi o accessori. Di questo passo rischiamo di diventare tutti capi (capoccia) e accessori (aggettivo), intercambiabili. Non mi sembra un grande affare, ma se va bene a voi, buona camicia a tutti.
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