venerdì 28 dicembre 2012

Curzio Malaparte ritrovato. Intervista con Franco Baldasso

Librobreve intervista #9


Franco Baldasso
Cercando notizie su alcuni libri scritti dopo la Prima guerra mondiale, si è aperta in me una voragine d’attenzione verso Viva Caporetto! di Curzio Malaparte, un libello che non può che incuriosire sin dal titolo. Ho iniziato poi a riflettere sulla rinnovata effervescenza che si registra nei confronti dello scrittore pratese, il quale fu anche abilissimo giornalista. Ho pensato allora che un tempestivo approfondimento su questo autore, su determinati libri e su questa sorta di “Malaparte renaissance” (o più semplicemente: tentativo di ricollocare Malaparte in un canone novecentesco) potevano costituire l’occasione per ospitare un’intervista a Franco Baldasso, per anni direttore della rivista daemon (la cui parabola è stata a volte ricordata su queste pagine, se non altro perché molti anni fa diedi una mano a realizzarla). Dopo un apprezzato contributo critico su Primo Levi (Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone, Pendragon, 2007), Franco Baldasso si è trasferito negli Stati Uniti, e tuttora lavora alla New York University. Con il suo progetto di ricerca, di cui ci parlerà, Franco Baldasso approfondisce un periodo cruciale della storia civile e intellettuale d’Italia, per la precisione quell'incistata fase di transizione dal Fascismo alla repubblica democratica. Ed è in questi anni che Malaparte si ritaglia un profilo di primo piano.

LB: Puoi descrivere brevemente il tuo attuale progetto di ricerca, accennare a come Malaparte si inserisca nel tuo studio, e soffermarti sul perché quest’autore costituisca davvero uno snodo chiave del periodo che prendi in considerazione?
RISPOSTA: Il mio lavoro attuale ha come titolo Against Redemption: The Debate over Italian History during the Transition from Fascism to Democracy. La mia tesi principale è che gli anni dalla caduta del Fascismo fino alla proclamazione della repubblica e al definitivo assetto dello stato italiano come democrazia parlamentare, basata nei fatti da una contrapposizione partitica netta che rispecchiava gli schieramenti della guerra fredda, siano stati in Italia un periodo di eccezionale fiorire intellettuale, del quale per decenni si sono voluti vedere solo gli aspetti esterni e per  cosi dire più populistici nel Neorealismo. Scrittori come Saba, Savinio, Berto, Carlo e Primo Levi, Brancati, Satta e Malaparte hanno dato le loro prove migliori proprio contestando l’idea di una redenzione del popolo italiano attraverso la guerra di liberazione, testimoniando altresì della continuità della cultura del dopoguerra con la cultura storica, retorica e letteraria che aveva sorretto i regimi fascista e liberale prima della rottura istituzionale dell’8 settembre. In altri termini sto riscrivendo la storia intellettuale di quegli anni partendo dalla letteratura, e non dal pensiero politico, provando come la letteratura del periodo sosteneva un dibattito intellettuale apertissimo, vivificato dalla recente liberazione, che si apriva a prospettive politiche, sociali, storiche e creative molto più varie e radicali che non nella seguente stagione di “congelamento” istituzionale e culturale dettato dal nuovo sistema partitico. 
Malaparte è una figura di spicco per la sua inclassificabilità politica ma anche e soprattutto intellettuale e letteraria. L’intensità rappresentativa e il successo internazionale di Kaputt (1944) e La pelle (1949) lo hanno fatto diventare il primo interprete mondiale delle violenze del secolo e della decadenza dell’Occidente. Primato che, se ben attestato all’estero, non trova riscontro in Italia, anche per la sua cancellazione dall’archivio nazionale dei grandi scrittori e interpreti del Novecento. Scomodo a troppi, se ne è disconosciuto il ruolo importantissimo in particolare nel momento difficile della transizione tra Fascismo e suo post. 
Vasily Grossman
Uno sguardo alle date: la descrizione dei pogrom in Est Europa e della visita al ghetto di Varsavia in Kaputt è pubblicata in un anno – il 1944 – in cui il nome di Auschwitz era ancora sconosciuto. In quell’anno solo Vasily Grossman pubblicava i suoi articoli su Treblinka sulla Pravda, mentre il primo tentativo di interpretazione di quello che sarebbe successivamente sentito come l’evento fondante della civiltà occidentale nel dopoguerra, la Shoah e l’universo concentrazionario nazi-fascista, era apparso solo un anno prima in un giornale di psicologia statunitense, a firma di Bruno Bettelheim. Nelle sue ambiguità politiche personali e nelle sue controverse qualità letterarie, Malaparte è un caso eccezionale di testimone del nostro secolo.

LB: Siamo in fase di avvicinamento al centenario della Prima guerra mondiale. Partiamo da un libro breve, uscito nel 1921, e oggi difficilmente reperibile in solitaria (è incluso nel Meridiano con il suo secondo titolo). Mi riferisco a Viva Caporetto! (poi diventato La rivolta dei santi maledetti). In questo precoce scritto sembrano già presenti i grandi temi della sua prosa, uniti a un impietoso giudizio sull'Italia. Lo confermi? 
RISPOSTA: Un testimone eccezionale dicevamo. A differenza di molti altri acclamati intellettuali italiani compromessi con il regime e che si rifaranno una verginità nel dopoguerra, da Montanelli a Piovene, Malaparte fin da giovane si butta nella mischia, partecipa alla guerra, e soli 16 anni parte per il fronte francese nella Prima Guerra Mondiale come volontario. Combatte in seguito sul Grappa, e viene rispedito ad Ypres nel 1918 a contrastare l’ultimo attacco germanico e a rovinarsi i polmoni con i gas tossici. Questa nota conferma la sua adesione anche ingenua alla lotta, anzi alle lotte del secolo, alla sua volontà di essere non solo attore, ma testimone scomodo. Tanto scomodo che, nel dopoguerra, infiammerà gli animi in Italia con questo libello provocatorio fin dal titolo, ma che vale senz’altro una lettura attenta. Viva Caporetto! è un’impietosa denuncia delle tragiche contraddizioni di quella guerra, è un seguire la mente, esprimere le paure dei soldati mandati al massacro, portare alla ribalta i rancori di un’intera generazione che ha perso se stessa nella guerra e si sente defraudata del proprio futuro nel primo dopoguerra. Non dimentichiamo che Malaparte all’uscita di questo libro aveva già aderito al Fascismo, di cui diverrà, come scrive Gobetti “la miglior penna”. Il dato è eccezionale perché il libro sputa proprio sulle falsità della rigenerazione della nazione attraverso la guerra, mito di fondazione tra l’altro dell’ideologia fascista. Malaparte tuttavia aderisce al Fascismo con tutto se stesso: come molti altri intellettuali dell’epoca in cerca di fama (e di un posto al sole) vede Mussolini come l’uomo forte, e il suo movimento come la necessaria rivoluzione sociale e politica.

LB: Viva Caporetto! non è il solo libro di Malaparte che meriterebbe una riproposizione “stand alone”, quel tipo di pubblicazione in grado di alimentare un dibattito, una discussione (senza nulla togliere a un Meridiano, che però soffre inevitabilmente della sua indole "antologica").
Edizione Bompiani de
Il volga nasce in Europa
RISPOSTA: Malaparte ha vissuto varie vite. Il lato forse più odioso del suo carattere e del suo essere intellettuale pubblico non è il camaleontismo che più colleghi gli hanno rinfacciato (dal suo libro Don Camaleo, che in realtà era una satira dello stesso Duce), ma il suo inarrestabile narcisismo e quello che oggi chiameremo presenzialismo, fino ad anticipare nei suoi articoli sul “Tempo” negli anni ’50 i moderni, ma senza una virgola del suo talento, tuttologi (e si badi bene, alla sua morte la rubrica verrà ripresa sulle stesse pagine da un certo Pasolini…). Molti dei suoi libri sono tentativi di compromesso con queste sue posizioni discutibili. Ma altri come Il Volga nasce in Europa, o Mamma marcia, fino alla pièce teatrale Das Kapital sulla vita e le contraddizioni di Marx, sono sorprendenti anticipazioni dei grandi dibattiti del dopoguerra. Dal significato storico del comunismo e degli altri totalitarismi, all’impossibilità di un concetto forte di patria per l’Italia del secondo dopoguerra e alla necessaria apertura europea alle vicende (e culture) del nuovo ordine globale. Quando riesce ad essere osservatore ed interprete della storia e conciliare la sua invadente biografia con gli eventi narrati, Malaparte ha una capacità di focalizzazione e di sintesi straordinari. Tutti i libri citati andrebbero ripubblicati e meditati.

LB: Allo stesso tempo esiste una rinnovata attenzione diretta a Malaparte. Penso naturalmente all'azione di Adelphi, che dura già da qualche anno: La pelle, Kaputt e il recente Il ballo al Kremlino. Perché? Perché proprio oggi, in questo frangente di storia? Dobbiamo imputare anche allo scenario europeo di oggi questa "riscoperta"? 
Probabilmente è importante anche l’attuale attenzione all’estero – penso soprattutto in Francia – per lo scrittore. Malaparte può forse essere letto oggi con maggiore obiettività, puntando magari l’attenzione su motivi più consoni al dibattito attuale come la biopolitica e l’incontro imprevedibile delle diverse civiltà globali, di cui ha fatto diretta esperienza nelle sue corrispondenze e nei suoi libri.

LB: C'è chi ha dedicato anche una corposa biografia allo scrittore di Prato. Penso a Maurizio Serra, rappresentante permanente dell'Italia presso l'Unesco. Cosa ci racconti del suo Malaparte. Vite e leggende, uscito in realtà prima in Francia, per Grasset e vincitore del Premio Goncourt de la Biographie?
La biografia di Serra
uscita per Marsilio
RISPOSTA: La biografia di Serra è probabilmente oggi il più interessante e acuto studio sulla letteratura di Malaparte. Dico questo a scapito dell’enorme lavoro archivistico e delle testimonianze raccolte dall’autore (anche una pregevole lettera inedita di Henry Miller a Malaparte, stampata in appendice) e della fine cultura dell’autore. Il libro si legge benissimo, come il romanzo di una vita – di più vite intrecciate – di un personaggio scomodo e teatrale, che però in qualche modo si cela sempre al nostro sguardo, proprio mentre si atteggia sotto i riflettori. Ma voglio ritornare sulle pagine dedicate da Serra ai libri di Malaparte perché sono di un’apertura ermeneutica davvero notevole. Dico questo perché non esiste uno studio moderno e veramente aggiornato in Italia sullo scrittore pratese che possa reggere il confronto con la capacità critica di Serra. Per quanto riguarda il lato più propriamente storico-biografico questo nuovo lavoro supera il precedente e pregevole L’arcitaliano di Giordano Bruno Guerri per la mole enorme di testimonianze orali e per l’acutezza interpretativa dell’autore.

LB: Scrittori-giornalisti. Quali sono i tratti essenziali del rapporto tra il giornalista e lo scrittore Malaparte? Quali luci getta poi, ad esempio, la lettura delle sue corrispondenze di guerra dal fronte russo?
Come giornalista Malaparte era fuori del comune, e anche una gran primadonna. Nelle sue corrispondenze dall’Ucraina e da Leningrado sotto assedio riesce a farsi pagare anche per gli articoli che il Corriere non può pubblicare per la censura di regime. Nel frattempo, spedisce gli stessi articoli che pubblica sul giornale milanese rimaneggiati, e con l’aggiunta di foto reportages, ad altri periodici. O per la sua personale rivista Prospettive, che fa lavorare Moravia come editorialista nonostante le leggi razziali o pubblica a pochi mesi dalla “pugnalata alla schiena” dell’autarchica Italia alla Francia un numero monografico sul Surrealismo francese, o le prime traduzioni di Finnegans Wake di Joyce…
Quando si parla del proto anti-fascismo di un Pavese o di un Vittorini con le traduzioni di Americana, si dovrebbe non solo considerare il coraggio e l’apertura intellettuale di Malaparte, ma anche leggere gli imbarazzanti diari di Pavese allo scoppio del conflitto o il fatto che a guerra ben inoltrata Vittorini rappresentasse l’Italia fascista nel congresso degli scrittori dei paesi aderenti all’Asse…
Curzio Malaparte
Per quanto riguarda gli articoli dal fronte russo, poi ripubblicati in Il Volga nasce in Europa, di cui auspichiamo finalmente una edizione critica, Malaparte distanzia incomparabilmente i vari Montanelli o Virgilio Lilli, anch’essi inviati speciali in altri teatri dello stesso fronte. Se i primi sono tutti attenti a ricalcare la retorica ufficiale, come lui stesso scrive al direttore del Corriere, Aldo Borrelli, Malaparte si rifiuta di ricopiare “le circolari degli uffici stampa di Berlino”. Attento a non scomodare gli allora trionfanti tedeschi, volge però l’attenzione sull’organizzazione sociale, sullo spirito comunitario, sugli effetti nel popolo e nelle truppe della rivoluzione sovietica. Parla di una nuova morale, della morale operaia come etica del mondo moderno. È evidente che corrispondenze del genere non possono piacere alle veline dei regimi, anche perché l’acume di Malaparte sta tutto nelle due frasi che mai pronuncia nei suoi articoli: che l’URSS potrebbe non perdere, e che l’Italia fascista, in questo scontro all’ultimo sangue tra i due totalitarismi del Novecento, è solo una comprimaria. L’Italia, come farà dire memorabilmente a Galeazzo Ciano nel 1943 in Kaputt, è il solo paese insieme alla Polonia che sicuramente “ha già perso la guerra”.

mercoledì 26 dicembre 2012

Librobreve a Pagina3 di Radio3








Ringrazio Nicola Lagioia per la menzione di questo blog e di una recensione qui apparsa durante la puntata odierna di Pagina3.

Uno dei libri raccontati dalla voce di Lagioia nella puntata di Santo Stefano è La persona e il sacro di Simone Weil, recensito lo scorso ottobre qui.

Questo il link con gli altri interessanti contenuti della puntata, mentre da qui potete arrivare al podcast.

Buon ascolto.

venerdì 21 dicembre 2012

La laguna di Venezia nelle parole di Iosif Brodskij, Eugenio Turri, Denis Cosgrove e Pierre George

Per raccontare il volume La laguna di Venezia (Cierre Edizioni, pp. 96, euro 12) partirei dalla fine, dalle foto di una Venezia e di una laguna oggi meno note, quelle ottocentesche in bianco e nero, atomizzate nelle isole e nelle persone ritratte in cammino o intente in quotidiane faccende da Carlo Naya. Le foto di San Lazzaro degli Armeni, di San Francesco del Deserto, di Sottomarina, le isole di Mazzorbo e Sant'Elena o l'isola delle Vignole per qualcuno potrebbero già valere molto, persino l'intero libro di cui do notizia. Con questa serie di bellissime immagini di Naya, una sorta di contraltare fotografico al vedutismo,  si conclude il secondo volume della collana che l'editore veronese ha denominato "I quaderni delle Regaste". Altre foto, a colori, intervallano invece gli scritti ospitati al suo interno, dall'introduzione affidata a Iosif Brodskij (pochi  hanno visto Venezia come questo grande poeta e Fondamenta degli Incurabili resterà ancora a lungo un testo di riferimento) fino agli scritti di tre geografi che affrontano di petto il prodigio della città lagunare, il suo equilibrio e in fondo la sua utopia reale, per certi versi pure il suo "oltraggio". Questo libro "ridotto" prende spunto da un lodevole volume del 1995, pubblicato sempre da Cierre in coedizione con l'Unesco.

Gli scritti di Denis Cosgrove e Pierre George sono assai brevi e si concentrano su quelle manifestazioni di vita che non hanno mai smesso di affascinare le popolazioni di ogni latitudine: la sfida di lunga durata di Venezia, lo sguardo da angiporto della città, a Sud verso il Mediterraneo (orientale), verso occidente, sul Po, e quello costante verso Nord all'apporto dei fiumi alpini (assai più pericolosi del mare, e ben presto domati, nell'epoca d'oro della regimentazione idraulica), i parallelismi con altre "civiltà idrauliche" (pensiamo a quella fiamminga), il rizoma di ghebivelme e barene visibili e cangianti, i palazzi magnifici, e poi - non potevano mancare - i rimandi continui all'apogeo della Repubblica Marinara fino al crollo definitivo della Serenissima in epoca Napoleonica. Cosgrove, ne Il paesaggio palladiano, aveva già approfondito un tema ricorrente in tutti i contributi di questo volume, vale a dire quel basilare rapporto tra Venezia e la morfologia di quella terraferma che riconosciamo navigando in auto tra la laguna e le Alpi. Qui, grazie all'imprescindibile studio di Turri, non può non emergere anche il vibrante tremolio di un rapporto mai dato una volta per sempre, quello tra la "megalopoli padana" (titolo di un suo noto saggio) e la città lagunare. Oggi, con il mare forse passato in secondo piano, tale tremolio è diventato ancor più abbagliante e instabile, come un'acqua colpita dal sole, e sotto gli occhi di tutti.

Il cuore del libro è il più articolato ed esteso contributo di Eugenio Turri, la vera perla. "Perla" è anche l'immagine che il geografo utilizza per creare una similitudine tra Venezia e la laguna, una perla nella sua valva attaccata al respiro delle maree, alla morfologia delle barene. Come ci ha abituato in altri mirabili saggi, Turri ha il dono di una prosa scientifica in grado di collocarsi sempre nel confronto col mito e le sue pulsioni, con i più avanzati "momenti" dell'antropologia, della storia e naturalmente delle "sue" materie: la geologia e la geografia prima di tutto. Il suo contributo a questo volume è già tutto nell'efficacia della sua scrittura: come è pensabile reggere l'equilibrio su un argomento così fragile e condurre il lettore dal caos primigenio della natura alla meravigliosa antropizzazione di Venezia, all'utopia veneziana se non si possiede quel tipo di formazione umana e intellettuale che ha interessato Eugenio Turri? Chi meglio di lui ha saputo cogliere i vettori di sviluppo, le linee di forza e le fragilità intimissime della "valva di Venezia", per poi concludere nella collocazione - oggi più che mai necessaria - della perla veneziana nel più ampio panorama regionale e nazionale, mostrando pertanto anche la nuova inclinazione dell'asse del "pianeta Venezia", verso occidente e verso settentrione? Turri non è certo nuovo a questa prosa, ed è per questo che il suo lavoro diventa imprescindibile ogni qual volta si cade nella parola "paesaggio", un lascito indispensabile per non rischiare di perderci, per poter rimaner attaccati alla nostra valva di pensiero, un pensiero che sta dentro il paesaggio.

Come suggerisce Brodskij nella sua introduzione, il libro che potete avere tra le mani anche voi "medita la fuga. La fuga di una città dal suo presente; per non parlare poi del suo futuro. Esso esamina ogni aspetto della carcerazione di questa città da parte dell'Età dell'Avarizia. Perché ogni prigione è opera dell'uomo: a maggior ragione quella ecologica." Tutto il suo scritto è un mirabile esercizio sul concetto di "fuga". Definisce questo libro "manuale di sopravvivenza della città di Venezia". Bastavano queste poche necessarie parole per illuminare pagine altrettanto necessarie. Avevo una nonna che quando voleva parlarmi della pazienza, di un mondo, di un uomo e di tempi forse sprofondati (loro sì, a differenza di Venezia!) diceva circa: "Una una pietra dopo l'altra hanno costruito pure Venezia". Lo diceva in dialetto, nel dialetto trevigiano, quello che risente più del veneziano che dell'apporto prealpino. Credo che in quel modo di dire ci fosse molto e si possa ravvisare ancora oggi quell'essenza di acqua, aria e luce che si salva, ad ogni istante, nelle architetture di questa città duplice, ambigua, eccezionalmente anfibia.

lunedì 17 dicembre 2012

da "La chèrta da zugh" e "Sòta la guàza". Un'intervista con Annalisa Teodorani

Una poesia da #15
Librobreve intervista #8

Cambio leggermente formula. Per introdurre la bella poesia in santarcangiolese di Annalisa Teodorani (qui accanto ritratta da Manuel Migliorini) ricorro a un'intervista. E poi lascio una manciata di testi, uno brevissimo, quasi-haiku, come spesso capita nei suoi libri che sono Par sènza gnént (1999), La chèrta da zugh (2004) e Sòta la guàza (2010). I libri da cui provengono queste poesie sono editi dalla società editrice Il ponte vecchio. L'invito è quello di cercare di agganciare questi libri e questo dettato, per capire come potenza e discrezione assorbano la lettura. Inevitabile poi pensare ad una lettura ad alta voce, dato che nel dialetto questo pensiero di ascolto della poesia letta si fa ancora più forte. Ma non mancheranno le occasioni per ascoltarla.



LB: La tua poesia si inserisce in un solco importante, dove appaiono i nomi di Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Nino Pedretti e, anche se poco ricordato nel tuo caso, Giovanni Nadiani (pur nella diversa area di provenienza). Credi abbiano parte importante nella tua scelta di scrivere e scrivere in dialetto?
RISPOSTA: Non nego che nascere a Santarcangelo sia stata per me una grande fortuna. E' sulle pagine degli autori che citi nella domanda a cui, per altro, vorrei aggiungere doverosamente i nomi di altri due grandi poeti santarcangiolesi: Giuliana Rocchi e Gianni Fucci che mi sono formata. Ma io il dialetto l'ho sempre avuto dentro e nella forma, forse poetica, ha preso poi una sua naturale declinazione. Come tutti ho dei padri.

LB: Allarghiamo lo sguardo ma restiamo al dialetto. La poesia dialettale del Novecento ha riservato forse le sorprese più belle. Ci sono altri poeti che hanno scritto in altri dialetti e che sono stati importanti nella tua formazione? 
RISPOSTA: Sicuramente in primis citerei Trilussa, il primo autore dialettale con cui venni in contatto sin dai tempi delle medie. L'autore dialettale non romagnolo che più mi affascina, forse per quella vena di intimismo a cui anche io ogni tanto cedo, è Biagio Marin.

LB: Credo sia interessante ascoltare quali altri poeti, italiani o stranieri, abbiano lasciato il segno sul tuo sguardo e sul tuo impasto fonico.
RISPOSTA: Fin dalle elementari Pascoli e Leopardi giocarono un ruolo importante. Passando poi per Montale e successivamente al rapimento per i maestri santarcangiolesi, arrivai ben presto alla scoperta di Emily Dickinson e Antonia Pozzi della cui poesia subisco il fascino per quel suo essere così sognante e cruda, insomma necessaria.

LB: C'è un senso marcatamente politico o sociale, a tuo avviso, insito nella scrittura in dialetto? 
RISPOSTA: Si può esserci, ma bisogna saperlo veicolare bene. La poesia per così dire "impegnata" o civile è cosa assai alta per cui o la si sa fare o è meglio lasciar perdere. Fra i santarcangiolesi fu proprio Giuliana Rocchi, attivamente impegnata nella lotta per i diritti dei lavoratori a farsi portavoce in maniera mirabile di questo tipo di poesia, lei bambina lavoratrice che lasciò gli studi per portare a casa la "pagnotta", scrisse brani di uno sconvolgente verismo con picchi di lirismo.

LB: Esiste talvolta in te una "tentazione della lingua"?
RISPOSTA: Eccome se c'è, ma occorre non aver fretta e non improvvisarsi. Ho senz'altro anche io bisogno di aprire un altro rubinetto. Non è affatto un pensiero latente quello della scrittura in sola lingua italiana... vedremo.

LB: A prescindere da dialetto o lingua, ciò che fa di qualcuno che scrive un poeta è anche uno sguardo, una certa andatura nel camminare il mondo talvolta, un ritmo del respiro, l'inclinazione della voce. Nel tuo caso mi sembra che ognuno di questi "parametri", forse troppo corrivamente individuati, sia già giunto ad una pienezza che merita l'attenzione di un pubblico allargato. Al di fuori della comunità dei parlanti la lingua in cui scrivi, quali riscontri e attenzione stanno ricevendo i tuoi libri?
RISPOSTA: Qui tocchi una nota dolente. Senz'altro negli anni, sebbene i miei spostamenti siano a corto raggio, in un certo senso qualcosa di me e del mio lavoro in primis sono riusciti a valicare i confini della Romagna e a raggiungere le varie regioni d'Italia. Recentemente mi è capitato di prendere contatti anche con persone non "addette ai lavori" che casualmente si erano imbattute nei miei versi presenti in rete e mi hanno cercata per esprimere le loro sensazioni a riguardo o propormi qualcosa. Questo aspetto "casuale" mi dà una grande carica, rilasciandomi un'energia che mi porta a proseguire in quello che faccio e soprattutto a crederci là dove io, per qualche motivo, avrei la tentazione della resa o della latitanza.
Visto che il Natale si avvicina, esprimendo un desiderio, direi che mi piacerebbe che i miei libri fossero distribuiti sul territorio nazionale ma mi rendo conto che il dialetto porta con sé un forte contraltare in tal senso ed io pubblico con una casa editrice molto solida e radicata sul territorio che però fa fatica, con il vernacolo, ad imporsi sul territorio nazionale.




Par fè Nadèl

Dal vólti
par fè Nadèl
e’ basta l’udòur d’un mandaròin.


Per fare Natale
A volte / per fare Natale / basta l’odore di un mandarino.



Amòur

Fa’ còunt e’ Vajònt
una muntàgna ch’la va zò tl’aqua.
l’amòur l’è un invarnèda
ch’la giàza al tubadéuri
una diga
senza gnénca un rubinèt.


Amore
Immagina il Vajònt / una montagna che frana nell’acqua. / L’amore è un inverno / che gela le tubature / una diga / senza nemmeno un rubinetto.



L’arzént dla nòta

La nòta l’è fàta d’arzént
sa tótt cal stèli
ch’a l chésca, chisà duvò
e me ch’a m’inmàzni
d’andèn a cói la pòurbia.
L’arzént l’è tal bèvi dal lumèghi
in purtisiòun so ma la méura
te sòun di campanéll tachéd mi culèr di gat
tal fòi d’ulóiv…
L’arzént l’è te vént, quant l’è zantóil
ch’u t pàsa una mèna tra i cavéll
u ti còunta cmè a dói “a so a què”
e alòura u t pèr
ch’l’apa la vòusa
ad tótt quèi
ch’i t’à vlu bén.


L’argento della notte
La notte è fatta d’argento / con tutte quelle stelle / che cadono, chissà dove / ed io che mi immagino / d’andare a raccoglierne la polvere. / L’argento è nelle bave delle lumache / in processione lungo la mura / nel suono dei campanelli attaccati ai collari dei gatti / nelle foglie d’ulivo…/ L’argento è nel vento, quando è gentile / che ti passa una mano tra i capelli / te li conta come a dire “sono qui” / e allora ti pare / che abbia la voce / di tutti quelli / che ti hanno voluto bene.

sabato 15 dicembre 2012

da "Girini" di Roberta Durante

Una poesia da #14

Mi sono accorto di aver esagerato in questo spazio intitolato "Una poesia da". Sinora vi hanno trovato posto esclusivamente nomi tra i più noti. Vanno bene i grandi, certo, vanno bene, soprattutto se è l'occasione per ricordare qualche testo o qualche loro libro dei meno noti. Ma credo serva anche innestare delle voci nuove. L'appuntamento "La poesia del giovedì", inaugurato con Roberto Cescon, va anche in questa direzione. Con l'intervista a Annalisa Teodorani che pubblicheremo tra qualche giorno si può dir lo stesso, e proverò a inserire l'elemento della poesia in dialetto tra i più giovani, miei coetanei. Ora però rimedio di brutto con l'età media dei poeti ospitati presentando un paio di testi di Roberta Durante. Nata a Treviso nel 1989, ha studiato e vissuto a Venezia dove si è laureata in Arti Visive e dello Spettacolo. Ha realizzato cartoni animati e scritto per dei magazine online. Nel 2011 ha vinto la VI edizione del Premio Mazzacurati-Russo pubblicando la sua prima raccolta di poesie Girini per le qualificatissime edizioni d'if. I suoi testi si trovano anche in Registro di poesia #5 a cura di Cecilia Bello Minciacchi. Mi sembra un ottimo inizio.














MATRIOSKA


vado contro natura vedo scuro e scrivo
                                      più sicura     
sparlo sputo inchiostro mai sragiono
sono in me sono in me sono in me        super-me
           
rimo su per giù      gesticolo di lingua
                          faccio giochi gutturali
testicolo di testa   dico sì dico no se no
                           sposto parole a posto         
sgrammatico se è troppo statico
e tolgo il doppio strato arrostito andato schiantato
riscontro artrosi d'animo  
gentile un po' senile babelico infantile
d'impolso tiro il sasso rompo l'osso poco sacro
                                             e il masso scasso  
mi resto in mano e in alto mare
calmi gli altri gli arti gli alti
                                            mi alzo anch'io
ma annaspo affogo e mi ricordo son di legno
                               che galleggio fino al segno           
                                     della fine che fa STOP          



INSTANZA


resto in piedi coi piedi
                                    (e con le mani in mano)      
mi hai scucito le briglie ai vestitini
                         e me ne sto precisamente nuda
                                         (non un filo coperto)
si alza un poco la fronte
                                    (il naso lo lascio dov'è)                        
e la mano in bocca non è la mia     
            mi tengo qualche voglia
                                       per l'inverno
(e qualche maglia
                          per non essere rosa carne)

mercoledì 12 dicembre 2012

"La poesia del giovedì" all'Osteria da Filo: Roberto Cescon

Inizia domani la rassegna "La poesia del giovedì" curata da Maddalena Lotter e Giulia Rusconi. Con cadenza quindicinale l'Osteria da Filo (ex Poppa) a Venezia (Santa Croce 1539, Campo San Giacomo dall'Orio) ospiterà le voci dei poeti invitati dalle curatrici. Visto che non di rado i poeti leggeranno dai lori libri brevi, Librobreve dà un piccolo contributo nella comunicazione e nella promozione della rassegna ricordando, in prossimità di ogni appuntamento, il poeta invitato con una breve nota e soprattutto con alcune poesie.


Giovedì 13 dicembre 2012
Osteria da Filo, Venezia, h. 19:00
Presentazione e reading di Roberto Cescon
Alla tromba: Duccio De Rossi
info: portalepoesie@gmail.com


Roberto Cescon è nato nel 1978 a Pordenone, dove vive e insegna. Ha pubblicato “Vicinolontano” (Campanotto, 2000) e il saggio “Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuali sulla poesia di Franco Buffoni” (Pieraldo, 2005). Partecipa come organizzatore a Pordenonelegge.it e alla festa di poesia di Pordenone. Suoi racconti sono apparsi nell’antologia “Scontrini” (Baldini&Castoldi, 2004), nella rivista “Tina” e su www.ombelicale.it. Il suo volume edito da Samuele Editore nel 2010, “La gravità della soglia” (collana Scilla n°8), è prefato da Maurizio Cucchi e recensito per il Corriere della Sera da Ottavio Rossani.













Due poesie di Roberto Cescon (uscite su "Atelier")


LA DIREZIONE DELLE COSE


La mano sulla sveglia ferma la notte
nel tempo che ancora ci prendiamo.
La tapparella taglia i contorni.
L’acqua nel termosifone è l’inizio
del giorno, le cose da fare.
Se dico ciabatte, armadio, servomuto,
so come arrivare alla porta.

La direzione delle cose è nelle parole
che dico, ma esiste prima.
Quando ci colpisce, cerchiamo parole
per dirla, ma spesso non bastano.

Forse nel buio le cose
hanno una loro intelligenza
perché sono più di quello che siamo.



AMARO CON GHIACCIO


Vorrei invecchiare con questa tavolata
sabato in pizzeria, perché
siamo come sulla stessa autostrada,
ci fermiamo in autogrill diversi,
prendiamo le stesse cose, a volte no.
Non mi occorrono altre persone,
perché conoscersi è annusarsi
per non graffiarsi subito.

Parliamo di calcio, stipendi, colleghi,
dove mangiare la prossima volta,
la politica se siamo d’accordo.
Certi discorsi ormai si ripetono
perché guardiamo gli stessi tg.

Si ricordano gli anni dalle merendine
o dai cartoni, a volte esagerando.

Ognuno tiene le altre cose per sé.

Nelle loro vite c’è la direzione della mia.
Siamo diventati i mocassini
e il bagagliaio capiente
per il passeggino della Stokke.
Qualcuno vuol fare l’orto,
però non le vacanze in agenzia.
Nessuno dice mai cosa sta leggendo.
Nessuno dice cos’è fare l’orto
da quando tuo padre non fa più l’orto.

L’amaro col ghiaccio è per allungare
il tempo, abituarsi alla nostalgia.

Poi tutti salgono sull’auto che hanno.

Verso casa i commenti concludono
che in fondo noi siamo meglio degli altri.

lunedì 10 dicembre 2012

"La vita privata degli oggetti sovietici". Un libro di Gian Piero Piretto

Qualche anno fa uscì per Isbn Edizioni un libro curioso di Vladimir Archipov dal titolo Design del popolo. 220 invenzioni della Russia post-sovietica, un sorta di catalogo di oggetti nati dall'ingegno "diffuso" del popolo russo, a metà strada tra l'onirico e l'estremamente utile e concreto. Pezzi unici, trovate talvolta geniali, che rimandavano più o meno alla povertà del socialismo reale ma allo stesso tempo offrivano uno spunto eccezionale di design ecosostenibile: "design del popolo" titolava il libro, in contrapposizione al noi noto "design industriale" della produzione seriale. Ora Sironi pubblica un libro radicalmente diverso nei presupposti, eppure posto in una sorta di complementarietà con quello di Archipov. La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo, scritto in modo assai convincente da quel grande esperto di cultura russa e cultura visuale che è Gian Piero Piretto, non mancherà di colpire studiosi di cultura e letteratura russa, esperti di cultura visiva, filosofi o "semplici" collezionisti. Vi troverete in mano un volume largamente illustrato (pp.  208, euro 19,80) che racconta la biografia di 25 arcinoti oggetti sovietici, oggetti-simbolo ed entrati nell'immaginario collettivo, le cui storie sono riprese per mezzo di citazioni letterarie, storiche o attinte dal bagaglio cinematografico.

Ma quali sono questi 25 oggetti protagonisti dei brevi capitoli del libro, che invece è introdotto da una più lunga, articolata e utilissima premessa? Eccoli, in ordine di apparizione: il colore rosso, il distributore automatico di acqua gassata, il samovar, il profumo, la polpetta, il bicchiere a faccette, la contromarca (quella targhetta numerata con la quale vengono riposti un cappotto e una sciarpa al ristorante e che, nella sua apparente insignificanza, racchiude l'universo dell'intero galateo sovietico), la metro, il cadavere di Lenin, lo Sputnik, il dolce pasquale, la carta igienica, la borsa a rete, l'automobile (la Pobeda!), la vodka, il deficit, le galosce e le ciabatte, le sigarette, la moneta, la lampada, il pesce essiccato, il portabicchiere, i distintivi, lo scarafaggio ("per la pregnanza della sua identità", da ricordare la famosa poesia di Mandel'štam su Stalin) e infine i barattoli.


La prosa di Piretto di destreggia molto efficacemente tra i capisaldi che ritornano ogniqualvolta dirigiamo lo sguardo al mondo degli oggetti e delle cose. Inevitabili Baudrillard e il Foucault de L'archeologia del sapere, e ora, da qualche anno, da quando è uscito La vita delle cose, inaggirabile è pure Remo Bodei. Rimane naturalmente imprescindibile Walter Benjamin e tutto l'universo culturologico lotmaniano, unito all'apporto eccezionale della letteratura, qui segnatamente russa (Čechov, Majakovskij, Mandel'štam) e della grande tradizione cinematografica di questo paese sterminato. Ciò che interessa lo sguardo dell'autore sono semplici e quotidiane cose nella "dinamicità del rapporto diretto con i fruitori", negli anni del prolungato esperimento socialista e nella loro vita a esperimento terminato. Molto interessante poi è il rimando ad una componente "camp" della cultura staliniana, già sviscerata nella rivista Riga dall'autore. Insomma, in questa rinnovata attenzione per il mondo delle cose e degli oggetti (termini da distinguere puntualmente, visto che il primo implica affettività laddove il secondo implica puro possesso) non potete mancare questo importante capitolo scritto e illustrato da Gian Piero Piretto con larghezza e profondità d'analisi e di sguardo.

lunedì 3 dicembre 2012

Le "Sei Venezia" di Carlo Mazzacurati

Marsilio manda in libreria il documentario che Carlo Mazzacurati ha presentato fuori concorso alla 67esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (libro e DVD, euro 16,50). Sei Venezia è un titolo che felicemente gioca sul verbo essere (seconda persona singolare indicativo presente) e sul numero 6, come appunto i sestieri della città, le ore che costituiscono gli intervalli delle maree e come le storie dei protagonisti del DVD, scelti tra gli abitanti di una città che il regista sa restituire libera e vitale, fuori dai cliché del turismo di massa, in perenne contatto e conflitto con un'idea di dissoluzione che sembra essere anche il suo principio di salvezza attraverso i secoli. Il libro è corredato da una lunga e bella intervista di Sara D'Ascenzo che guida passo passo il regista nella ricostruzione del girato, delle scelte, delle scene, del prezioso contributo dei collaboratori, tra i quali va senza dubbio menzionato Claudio Piersanti. Il risultato è un film che racconta storie ed emoziona, inventando nuovamente la città d'acqua per antonomasia, la città del respiro regolare delle maree. 

Il presente simil-cofanetto era già uscito in un'edizione fuori commercio per il Consorzio Venezia Nuova, l'ente che si occupa della salvaguardia di Venezia e della laguna. L'idea di un film per coinvolgere la città nei temi della salvaguardia è antica. Antica anche l'idea di affidare il progetto a Mazzacurati. Per vari motivi, l'originario progetto del Consorzio Venezia Nuova di un film su Venezia da affidare a Mazzacurati non ebbe seguito. Molti anni più tardi, con una sceneggiatura ovviamente rivisitata, in digitale e non in pellicola, il film s'è fatto e merita l'attenzione di tutti quelli che hanno a cuore i temi della salvaguardia e del fragile equilibrio di acqua e pietra, di laguna e sestieri.


Sei Venezia è un film dove la città nota diventa sfondo e dove salgono in primo piano le storie, le persone, i volti, i lavori e le attività alle quali magari difficilmente penseremmo; è anche un film sul pudore, sulla distanza tra chi guarda e chi parla davanti la macchina da presa. Su questo punto è molto interessante una risposta dell'intervista contenuta nel breve libro:


"Il pudore è un sentimento interessante in questo lavoro, perché è un valore che stabilisce una relazione tra chi guarda e chi parla e che contempla delle necessarie omissioni, è un patto che aleggia, un tono, un equilibrio che si è creato e che magari dipende semplicemente dalla mia timidezza."

Bello anche il perimetro musicale di questo esagono, con quelle musiche di Eleni Karaindrou che magari avrete imparato ad amare tra le colonne sonore e portanti dei film di Theo Anghelopoulos e nelle puntuali riproposizioni che ne ha fatto in CD l'etichetta bavarese ECM, e che qui, in una sorta di aria bizantina che mai cede a bizantinismi, accomunano queste vicine terre di mare, questi plurali d'acque che si radunano nel singolare di un'acqua che offre sempre il motivo della bellezza specchiata e rinnovata.


Chi sono i sei personaggi? Troviamo l'archivista volontario, la cameriera dell'hotel più famoso della città, un archeologo per passione e assai competente che ha dedicato la vita al tentativo di retrodatare la fondazione della città, Carlo il pittore eccentrico che finisce ad avere sbocchi commerciali in Giappone, Ramiro l'ex malavitoso e un tredicenne che apre ad una grande tenerezza.


Nell'intervista è racchiusa anche un'importante parentesi di metacinema. Mazzacurati offre il proprio ricordo del più bel film su Venezia, il Casanova di Fellini, un film che non fu nemmeno girato a Venezia, e dove genialmente un cellophane rende poeticamente la visione della laguna congelata. Qui ritorna Andrea Zanzotto (del quale sarebbe opportuno riprendere due prose ineguagliate su Venezia contenute in Sull'Altopiano e prose varie), quella famosa lettera del regista indirizzata al poeta e pubblicata anche in Filò, quella richiesta di aiuto a "... rompere l'opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole". Un ricordo importante questo, perché collegato e in un certo qual modo parellelo alla stessa narrazione del regista padovano, alle prese con la città della dissipazione turistica.


Scrive Ermanno Cavazzoni nella sua convincente Postfazione: "La laguna è come un grande animale vivente che vive lì da alcune migliaia di anni, e che forse un giorno se ne andrà se farà troppa fatica a respirare, se il clima non gli piacerà più; e Venezia allora chissà se sarà sommersa, se sprofonderà o se diventerà una città asfaltata all'asciutto". Se ritorniamo all'incipit, all'idea originaria di questo film legato ai temi della salvaguardia possiamo capacitarci di come oggi questa "salvaguardia" passi necessariamente per una salvaguardia delle storie, del racconto, delle persone che con i propri movimenti tracciano il cardo e il decumano di uno dei più magnifici luoghi del possibile dove la vita possa riconoscere l'altro e riconoscere sé; così, anche noi, ci accorgiamo "[...] pur se quello che ci sta negli occhi sembra un sole calante, di essere stati fatti produttivamente ciechi da quell'eccesso luminoso di vita che Venezia, non assalendo, ma anzi sottraendosi nei suoi «forse» più carezzevolmente fluidi è stata e continua ad essere". Sei Venezia titola Mazzacurati con l'aiuto del produttore esecutivo Giacomo Gagliardo, Venezia, forse intitolava Zanzotto la sua prosa dalla quale ho preso a prestito la citazione finale.