venerdì 28 dicembre 2012

Curzio Malaparte ritrovato. Intervista con Franco Baldasso

Librobreve intervista #9


Franco Baldasso
Cercando notizie su alcuni libri scritti dopo la Prima guerra mondiale, si è aperta in me una voragine d’attenzione verso Viva Caporetto! di Curzio Malaparte, un libello che non può che incuriosire sin dal titolo. Ho iniziato poi a riflettere sulla rinnovata effervescenza che si registra nei confronti dello scrittore pratese, il quale fu anche abilissimo giornalista. Ho pensato allora che un tempestivo approfondimento su questo autore, su determinati libri e su questa sorta di “Malaparte renaissance” (o più semplicemente: tentativo di ricollocare Malaparte in un canone novecentesco) potevano costituire l’occasione per ospitare un’intervista a Franco Baldasso, per anni direttore della rivista daemon (la cui parabola è stata a volte ricordata su queste pagine, se non altro perché molti anni fa diedi una mano a realizzarla). Dopo un apprezzato contributo critico su Primo Levi (Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone, Pendragon, 2007), Franco Baldasso si è trasferito negli Stati Uniti, e tuttora lavora alla New York University. Con il suo progetto di ricerca, di cui ci parlerà, Franco Baldasso approfondisce un periodo cruciale della storia civile e intellettuale d’Italia, per la precisione quell'incistata fase di transizione dal Fascismo alla repubblica democratica. Ed è in questi anni che Malaparte si ritaglia un profilo di primo piano.

LB: Puoi descrivere brevemente il tuo attuale progetto di ricerca, accennare a come Malaparte si inserisca nel tuo studio, e soffermarti sul perché quest’autore costituisca davvero uno snodo chiave del periodo che prendi in considerazione?
RISPOSTA: Il mio lavoro attuale ha come titolo Against Redemption: The Debate over Italian History during the Transition from Fascism to Democracy. La mia tesi principale è che gli anni dalla caduta del Fascismo fino alla proclamazione della repubblica e al definitivo assetto dello stato italiano come democrazia parlamentare, basata nei fatti da una contrapposizione partitica netta che rispecchiava gli schieramenti della guerra fredda, siano stati in Italia un periodo di eccezionale fiorire intellettuale, del quale per decenni si sono voluti vedere solo gli aspetti esterni e per  cosi dire più populistici nel Neorealismo. Scrittori come Saba, Savinio, Berto, Carlo e Primo Levi, Brancati, Satta e Malaparte hanno dato le loro prove migliori proprio contestando l’idea di una redenzione del popolo italiano attraverso la guerra di liberazione, testimoniando altresì della continuità della cultura del dopoguerra con la cultura storica, retorica e letteraria che aveva sorretto i regimi fascista e liberale prima della rottura istituzionale dell’8 settembre. In altri termini sto riscrivendo la storia intellettuale di quegli anni partendo dalla letteratura, e non dal pensiero politico, provando come la letteratura del periodo sosteneva un dibattito intellettuale apertissimo, vivificato dalla recente liberazione, che si apriva a prospettive politiche, sociali, storiche e creative molto più varie e radicali che non nella seguente stagione di “congelamento” istituzionale e culturale dettato dal nuovo sistema partitico. 
Malaparte è una figura di spicco per la sua inclassificabilità politica ma anche e soprattutto intellettuale e letteraria. L’intensità rappresentativa e il successo internazionale di Kaputt (1944) e La pelle (1949) lo hanno fatto diventare il primo interprete mondiale delle violenze del secolo e della decadenza dell’Occidente. Primato che, se ben attestato all’estero, non trova riscontro in Italia, anche per la sua cancellazione dall’archivio nazionale dei grandi scrittori e interpreti del Novecento. Scomodo a troppi, se ne è disconosciuto il ruolo importantissimo in particolare nel momento difficile della transizione tra Fascismo e suo post. 
Vasily Grossman
Uno sguardo alle date: la descrizione dei pogrom in Est Europa e della visita al ghetto di Varsavia in Kaputt è pubblicata in un anno – il 1944 – in cui il nome di Auschwitz era ancora sconosciuto. In quell’anno solo Vasily Grossman pubblicava i suoi articoli su Treblinka sulla Pravda, mentre il primo tentativo di interpretazione di quello che sarebbe successivamente sentito come l’evento fondante della civiltà occidentale nel dopoguerra, la Shoah e l’universo concentrazionario nazi-fascista, era apparso solo un anno prima in un giornale di psicologia statunitense, a firma di Bruno Bettelheim. Nelle sue ambiguità politiche personali e nelle sue controverse qualità letterarie, Malaparte è un caso eccezionale di testimone del nostro secolo.

LB: Siamo in fase di avvicinamento al centenario della Prima guerra mondiale. Partiamo da un libro breve, uscito nel 1921, e oggi difficilmente reperibile in solitaria (è incluso nel Meridiano con il suo secondo titolo). Mi riferisco a Viva Caporetto! (poi diventato La rivolta dei santi maledetti). In questo precoce scritto sembrano già presenti i grandi temi della sua prosa, uniti a un impietoso giudizio sull'Italia. Lo confermi? 
RISPOSTA: Un testimone eccezionale dicevamo. A differenza di molti altri acclamati intellettuali italiani compromessi con il regime e che si rifaranno una verginità nel dopoguerra, da Montanelli a Piovene, Malaparte fin da giovane si butta nella mischia, partecipa alla guerra, e soli 16 anni parte per il fronte francese nella Prima Guerra Mondiale come volontario. Combatte in seguito sul Grappa, e viene rispedito ad Ypres nel 1918 a contrastare l’ultimo attacco germanico e a rovinarsi i polmoni con i gas tossici. Questa nota conferma la sua adesione anche ingenua alla lotta, anzi alle lotte del secolo, alla sua volontà di essere non solo attore, ma testimone scomodo. Tanto scomodo che, nel dopoguerra, infiammerà gli animi in Italia con questo libello provocatorio fin dal titolo, ma che vale senz’altro una lettura attenta. Viva Caporetto! è un’impietosa denuncia delle tragiche contraddizioni di quella guerra, è un seguire la mente, esprimere le paure dei soldati mandati al massacro, portare alla ribalta i rancori di un’intera generazione che ha perso se stessa nella guerra e si sente defraudata del proprio futuro nel primo dopoguerra. Non dimentichiamo che Malaparte all’uscita di questo libro aveva già aderito al Fascismo, di cui diverrà, come scrive Gobetti “la miglior penna”. Il dato è eccezionale perché il libro sputa proprio sulle falsità della rigenerazione della nazione attraverso la guerra, mito di fondazione tra l’altro dell’ideologia fascista. Malaparte tuttavia aderisce al Fascismo con tutto se stesso: come molti altri intellettuali dell’epoca in cerca di fama (e di un posto al sole) vede Mussolini come l’uomo forte, e il suo movimento come la necessaria rivoluzione sociale e politica.

LB: Viva Caporetto! non è il solo libro di Malaparte che meriterebbe una riproposizione “stand alone”, quel tipo di pubblicazione in grado di alimentare un dibattito, una discussione (senza nulla togliere a un Meridiano, che però soffre inevitabilmente della sua indole "antologica").
Edizione Bompiani de
Il volga nasce in Europa
RISPOSTA: Malaparte ha vissuto varie vite. Il lato forse più odioso del suo carattere e del suo essere intellettuale pubblico non è il camaleontismo che più colleghi gli hanno rinfacciato (dal suo libro Don Camaleo, che in realtà era una satira dello stesso Duce), ma il suo inarrestabile narcisismo e quello che oggi chiameremo presenzialismo, fino ad anticipare nei suoi articoli sul “Tempo” negli anni ’50 i moderni, ma senza una virgola del suo talento, tuttologi (e si badi bene, alla sua morte la rubrica verrà ripresa sulle stesse pagine da un certo Pasolini…). Molti dei suoi libri sono tentativi di compromesso con queste sue posizioni discutibili. Ma altri come Il Volga nasce in Europa, o Mamma marcia, fino alla pièce teatrale Das Kapital sulla vita e le contraddizioni di Marx, sono sorprendenti anticipazioni dei grandi dibattiti del dopoguerra. Dal significato storico del comunismo e degli altri totalitarismi, all’impossibilità di un concetto forte di patria per l’Italia del secondo dopoguerra e alla necessaria apertura europea alle vicende (e culture) del nuovo ordine globale. Quando riesce ad essere osservatore ed interprete della storia e conciliare la sua invadente biografia con gli eventi narrati, Malaparte ha una capacità di focalizzazione e di sintesi straordinari. Tutti i libri citati andrebbero ripubblicati e meditati.

LB: Allo stesso tempo esiste una rinnovata attenzione diretta a Malaparte. Penso naturalmente all'azione di Adelphi, che dura già da qualche anno: La pelle, Kaputt e il recente Il ballo al Kremlino. Perché? Perché proprio oggi, in questo frangente di storia? Dobbiamo imputare anche allo scenario europeo di oggi questa "riscoperta"? 
Probabilmente è importante anche l’attuale attenzione all’estero – penso soprattutto in Francia – per lo scrittore. Malaparte può forse essere letto oggi con maggiore obiettività, puntando magari l’attenzione su motivi più consoni al dibattito attuale come la biopolitica e l’incontro imprevedibile delle diverse civiltà globali, di cui ha fatto diretta esperienza nelle sue corrispondenze e nei suoi libri.

LB: C'è chi ha dedicato anche una corposa biografia allo scrittore di Prato. Penso a Maurizio Serra, rappresentante permanente dell'Italia presso l'Unesco. Cosa ci racconti del suo Malaparte. Vite e leggende, uscito in realtà prima in Francia, per Grasset e vincitore del Premio Goncourt de la Biographie?
La biografia di Serra
uscita per Marsilio
RISPOSTA: La biografia di Serra è probabilmente oggi il più interessante e acuto studio sulla letteratura di Malaparte. Dico questo a scapito dell’enorme lavoro archivistico e delle testimonianze raccolte dall’autore (anche una pregevole lettera inedita di Henry Miller a Malaparte, stampata in appendice) e della fine cultura dell’autore. Il libro si legge benissimo, come il romanzo di una vita – di più vite intrecciate – di un personaggio scomodo e teatrale, che però in qualche modo si cela sempre al nostro sguardo, proprio mentre si atteggia sotto i riflettori. Ma voglio ritornare sulle pagine dedicate da Serra ai libri di Malaparte perché sono di un’apertura ermeneutica davvero notevole. Dico questo perché non esiste uno studio moderno e veramente aggiornato in Italia sullo scrittore pratese che possa reggere il confronto con la capacità critica di Serra. Per quanto riguarda il lato più propriamente storico-biografico questo nuovo lavoro supera il precedente e pregevole L’arcitaliano di Giordano Bruno Guerri per la mole enorme di testimonianze orali e per l’acutezza interpretativa dell’autore.

LB: Scrittori-giornalisti. Quali sono i tratti essenziali del rapporto tra il giornalista e lo scrittore Malaparte? Quali luci getta poi, ad esempio, la lettura delle sue corrispondenze di guerra dal fronte russo?
Come giornalista Malaparte era fuori del comune, e anche una gran primadonna. Nelle sue corrispondenze dall’Ucraina e da Leningrado sotto assedio riesce a farsi pagare anche per gli articoli che il Corriere non può pubblicare per la censura di regime. Nel frattempo, spedisce gli stessi articoli che pubblica sul giornale milanese rimaneggiati, e con l’aggiunta di foto reportages, ad altri periodici. O per la sua personale rivista Prospettive, che fa lavorare Moravia come editorialista nonostante le leggi razziali o pubblica a pochi mesi dalla “pugnalata alla schiena” dell’autarchica Italia alla Francia un numero monografico sul Surrealismo francese, o le prime traduzioni di Finnegans Wake di Joyce…
Quando si parla del proto anti-fascismo di un Pavese o di un Vittorini con le traduzioni di Americana, si dovrebbe non solo considerare il coraggio e l’apertura intellettuale di Malaparte, ma anche leggere gli imbarazzanti diari di Pavese allo scoppio del conflitto o il fatto che a guerra ben inoltrata Vittorini rappresentasse l’Italia fascista nel congresso degli scrittori dei paesi aderenti all’Asse…
Curzio Malaparte
Per quanto riguarda gli articoli dal fronte russo, poi ripubblicati in Il Volga nasce in Europa, di cui auspichiamo finalmente una edizione critica, Malaparte distanzia incomparabilmente i vari Montanelli o Virgilio Lilli, anch’essi inviati speciali in altri teatri dello stesso fronte. Se i primi sono tutti attenti a ricalcare la retorica ufficiale, come lui stesso scrive al direttore del Corriere, Aldo Borrelli, Malaparte si rifiuta di ricopiare “le circolari degli uffici stampa di Berlino”. Attento a non scomodare gli allora trionfanti tedeschi, volge però l’attenzione sull’organizzazione sociale, sullo spirito comunitario, sugli effetti nel popolo e nelle truppe della rivoluzione sovietica. Parla di una nuova morale, della morale operaia come etica del mondo moderno. È evidente che corrispondenze del genere non possono piacere alle veline dei regimi, anche perché l’acume di Malaparte sta tutto nelle due frasi che mai pronuncia nei suoi articoli: che l’URSS potrebbe non perdere, e che l’Italia fascista, in questo scontro all’ultimo sangue tra i due totalitarismi del Novecento, è solo una comprimaria. L’Italia, come farà dire memorabilmente a Galeazzo Ciano nel 1943 in Kaputt, è il solo paese insieme alla Polonia che sicuramente “ha già perso la guerra”.

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