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venerdì 20 aprile 2018

"Anonimo veneziano" di Giuseppe Berto: dai dialoghi per il film e il teatro al romanzo che lavora negli spazi tra i dialoghi

Ad un certo punto de Il dilemma Giorgio Gaber canta "l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo". È una bella canzone sulla coppia, che mi pare abbia qualcosa da dire su questo "tema". Può capitare di ripensarla leggendo questo libro. Non so quanti libri oggigiorno dicano qualcosa di interessante sulla coppia o sulle coppie. So che a suo tempo qualcosa di interessante lo disse Giuseppe Berto con Anonimo veneziano, inizialmente film del 1970 diretto da Enrico Maria Salerno per il quale Berto scrisse la sceneggiatura e i dialoghi. Di lì a poco, nel 1971, il testo uscì anche come "Testo drammatico in due atti". Solo nel 1976, direttamente nella collana BUR, e curiosamente sollecitato dal lavoro della traduttrice inglese Valerie Southorn che ne aveva ingegnosamente trasformato le didascalie teatrali in qualcosa di più vicino a un romanzo, il testo approdò alla versione di romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. Possiamo leggerla nuovamente oggi, nell'anno del quarantennale della morte dello scrittore, anche in questa nuova edizione di Neri Pozza (pp. 112, euro 15, con introduzione di Cesare De Michelis e con la prefazione dell'autore all'edizione del 1976). In questo libro Berto consegna una Venezia "anonima" e inedita, come ha ricordato Diego Valeri. I giochi metaletterari con Thomas Mann de La morte a Venezia o con John Ruskin de Le pietre di Venezia sono sostanza della descrizione che interessa la città della laguna, colta già nel suo cancro conclamato. Ma vi sono i giochi interni e i fraseggi musicali con il compositore Alessandro Marcello, fratello meno fortunato di Benedetto, eppure autore di quel capolavoro di concerto del 1717 che diventa colonna sonora della parte finale e della scena conclusiva del libro. Del resto la storia, abbastanza nota ormai dopo quarant'anni di buon successo cinematografico e librario, ci mostra all'inizio un genio un po' sgualcito "che non ha avuto molta fortuna" - proprio come Alessandro Marcello - mentre aspetta l'ex moglie in arrivo col rapido da Milano a Venezia Santa Lucia.

L'inizio vero in realtà è una breve descrizione di una Venezia brulicante, dove la gente fa le cose di ogni altra gente, ma con parvenza di commedia, quasi "un invito affinché la morte facesse più in fretta". I ratti, spesso nominati nel testo, vanno moltiplicandosi in attesa sotto i ponti. Gli avvallamenti delle pietre si sentono sotto i piedi. Il protagonista ringrazia l'ex moglie per essere venuta, anche se lei non conosce il motivo della chiamata. Non sanno bene dove andare. E così, lasciando la stazione dei treni, s'incamminano per qualcosa che è poco più di mezza giornata da trascorrere assieme, con l'orario dei treni per il ritorno a Milano a far da orizzonte, quasi una ghigliottina variabile e visibile che incombe sullo sviluppo della vicenda. Si può dire altro, e in fondo non c'è tanto da "spoilerare" in una storia ormai abbastanza nota che all'epoca fece scalpore anche per le assonanze con il film Love Story. I due hanno avuto un figlio e da otto anni non si vedono. Lei ha scelto di sposare un uomo ricco e di vivere a Milano. Da quest'uomo ha avuto una figlia. Prendono un vaporetto, vanno a consumare assieme un pasto in una trattoria che offre loro un piatto scadente. Tornano a camminare, lui ogni tanto le scosta i capelli e sente il bisogno di sfiorarla, litigano e parlano ancora, alternano freddezza a slanci dove sembrano capirsi. Infine si dirigono verso la casa di lui e alle prove finali per la registrazione del concerto di Alessandro Marcello nel quale lui ha la parte prominente dell'oboe. Pensando alla registrazione del concerto lui pensa al figlio. 

Sui dialoghi si dovrebbe spendere una frase in più, anzi, leggendo questo libro è utile prestare attenzione proprio allo spazio tra i dialoghi. Perché se è vero che quest'opera nasce per il cinema e quindi si concentra primariamente sui dialoghi e sulla sceneggiatura, la grandezza di Berto nella stesura del romanzo breve del 1976 è stata invece quella di inserirsi e lavorare nello spazio che sta tra i dialoghi. Mi capita di riscontrare - ma potrei essere solo in questo rilevamento - che i dialoghi di tanta prosa contemporanea rendono spesso un personaggio un po' più o un po' meno di quello che è, lo incalcano e deformano. Insomma, la massima mimesi della parola in presa diretta, in narrativa, rischia di diventare il massimo imbroglio (pensiamo poi anche al gigantesco problema affrontato dal cinema e dai doppiaggi). Quello che ha saputo fare Giuseppe Berto in Anonimo Veneziano del 1976 e ciò che costituisce la grandezza di quest'opera è lo sforzo di scrittura che l'autore ha messo tra un dialogo e un altro, tra una battuta e l'altra. Lo ha fatto ora per correggere un tiro, ora per depistare, ora per farci dubitare, ora per plasmare scultoreamente le poche ore di vita assieme di questa ex coppia che ritorna appunto coppia per qualche istante. Farlo senza portarsi dietro le prime destinazioni d'uso del testo è il prodigio contenuto in questo libro breve.

A indagare meglio scopriamo che il protagonista, malato di cancro e prossimo alla morte, ha chiesto all'ex moglie di raggiungerlo a Venezia proprio per parlare. In un passo, che tra l'altro ricorda così bene il frammento di Gaber, si legge:
«[...] C'è un canale con tutte gondole ai lati, messe a riposo per l'inverno. E case modeste, come di campagna, e campielli con biancheria ad asciugare, e bambini che giocano al pallone. Passeremo di qui, mi dicevo, guarderemo tutte queste cose e parleremo. Non abbiamo mai veramente parlato, noi due. Abbiamo sempre fatto l'amore o litigato. Questa volta mi sarebbe piaciuto parlare di cose qualsiasi, le più stupide possibile per non trovar da discutere, e tu avresti capito, dopo. Dopo avresti capito, ma senza soffrire molto, e magari me ne saresti stata grata, mi avresti ammirato. Invece ci siamo messi a litigare come il solito, e poi, al primo momento buono, t'ho spiattellato: guarda che sto morendo. Non sono cambiato. Autocompassione, narcisismo, insicurezza, le piccole astuzie di tutti i bambini che vogliono attenzione e simpatia. Non ce l'ho fatta a crescere, io.»
Amore e morte, ancora una volta. L'ennesima. Morte e dialogo: l'ennesimo dialogo con la morte. Anni prima della legge sul divorzio Giuseppe Berto ha intercettato alcune linee di forza essenziali sul discorso che riguarda la coppia, duratura o effimera che sia, sulla sua necessità o meno. Lo ha fatto trasformando una storia di un film in un libro che si conclude davvero in musica, dove la finalità irrimediabile di ogni parola da scegliere è diventata per l'autore un "piacere tormentoso" e lungo. Il finale, soprattutto per quell'avverbio abbastanza sul quale è posta la parola FINE, merita anch'esso di essere riportato. Lei ha appena abbandonato le prove per tornare a Milano, dopo aver rinunciato a rimanere con l'ex marito morente. L'orchestra può quindi rimettersi a suonare, dopo aver sbagliato una prova (il corsivo è mio):
Di nuovo sono lì, immobili nella breve ed interminabile attesa, e più facile è la concentrazione, dato che l'estranea è andata via. Al suo cenno gli archi cominciano, dapprima appena percettibili, poi più sicuri nei lenti accordi d'attesa. E lui attacca, la nota ferma, seguita con necessità e precisione dalle altre, nell'antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d'una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza.



Alessandro Marcello, Oboe Concerto in D minor
Heinz Holliger, oboe
I Musici
Registrato nel luglio 1986 
a La Chaux-de-Fonds, Svizzera

venerdì 9 giugno 2017

"The Lunatic" di Charles Simic

Effettivamente, nonostante l'attenzione che l'editoria nostrana ha dedicato costantemente a Charles Simic (da ultima la recente raccolta di scritti La vita delle immagini per Adelphi), mancava la traduzione di The Lunatic uscito nel 2015. La versione italiana, proposta senza interventi di traduzione del titolo originale, è messa a disposizione con testo a fronte da Elliot, per la cura di Paolo Febbraro e con le traduzioni di Damiano Abeni e Moira Egan (186 pagine al prezzo di 25 euro). Il poeta nato a Belgrado nel 1938, che a guerra finita trascorre cinque anni a Trieste prima di trasferirsi stabilmente negli Stati Uniti per iniziare una lunga carriera non solo poetica, è uno di quelli che oggi metterebbe in crisi i convinti discorsi sulla tecnica poetica. In una dichiarazione ricordata anche dal curatore, Simic ha infatti affermato che "non c'è alcuna preparazione per la poesia", distogliendo così, almeno apparentemente, l'attenzione da un aspetto "tecnico" del fare poesia che almeno in Italia sembra aver ripreso piede nelle discussioni che s'adoperano e s'affannano a separare il grano dal loglio, i poeti veri dai presunti, quelli bravi da quelli meno bravi. Ma Simic è uno di quegli autori che ha troppa strada e mestiere alle spalle perché possiamo imbrogliarci a seguirlo troppo in questi ragionamenti pure un pochino depistanti, tra la provocazione e la frase ovvia disarmante. La sua molta poesia (ha scritto davvero tanto) si nutre di un realismo immaginifico addomesticato da sonnambulismo malinconico, di collage di fenomeni disparati e lontani che s'agglutinano improvvisamente nella sua gelatina cerebrale e quindi sonora. Paolo Febbraro così ha chiuso la sua nota di apertura intitolata "Poesia e combinazione":
Le poesie di Simic somigliano a un filosofo gioiosamente materialista che comincia a esprimersi suonando un sassofono jazz, inanellando mille note di scombinata compattezza. Nessuna metafisica ingombrante, nessuna saturazione: con la briosa malinconia di Simic possiamo e vogliamo convivere, respirando a pieni polmoni e facendo ampio esercizio di esperienza. Simic sta sveglio di notte, continuamente colto di sorpresa da milioni di cose già note, per moltiplicarsi e continuare a trovare sé stesso in quel gran rimescolio. Del resto, quando si fa sera, sono gli animali notturni a farci sapere che il mondo esiste ancora, nonostante tutto.
The Lunatic (ho letto in qualche sito che dovrebbe essere il suo trentaseiesimo libro di poesia) è una serie di componimenti abbastanza brevi scanditi sempre da titoli nei quali fanno capolino situazioni tipiche, luoghi e spesso animali. Quel che va detto è che il lavoro di traduzione a quattro mani ancora una volta è egregio e lo vorrei esemplificare con un breve testo, forse il più breve di tutti, che però la dice lunga anche sul mutamento acustico che subiamo nel passaggio da una lingua con molti monosillabi a una lingua notoriamente povera di parole monosillabiche. In As I Was Saying Simic scrive Simic:

That fat orange cat
Slipping in and out
Of the town jail
Whenever it pleases,
How about that?

In italiano la poesia diventa, in Come stavo dicendo, una rotonda cantilena di diverso tempo eppure consistente, persino fedele:

Quel gattone arancione
che sguscia dentro e fuori
dalla prigione comunale
come e quando vuole,
mica male eh?

Questo è un aspetto importante, fondamentale: sapere di potersi fidare di traduttori in grado di scelte coerenti e coraggiose dovrebbe essere in cima alla lista di ogni preoccupazione editoriale, prima ancora della scelta del nome del curatore. 

Simic, così come Matthew Sweeney, poeta irlandese da lui apprezzato e non tradotto in italiano, ha una predilezione per lo strano, lo strambo. Se in pubblicità esiste lo schema AIDA da applicare a uno spot (Attenzione - Interesse - Desiderio - Azione), Simic a volte pare applicare qualcosa di simile quando tratteggia una scena con pochi colpi, la circonda di curiosità e desiderio, facendo breccia sulla nostra azione, che resta, in ultima istanza, quella di leggere i suoi libri. Va da sé che questo schema può stancare e non appassionare chiunque, ma anche in questa nuova opera lui pare farcela nuovamente soprattutto ad attirare l'attenzione e a suscitare interesse. Penso a testi come "Un nuovo taglio di capelli", "Non dare un nome ai polli", "La medium" o "Questo paese non è male". Sempre Febbraro ha scritto che "sulle bancarelle improvvisate dei suoi versi Simic registra la presenza di quanto è stato scaricato di senso, depotenziato, e che pure reca le impronte digitali di una Storia minuscola, polverizzata, ma integralmente sentimentale".

Fa specie, sia detto in chiusura, leggere le presentazioni che i siti degli editori stranieri dedicano ancora ai poeti affermati. Anche nel caso di Simic non si contano le frasi di ridondanza legate alle citazioni dei premi, all'affermazione del poeta lungo tutta una carriera puntellata di successi, le sue abilità di deliziare con tocchi pittorici. Fuori dai nostri confini non è caduta in disuso nemmeno la dicitura "Poet laureate" che qui da noi ha avuto funerali precoci e solenni con Montale. Fa quasi impressione questo divario di considerazione. Allo stesso tempo io non so come prenderla e tutto ciò non mi pare degno di approfondimenti che vadano oltre questa mera constatazione di differente trattamento. Insomma, non ci elucubrerei troppo e non trarrei affrettate conclusioni sullo statuto o sul ruolo del poeta (portiere, ala, attaccante, quarterback?). Da noi, quando si pensa al poeta, c'è sempre più il rischio di pensare qualcosa di simile all'intellettuale così come lo cantava Gaber ("non credo più all'ingegno del popolo italiano / dove ogni intellettuale fa opinione / ma se lo guardi bene / è il solito coglione"). Parimenti esiste la liberazione di credere, sempre con qualche riga di Gaber, che "rispetto agli stranieri / noi ci crediamo meno / ma forse abbiam capito / che il mondo è un teatrino". A volte, non sempre (solo a volte, eh, sia chiaro) teatrino un po' lo è.

martedì 30 luglio 2013

Giulio Casale e una vecchia intervista su "Intanto corro"

Librobreve intervista #17 / Ripescaggi #28


Sabato 3 agosto al teatro Manzoni di Paese (Treviso) potrete ascoltare Giulio Casale e il suo Da Gaber al futuro. L'occasione di questo spettacolo mi ha fatto tornare alla mente una vecchia intervista che feci al cantante degli Estra qualche anno fa per la rivista "Che libri". Era da poco uscito un volume di racconti dal titolo, per me irresistibile, di Intanto corro e quei racconti costituivano il filo di quella nostra breve conversazione. Giulio Casale (Treviso, 1971) è figura pressoché unica nel panorama italiano: attore, scrittore, cantautore,  interprete della complessa arte del teatro-canzone. Negli anni Novanta è protagonista della scena musicale quale leader del gruppo rock Estra, con cinque album all’attivo. Nel 2000 pubblica il libro di poesie Sullo Zero. Al disco omonimo che ne documenta il reading dal vivo vengono assegnati il Premio Mariposa (2002) e la Targa Premio Grinzane Cavour (2003). Nelle stagioni teatrali 2006/2008 propone nei teatri italiani Polli di allevamento di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, spettacolo premiato come miglior atto di prosa del 2007 con il Premio Enriquez. Ha elaborato drammaturgicamente i testi di Mario Capanna sul ’68 per lo spettacolo Formidabili quegli anni, da lui stesso interpretato, che ha debuttato al Teatro Strehler di Milano nella primavera del 2008. È traduttore dei testi di Jeff Buckley (Dark Angel, 2007). Intanto corro, il libro uscito per Garzanti nel 2008 (pp. 144, euro 11,90, ancora in commercio), costituisce il suo esordio narrativo.

Smarrirsi e ritrovarsi nella città dell’ultimo uomo
Intervista a Giulio Casale
di Alberto Cellotto

AC: Partiamo da una cosa che si legge nei ringraziamenti di Intanto corro. Lei ringrazia Anna Maria Carpi, una tra le più importanti voci della poesia italiana, per averla distolta, durante un viaggio in treno, dalla "concettualità". Com'è andata effettivamente?
GC: Era subito dopo il bel riscontro che avevo avuto con le poesie di Sullo Zero, mi ero preso la briga di elaborare una lunga prosa che potesse essere una sorta di “come io vedo il mondo”. Lei fu molto benevola e affettuosa, lesse il tutto e mi consigliò di volgerlo in senso narrativo, lasciando che le mie idee trasparissero dal racconto e non viceversa. Ci sono voluti anni e alla fine eccoci qua. Ma Anna Maria non lo sapeva che Intanto Corro nasce da quel lontano suggerimento. Io pago sempre i miei tributi, e l’ho voluto scrivere in appendice, in segno di gratitudine, e di vera stima, non solo artistica.

AC: Intanto corro è un esordio narrativo che arriva da un artista che ha davvero provato molte strade e tutte con successo di pubblico e critica. Ma come è arrivato a scrivere racconti? Ci pensava da molto?
GC: Ho sempre scritto, fin dal liceo, ogni sorta di genere: la scrittura, l’autentica “passione” (il patire) per la pagina, per la parola esatta da scrivere è propriamente ciò che tiene insieme le mie diverse anime. Anche l’amore per il teatro forse viene dalla forza (a volte sconvolgente) delle parole, meglio se pronunciate nel buio, se rompono un silenzio perfetto. Perciò sì, ci pensavo da molto, perché scrivo da molto, poi la vita è fatta di occasioni e questa, arrivata grazie all’editore Garzanti, mi è sembrata semplicemente bella, e ancora una volta “appassionante” al punto giusto.

AC: Questi racconti si rivolgono al lettore nella loro brevità, incisione e varietà di temi e situazioni. C'è un tema che le piacerebbe continuare ad esplorare in una forma di più ampio respiro?
GC: In generale il filo rosso che lega tutto quanto io abbia prodotto sin qui mi pare sia l’attenzione al nostro “di dentro”, al nostro smarrirsi e ritrovarsi, anche un po’ misteriosamente, e non senza dolore, ahimè. Diceva Céline: come lavoro ce n’è per una vita intera. In particolare il tema della morte, della nostra incapacità di com-prenderla, di accettarla, lì i motivi sono infiniti, davvero.

AC: Intanto corro è un titolo fortemente provvisorio, con quell'avverbio posto in posizione iniziale. C'è una sensazione di forte provvisorietà nei racconti del libro, c'è attenzione alle mutazioni grandi o piccole che caratterizzano quest'epoca e i nostri paesaggi, mentali o esterni che siano. Ma c'è anche un senso di stordente fissità, di immobilità quasi come le mutazioni continue del reale producessero un effetto a somma "zero". Si ritrova in questa osservazione?
GC: Sì, direi di sì. In molti racconti ciò che prevale è un senso di azzeramento finale rispetto al nostro aver tanto progettato, architettato,  incanalato percorsi individuali in gabbie sicure e moderne che però mostrano tutta la loro fragilità in momenti decisivi, direi “rivelativi”. Lo stile doveva essere in grado di rendere conto di tutta questa complessità, a maggior ragione dato che si tratta spesso di situazioni tratteggiate con la massima sintesi possibile. La provvisorietà è per me un sentimento ambivalente per eccellenza: noi umani siamo provvisori costitutivamente, ma è proprio in questa parzialità, e però in questa consapevolezza che si può dare, e magari diventare, un raggio di luce, per sé e per gli altri.

AC: Da leader di un gruppo rock in un’epoca pre-mp3 ad autore della contemporaneità dei nuovi media. Un cambiamento che ha mutato anche il suo modo di rapportarsi con le persone che la seguono e la stimano da tempo? Che rapporto ha con queste?
GC: Continuo ad essere molto poco affascinato dai nuovi media. Li uso, li frequento come si frequenta un centro commerciale…

AC: Una cosa che mi ha colpito subito leggendo il suo libro è che si presenta popolato di personaggi di tutte le epoche. Sembra quasi che ogni fascia anagrafica trovi posto nei racconti (dall'adolescente, ad un ipotetico suo coetaneo, alle persone più anziane). Tra queste età, ce n'è una che la incuriosisce in particolar modo dal punto di vista della ricerca artistica, un'età nella quale ravvisa degli spunti interessanti per leggere il nostro tempo?
GC: I due estremi mi paiono altrettanto significativi, e perciò su di loro ho insistito un po’ di più nel libro: gli adolescenti e gli anziani. I primi del tutto in balìa della contemporaneità, indecisi fino all’osso se combatterla o sguazzarci dentro, sperando ancora e soltanto nel “successo”, e i secondi un po’ spaesati un po’orgogliosi di aver saputo tener duro, di aver resistito a tanto, anche a tanto orrore, con davvero infinite storie da raccontare, storie che a un ragazzo, oggi, suonano proprio come storie dell’altro mondo…

AC: Milano, anche se non da sola, ha una parte importante nel libro, nonostante sia questo un libro itinerante dove la strada diventa spesso protagonista. Lei ha vissuto per molti anni anche nella provincia (in molti ricorderanno l'album Nordest Cowboys dei suoi Estra) prima di spostarsi a Milano. Come ha influito questo trasferimento nel suo percorso di avvicinamento alla narrativa? Che rapporto ha con due città diverse come Treviso e Milano?
GC: Milano, come dice Milo De Angelis, è “la città dell’ultima volta”, e io aggiungerei dell’ultimo uomo, avamposto di una decomposizione soggettiva che non può che essere insieme anche una ennesima trasformazione: dal mio punto di vista Milano è il set ideale per quasi ogni vicenda, metropolitana e non solo. Ammetto che forse non avrei scritto lo stesso a libro, seduto alla finestra di una stanza trevigiana… E, se può interessare, da quando sto a Milano (dall’inizio del millennio) sono molto più prolifico, forse molto più sollecitato da una realtà concreta che non è affatto quella delle cronache o dei tiggì. Direi che l’unico racconto in qualche modo riferibile alla sociologia del Nordest d’Italia è quello intitolato Tornando indietro.

AC: Sta portando in giro Intanto corro con diversi reading musicali. Ha già detto che la forma del reading musicale le è particolarmente congeniale, che per lei è stata quasi una scoperta ai tempi di Sullo Zero. Può dirci perché? Cosa accade di particolare in questi momenti?
GC: Accade che la parola scritta diventa suono. Accade silenzio, dialogo tra chi ascolta e me che è innanzitutto intessuto di pause, di vuoti così intensi da far tremare. Poi io non scrivo un racconto pensando che dovrò leggerlo ad alta voce, non mi sfiora, è qualcosa che avviene dopo, direi molto tempo dopo, quando un libro è finalmente fuori di me, del tutto o quasi.

AC: Ci indica i titoli di tre libri che ultimamente l'hanno particolarmente colpita?
GC: L’ultimo di Marco Lodoli, Sorella, è davvero bellissimo, oltre alla figura umanissima e infine perfetta della suora c’è questo personaggio non protagonista maschile degno del più grande cinema. In poesia sono ancora alle prese con l’opera omnia di Milo De Angelis, c’è tanto da scavare lì dentro, non trovo ancora il fondo. Poi Houellebecq, che mi pare confonda ancor più le acque con questo saggio La ricerca della felicità, ma sento che col suo cervello devo farci i conti, in un modo o nell’altro.

AC: Scorrendo la sua bibliografia recente, non è difficile notare la presenza di due numi tutelari nel suo percorso d'artista. Da un lato Giorgio Gaber e il teatro canzone che lei sta riproponendo con successo, dall'altro Jeff Buckley, la cui breve parabola poetica e musicale ha segnato profondamente gli anni 90. Facciamo un esperimento mentale e facciamo incontrare Giorgio Gaber e Jeff Buckley. Secondo lei cosa farebbero, di cosa parlerebbero? In altre parole, cosa accomuna la loro arte se qualcosa di accomunante c'è, o, diversamente, cosa tiene assieme in una fusione Giulio Casale della loro opera?
GC: In loro convive la fatica della ricerca e l’essere infaticabili, rigorosi nelle coraggiose prese di posizione e nell’arte che da lì scaturisce. Certo, per molti versi sono imparagonabili, ma c’è un individualismo così forte in entrambi (che a me sa già di liberalesimo, in tutti i sensi) e una così palpabile tensione verso il bello ed il giusto (per tutti) che mi sa che non sarebbe impossibile un’intesa, un dialogo che sarebbe innanzitutto un dialogo intergenerazionale oltre che internazionale. Gaber poi deve molto a Brel, e Brel come il giovane Buckley dava l’idea di cantare tutte le volte come se potesse essere l’ultima. E qui mi ci ritrovo anch’io, ecco, direi da sempre.

AC: Per finire un richiamo alle origini. Lei è laureato in filosofia. In che modo questi studi hanno fatto da contrappunto alla sua poliedrica figura di artista (da cantante ad attore, da poeta-traduttore a narratore)?
GC: Credo davvero che senza quello, senza quel percorso di conoscenza tortuoso ed eccitante, la mia arte sarebbe poca cosa, o troppo istintiva per pretendere grazia. Ma delle cose così preziose si parla poco, e con parole che accennano appena, se no già è un tradimento. Perciò mi fermo qui, grazie.