Le poesie di Simic somigliano a un filosofo gioiosamente materialista che comincia a esprimersi suonando un sassofono jazz, inanellando mille note di scombinata compattezza. Nessuna metafisica ingombrante, nessuna saturazione: con la briosa malinconia di Simic possiamo e vogliamo convivere, respirando a pieni polmoni e facendo ampio esercizio di esperienza. Simic sta sveglio di notte, continuamente colto di sorpresa da milioni di cose già note, per moltiplicarsi e continuare a trovare sé stesso in quel gran rimescolio. Del resto, quando si fa sera, sono gli animali notturni a farci sapere che il mondo esiste ancora, nonostante tutto.The Lunatic (ho letto in qualche sito che dovrebbe essere il suo trentaseiesimo libro di poesia) è una serie di componimenti abbastanza brevi scanditi sempre da titoli nei quali fanno capolino situazioni tipiche, luoghi e spesso animali. Quel che va detto è che il lavoro di traduzione a quattro mani ancora una volta è egregio e lo vorrei esemplificare con un breve testo, forse il più breve di tutti, che però la dice lunga anche sul mutamento acustico che subiamo nel passaggio da una lingua con molti monosillabi a una lingua notoriamente povera di parole monosillabiche. In As I Was Saying Simic scrive Simic:
That fat orange cat
Slipping in and out
Of the town jail
Whenever it pleases,
How about that?
In italiano la poesia diventa, in Come stavo dicendo, una rotonda cantilena di diverso tempo eppure consistente, persino fedele:
Quel gattone arancione
che sguscia dentro e fuori
dalla prigione comunale
come e quando vuole,
mica male eh?
Questo è un aspetto importante, fondamentale: sapere di potersi fidare di traduttori in grado di scelte coerenti e coraggiose dovrebbe essere in cima alla lista di ogni preoccupazione editoriale, prima ancora della scelta del nome del curatore.
Simic, così come Matthew Sweeney, poeta irlandese da lui apprezzato e non tradotto in italiano, ha una predilezione per lo strano, lo strambo. Se in pubblicità esiste lo schema AIDA da applicare a uno spot (Attenzione - Interesse - Desiderio - Azione), Simic a volte pare applicare qualcosa di simile quando tratteggia una scena con pochi colpi, la circonda di curiosità e desiderio, facendo breccia sulla nostra azione, che resta, in ultima istanza, quella di leggere i suoi libri. Va da sé che questo schema può stancare e non appassionare chiunque, ma anche in questa nuova opera lui pare farcela nuovamente soprattutto ad attirare l'attenzione e a suscitare interesse. Penso a testi come "Un nuovo taglio di capelli", "Non dare un nome ai polli", "La medium" o "Questo paese non è male". Sempre Febbraro ha scritto che "sulle bancarelle improvvisate dei suoi versi Simic registra la presenza di quanto è stato scaricato di senso, depotenziato, e che pure reca le impronte digitali di una Storia minuscola, polverizzata, ma integralmente sentimentale".
Fa specie, sia detto in chiusura, leggere le presentazioni che i siti degli editori stranieri dedicano ancora ai poeti affermati. Anche nel caso di Simic non si contano le frasi di ridondanza legate alle citazioni dei premi, all'affermazione del poeta lungo tutta una carriera puntellata di successi, le sue abilità di deliziare con tocchi pittorici. Fuori dai nostri confini non è caduta in disuso nemmeno la dicitura "Poet laureate" che qui da noi ha avuto funerali precoci e solenni con Montale. Fa quasi impressione questo divario di considerazione. Allo stesso tempo io non so come prenderla e tutto ciò non mi pare degno di approfondimenti che vadano oltre questa mera constatazione di differente trattamento. Insomma, non ci elucubrerei troppo e non trarrei affrettate conclusioni sullo statuto o sul ruolo del poeta (portiere, ala, attaccante, quarterback?). Da noi, quando si pensa al poeta, c'è sempre più il rischio di pensare qualcosa di simile all'intellettuale così come lo cantava Gaber ("non credo più all'ingegno del popolo italiano / dove ogni intellettuale fa opinione / ma se lo guardi bene / è il solito coglione"). Parimenti esiste la liberazione di credere, sempre con qualche riga di Gaber, che "rispetto agli stranieri / noi ci crediamo meno / ma forse abbiam capito / che il mondo è un teatrino". A volte, non sempre (solo a volte, eh, sia chiaro) teatrino un po' lo è.
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