"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.
Nuova enciclopedia di Alberto Savinio è da poco disponibile anche in edizione tascabile e economica (pp. 401, euro 15, la precedente edizione, ritratta accanto, era del 1971 e costa 10 euro di più). Si tratta di un libro adatto, com'era il Cynar, a combattere il "logorio della vita moderna". Lo dico sia nel senso della consultazione per voci che si incunea bene nei vari interstizi di una giornata, sia nel senso di liberazione che la lettura di alcune di queste voci procura. Riferendosi a quest'opera "enciclopedica" saviniana nata dal personale scontento per le enciclopedie esistenti ed entrata in gestazione già negli anni Quaranta, Giorgio Manganelli ha scritto così: "Il suo universo è discontinuo, senza approdi, soprattutto senza destinazione. Non si troverà mai il cosmo, non si indagherà mai il significato. Non esiste profondità, ma solo una infinita serie di superfici. Il mondo è una liscia pelle che nasconde altre pelli lisce: all'infinito." Si tratta di una delle possibili fantasie di avvicinamento a queste pagine. Ma ogni voce, che sia "CUPOLA", "DOLCI", "DRAMMA" o "FUCILE", è destinata a depositare qualche scoria nella testa di chi legge. In "DRAMMA" per esempio c'è un passaggio sulla percezione del tempo che definire profetico è dir poco, e si ricordi il periodo di scrittura di questa enciclopedia. Scrive Savinio: "Vi siete domandati perché la vita oggi è tanto rapida, tanto fluida, tanto scorrente? Vi siete domandati perché oggi il tempo passa più presto?... Già ho dato più sopra la risposta: perché oggi la vita è tutta orizzontale e il tempo non trova intoppi al suo cammino". E naturalmente questa felice impostazione per lemmi, sostanziosi o apparentemente frivoli, cuce un libro destinato a persistere nel ricordo di chi lo vorrà leggere. C'è anche quest'aspetto di memorabilità di una lettura sul quale capita raramente di confrontarsi, ma che ogni tanto varrebbe la pena di stanare. Non ho ancora terminato di leggere questo tomo considerevole che tuttavia si presta, come detto, a una lettura frammentaria come la mia e com'è la lettura di qualsiasi enciclopedia. Questa che segue su "CULTURA" è una delle molte voci che mi sono segnato.
CULTURA. La cultura ha principalmente lo scopo di far conoscere molte cose. Più cose si conoscono, meno importanza si dà a ciascuna cosa: meno fede, meno fede assoluta. Conoscere molte cose significa giudicarle più liberamente e dunque meglio. Meno cose si conoscono, più si crede che soltanto quelle esistono, soltanto quelle contano, soltanto quelle hanno importanza. Si arriva così al fanatismo, ossia a conoscere una sola cosa e dunque a credere, ad avere fede soltanto in quella. Cfr. i tedeschi che sono portati alla specializzazione. Anche il fanatismo è una specializzazione. Conclusione: poiché fine della cultura è di far conoscere il maggiore numero di cose, e poiché conoscere una cosa significa distruggerla, fine supremo della cultura è l'ignoranza. Mi si passi questa dichiarazione di orgoglio: io già intravedo questo supremo stato di cultura - questo supremo stato di ignoranza. Già intravedo questa calma suprema, questo sguardo estremamente sapiente che spazia su un mondo di cose conosciute - di cose distrutte. Questo cimitero di cose. Questa pace ultima. In fondo questa mia ‘meta’ si confonde col principio stesso della vita cristiana, che è ignorare; e la supera anzi, perché la meta mia ignora anche Dio. Io non so dire veramente se ignoro Dio perché la mia conoscenza lo ha ‘traversato’, o perché non lo ho mai conosciuto. Resta a sapere se Dio è cosa ‘da conoscere'.
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